Premio Racconti nella Rete 2023 “Nella faretra… un cric” di Emanuela Baldassari
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023La penna trema sul foglio. È esitante, incerta, non sa se sta facendo bene, se conosce le parole giuste per arrivare a te. D’altronde la capisco, come potrebbe non tentennare? È stato sempre così difficile il dialogo tra di noi. Del più e del meno, delle uscite fuori luogo del vicino, del pettegolezzo di turno, insomma, sulla banalità del quotidiano era facile scambiarsi qualche opinione. Il nostro problema non era la superficie (quella era sempre lucida, inattaccabile dallo sguardo esterno, di cristallina lucentezza come un mattonato di marmo sapientemente trattato). Il nostro problema era l’immergerci, lo spostarci dalla riva e prendere il largo, avanzare, andare oltre e in profondità, sentire l’acqua che dalle caviglie pian piano sfiorava i polpacci, le ginocchia, il bacino, la schiena, fino ad accarezzare la nuca, pizzicare il naso, senza avere il timore di annegare, neanche per un momento, perché avvinghiati al salvagente dell’amore. Tutte azioni che una coppia dovrebbe condividere, ma per te la spartizione della vita, quella con la “V” maiuscola, non era importante. La condivisione del resto è questo, giusto? Spartire qualcosa con qualcun altro, un piatto di pasta, una fetta di torta, un’esperienza affinché questa possa crescere, dal momento che solo vivendo anche in un’altra persona essa potrà ampliarsi. «Sei troppo filosofica, fai un giro immenso di parole e si perde il senso del tuo messaggio» mi diresti ora se fossi qui, ma ribadisco la mia convinzione: qualsiasi cosa si faccia in due ha la potenzialità di diventare un progetto comune, di condurre oltre rispetto al punto in cui ci si trova da individui singoli. Evidentemente non abbiamo saputo essere architetti precisi, né attenti ingegneri, ci siamo persi nei calcoli, nei parametri, nei permessi, nella burocrazia del lecito e del non lecito, ma in amore non si dovrebbe fare così: la sua regola aurea è l’espansione di sé nell’altro e dell’altro in sé. Conoscere lo spazio che si occupa in lui e mostrargli quello che lui occupa in noi. Non si tratta di invasione, capiscimi bene almeno ora! Si chiama convivenza. Per te, invece, era sufficiente trovarsi nella stessa unità abitativa, calpestarne il pavimento, respirarne l’aria, ma lo spazio della coppia non è dato una volta per tutte e, soprattutto, per sempre. È un luogo in continua costruzione: i mattoni sono le esperienze che si fanno insieme, i pilastri sono i valori che si scelgono congiuntamente, l’aria che circola in esso sono le confidenze che ci si scambia, le parole d’amore talvolta sussurrate come carezze materne, talaltra gridate come la fame di un neonato. Lo so bene che dagli elementi costitutivi non si può prescindere: un muro portante non si può buttare giù a proprio piacimento, però si possono spostare dei tramezzi, cambiare la posizione dei mobili, scegliere la tappezzeria nuova, ritinteggiare le pareti, insomma dare una veste diversa allo spazio, affinché possa sentirsi nuovo. Che è un po’ quel che fa una donna quando decide di comprare un abito, che a voi uomini sembra simile ad altri già presenti nell’armadio: non distrugge elementi strutturali, cambia solo tramezzature. Non ho avuto misura. Probabilmente no, non ne ho avuta. Anziché migliorare ho stravolto. Anzi… distrutto. Ho intaccato le fondazioni, non eravamo abbastanza forti, noi, per ondeggiare alle oscillazioni di quell’uragano e non abbiamo sostenuto il carico. Ricordo alla perfezione l’incontro che ebbi con quella calamità atmosferica in quell’agenzia investigativa, almeno l’annuncio sul giornale la definiva in questo modo, anche se in realtà tale dicitura non celava altro che una sordida attività di escort. Lei si chiamava Maya. Era l’opposto di me: capelli lunghi biondi, occhi verdi, fisico atletico, padronanza del suo corpo e dell’aria che esso faceva vibrare. E soprattutto, padronanza dei suoi obiettivi. Ma allora non potevo ancora saperlo.
«Insomma, lei vuole la prova d’amore. Vuole capire se suo marito la ama» mi aveva detto con voce ferma dall’accento estero, e sguardo sornione. «Fin dove posso spingermi?» era stata la sua prima domanda. «Vuole sia video che foto?» la seconda. «Quali sono i tempi?» la terza. Alla quarta non la feci arrivare. Capii che ne sarebbero seguite altre e non sapevo se avrei retto all’imbarazzo. Così, lasciai l’acconto pattuito alla segretaria; voltai velocemente le mie rotondità verso la porta, i miei capelli corti neri non si mossero al vento al pari di steli di grano dorati, come dondolavano sulla schiena quelli dell’infima barbie nordica che avevo appena ingaggiato, e i miei occhi scuri, orientati verso il pavimento, guadagnarono presto l’uscita da quel bordello camuffato da organizzazione di pubblica utilità.
«La contatteremo non appena avremo tutto il materiale» fu il saluto che mi accompagnò all’esterno. E quello, “il materiale”, quasi si trattasse di un carico di scorie radioattive da smaltire, non tardò ad arrivare, come un ospite sgradito al campanello quando l’intestino ti costringe in bagno: minuti di sussulti erotici, di incontrollati fremiti spalmati sopra i miei occhi e di ansimate scabrosità verbali bruite nelle mie orecchie. Perché nel tradimento è d’uopo andare oltre la soglia della decenza, e questa non è altro che il limite imposto dal partner ufficiale al nostro gioco sessuale. So cosa mi diresti ora: che la volgarità non esiste. Sono gli occhi con cui guardiamo le cose a sporcarle. Forse hai ragione: i miei occhi sono luridi, ma sono andata oltre. Ho macchiato anche le mie mani quando ho afferrato il cric della mia modesta utilitaria e ho distrutto il parabrezza della tua lussuosissima auto sportiva. A essere resistente ha resistito, nulla da eccepire, materiali di ottima qualità, sicuramente ne consiglierei l’acquisto; i primi colpi, infatti, lo hanno solo abbozzato, lievemente incrinato, hanno intaccato di striscio lo strato corneo della sua superficie. Ce ne sono voluti sei, sette per vederlo esplodere in aria come gli schizzi colorati dei fuochi d’artificio. E io ero lì a godere del mio personale spettacolo pirotecnico, ma c’eravate anche voi, solo che l’angolazione della visuale era diversa: io ero fuori dall’auto, voi eravate dentro. Come brillavate! Vi foste visti! Due star sotto i riflettori. Le schegge rifrangevano la luce dei lampioni e nel colpirvi vi illuminavano. Io volevo solo questo: che tu ti illuminassi, giungessi alla verità, cioè a me, perché la tua verità ero io, solo che ero nascosta sotto il velo di Maya, o forse dovrei dire le mutande, o meglio ancora quel velo delle mutande di Maya. E quel velo dovevo strappartelo via dagli occhi. E dalle mani. E dalla vita.
«Chiara, io amo Maya.”
«Matteo, è una escort che ho pagato per capire se mi ami.»
«Beh… ora l’hai capito.»
Sette anni di fidanzamento, cinque di convivenza, tre di matrimonio (aggiungerei all’elenco anche i sei traslochi, perché dopo un po’ ti annoi e ti piace cambiare. E ora mi è chiaro in modo incontrovertibile quanto tu sia portato alle sostituzioni) che volevi concludere con un “Beh… ora l’hai capito”? Evidentemente io non ce l’ho fatta, avevo bisogno di qualche parola in più, di centinaia di metri, di chilometri di frasi in più che mi spiegassero il senso di tutto. Non potevo certo immaginare che una scheggia le si sarebbe conficcata nel collo e l’avrebbe spedita in terapia intensiva. Non era questa la mia intenzione, l’ho ripetuto più volte alla polizia, ma purtroppo le intenzioni non contano, contano i fatti, mi hanno riposto loro. Se un’intenzione nobile conduce a un fatto ignobile, allora l’intenzione perde la sua originaria signorilità. Lo devo tenere a mente per il futuro. Fortunatamente, le tue preziose mani da cardiochirurgo sono uscite illese: potrai accarezzare ancora altri cuori.
Non so se capirai. Sto procedendo senza freni, come un fiume dopo l’apertura di una diga. Non c’è più sbarramento ormai: il corso d’acqua si è innalzato e ha invaso territori più ampi. È risaputo che quando finisce un’unione il fatto non riguarda mai solo i diretti interessati. L’amore non è una questione personale, noi vorremmo che fosse così, ma è una spinosa, reticolare faccenda sociale: gli amici che si schierano dalla parte di lei o da quella di lui, i genitori dell’uno che danno la colpa all’altro andando a caccia nella memoria di fatti screditanti. Mi sembra già di sentirla mia madre citare a riguardo i suoi ricordi migliori: «Era chiaro che non ti meritasse dalla sgarbatezza con cui ti ha risposto la Vigilia di Natale del 1999, quando gli hai chiesto di prenderti un bicchiere d’acqua a temperatura ambiente e te l’ha portato frizzante e di frigo, totalmente incurante della catastrofe cui saresti andata incontro a causa della sindrome del colon irritabile che è venuta a farti visita sei mesi dopo averlo sposato. Non ti ha accompagnato al primo controllo medico dopo l’asportazione del neo, se avesse tenuto veramente a te sarebbe venuto a piedi nudi su un tappeto di sassolini appuntiti senza lamento alcuno, come si fa in un pellegrinaggio a un santuario in ottemperanza a un voto fatto. Guardava di ogni donna che varcasse accidentalmente la soglia del suo campo visivo anche l’impronta che il suo odore scavava nell’aria». E la traccia nei social? Lasciamo pezzi della nostra intimità che girano in internet, al pari di cellule epiteliali morte sulle lenzuola. Facciamo dei tentativi per farli sparire come con la biancheria del letto battendola dalla finestra, ma l’unico risultato che otteniamo è spargerle nell’aria. Della nostra storia ora è rimasto questo: frammenti confusi e di parte nel ricordo altrui, pulviscoli di bite svolazzanti tra le maglie della rete, e un verbale contro di me negli archivi della polizia.
Non ho intenzione di rileggere. Voglio che questa lettera sia come il discorso che ti avrei fatto se fossi stato qui davanti a me. Non avrei potuto correggerlo, riavvolgerlo e modificarlo. Non voglio dare colpe né scusarmi. Ognuno ha reagito mosso dagli istinti più bassi: tu quelli che custodisci sotto la cintura dei pantaloni, io quelli che eclisso sotto la gentilezza. Nascondevamo entrambi qualcosa. E questo qualcosa ha iniziato a fare troppa pressione, come un barattolo che racchiude più di quanto possa contenere. Così siamo esplosi. So già cosa pensi: a te è esplosa la passione, a me la follia. Devo contraddirti, perché io ero lucidissima, nel pieno di me, di tutte le facoltà mentali, corporee, animiche. Hai capito bene: animiche. Pensate tutti che l’anima sia fragile, accomodante, conciliante. Sbagliate! L’anima è la prima a impugnare la spada quando si tratta di lottare per la sua sopravvivenza. Purtroppo, io di spade non ne avevo: ho trovato solo il cric.
Credo di averti detto tutto.
Ah…
Ti stimavo, ora non più.
Con il verbo amare usare l’imperfetto mi è ancora difficile.
P.S. Dato che grazie a me hai conosciuto l’amore della tua vita, potresti saldare tu la fattura dell’agenzia? Io ho da pagare le spese dell’avvocato (per l’aggressione e la separazione), e come ben sai il mio stipendio da impiegata amministrativa non è di quelli che permette di nuotare ad ampie bracciate. Per di più, il mio capo a causa degli arresti domiciliari mi ha sospesa dal lavoro. Secondo me non mi ha licenziata in tronco, perché ha paura che io dia di matto: vuoi vedere che con questa faccenda dei fuochi d’artificio ora le persone mi prenderanno in maggiore considerazione? Dobbiamo mostrare agli altri anche la nostra ombra. O la nostra luce? Non ti nascondo che la parte di me riottosa non mi infastidisce per niente, anzi… mi piace parecchio. Capisco che al prossimo procuri qualche disagio, perché si gestisce meglio un docile agnellino che un ariete agguerrito, ma a questo punto non me ne importa. Ciascuno deve fare i conti con sé stesso. Al momento, per i miei avrei bisogno di un calcolatore multifunzione. Ora basta! Questo post-scriptum sta diventando un plus scriptum. E non va bene. Alcune cose dovrebbero essere inalienabili: le gambe depilate, il pranzo di Natale, i matrimoni.
Tua (fin quando lo sono stata) Chiara.
(E tu, mio, lo sei mai stato?)