Premio Racconti nella Rete 2023 “Pesciolini rossi” di Francesco Mola
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Era il mese di agosto del 2002. Sono trascorsi dieci anni. Quell’estate è stata l’ultima volta che ho visto mio padre.
Dalla veranda della mia casa in campagna guardo gli ulivi padroneggiare nel rosso della terra e, in mezzo, colonnine di fumo scoppiettanti inerpicarsi nel cielo a sporcarne l’azzurro e arricchire l’aria di un odore acre abbastanza gradevole.
Prima di uscire do una rassettata alla casa, mi faccio una doccia, infilo nel trolley una camicia, due paia di slip, due di calzini e raggiungo l’aeroporto.
Devo prendere il volo per Linate.
Una volta effettuati i controlli di sicurezza, prendo visione del gate per l’imbarco. Nell’attesa mi siedo accanto a un tipo con la barba squadrata e un occhialino stile Cavour. Mio padre ha indossato per anni quel tipo di montatura. Gli stavano bene sul suo viso paffuto. Facce di sole li chiamano quelli con la faccia rotonda. E pure io sono un faccia di sole, anche se non voglio ammetterlo. Ho preso tanto da papà, non solo la forma del viso.
Con un piede faccio scorrere il trolley assicurandolo tra i polpacci. Intanto il tipo accanto guarda l’orologio. Lo vedo teso. Si sistema il cilindro corto e bombato sopra la testa. Ha tutta l’aria di essere un broker. Mi chiede se anch’io sono diretto a Milano. Gli faccio cenno di sì con la testa. Non mi va di attaccare bottone con nessuno.
Ho in mente solo mio padre, la sua compagna, Franca, per la quale era andato via da casa e quel sogno fatto due sere prima in cui lui mi diceva di aver cura della mamma, di Francesca e di Massimiliano… solo perché ero il fratello maggiore. Poi mi ha dato un bacio sulla guancia destra e si è volatilizzato.
Chissà se l’avrei riconosciuto invecchiato di dieci anni e con i segni della malattia addosso.
Devo dire che questo sogno mi ha inquietato così tanto che ho trovato un pretesto per andare a trovarlo e rompere quel muro di orgoglio e di apatia che avevo tirato su subito dopo il divorzio.
A Milano si era rifatto una nuova vita papà insieme a Franca. So che anche lei è divorziata e ha un figlio. So pure che si prende cura di mio padre da quando si è ammalato.
Difficile pensare a mio padre costretto dentro un letto, lui, uno sportivo che odiava stare in casa. Lui che la domenica mattina mi portava sempre al campetto e mi insegnava a palleggiare come Diego Armando Maradona. Ma io gli dicevo che volevo essere come Marco Simone che in pochi conoscevano ma che nel Milan segnava sempre quando entrava. E poi si chiamava come me. E allora lui mi diceva: “Ok, tu sei Marco Simone, ma attento che Maradona è più forte e ti fa il tunnel!” e mentre con i piedi si dilettava in mille giochetti con il pallone io lo guardavo estasiato, e lo ascoltavo divertito fare la telecronaca della sfida con la voce di Bruno Pizzul. Spesso poi fingeva di sbagliare facendosi fare il tunnel pure lui, regalandomi piccoli momenti di gloria.
È stata Franca che mi scrisse un sms per darmi notizia sull’aggravarsi delle condizioni di salute di papà che al telefono stentava ormai ad articolare le parole.
Io le avevo risposto che ci sarei andato a Milano, che presto sarei passato a trovarlo. Ma così non era stato.
Avviso dunque Franca della mia imminente visita. Lei non mi chiede spiegazioni. Appena arrivo a casa, nei pressi di viale Zara, con fare cortese mi apre la porta, facendomi strada lungo il corridoio.
“Non spaventarti!” mi dice.
“Sono tranquillo.”
Eccolo là mio padre. Nel letto con il naso che gli spunta da sopra al risvolto del lenzuolo e due tubicini per l’ossigeno accanto a un altro tubo che si alza verso una flebo sospesa a mezz’aria come una cornamusa trasparente e stonata.
Lo sguardo perso in qualche punto del soffitto.
Dov’erano finiti quegli occhi che mi guardavano diretti quando combinavo marachelle o mi accoglievano gioiosi quando gli saltavo addosso per baciarlo?
“Papà!” gli dico.
Ma lui non distoglie lo sguardo dal vuoto.
“Sono io, Marco!”
I capelli stropicciati e diradati sopra la fronte, ingialliti dal male con cui si è stancato di combattere. Mi avvicino per sistemarglieli su un lato, trovando un pretesto per poterlo toccare.
“Mi dispiace” gli dico nell’orecchio con un tono di voce freddo che le carezze non riescono a scaldare.
Ha un odore fresco di dopobarba sul volto, la pelle diafana, quasi trasparente. Sospira senza forza nei polmoni. Il fiato corto, quasi ansimante, tradisce una nota pungente che denota un vago sentore chimico, forse un qualche mix di medicine salvavita. Le lenzuola sanno invece di lavanda. Gli raccolgo la mano. Le unghie ben tagliate, le mani morbide nonostante la magrezza delle dita. Dita appuntite che sembrano volermi affondare dentro come aghi di siringhe ad assopire anche le mie di ferite da lui provocate.
Non evita però di tramortirmi, esibendo cruento la sua condizione, come se questo potesse bastare a giustificarsi.
Allora faccio un sospiro anch’io.
La mia capacità polmonare supera di gran lunga la sua. E glielo voglio far notare. Per comunicargli che sto bene. O forse per accentuare il divario delle nostre vite che non si incontravano da troppo tempo.
Forse pretendo troppo da lui adesso. Cosa può capire ormai? Troppo consumato quel corpo che ho difronte e che non mi somiglia più. Adesso non è più un faccia di sole e sono io a portarmi la sua eredità sul volto.
Mi giro un attimo alle spalle. Osservo Franca mentre mi guarda a sua volta, pensando di alleviare il mio dolore con un sorriso accennato e sobrio. Non ce n’è di bisogno. Tuttavia non posso non constatare l’attenzione quotidiana che lei gli dedica. E che stranamente mi rincuora.
So che da quando papà si è ammalato lei non fa altro che dedicarsi a lui. Giorno e notte. Che in casa non ci sono badanti o altri che se ne prendono cura. Ma nonostante ciò ha l’aspetto di un ottantenne pur avendone settanta di anni. Non ha rispettato la promessa, mi dico, né lui né la mamma quando davanti alle mie domande mi giuravano che non sarebbero mai invecchiati, quando gli chiedevo quanti anni avrebbero avuto quando io sarei diventato grande e chiedevo loro pure di rimanere sempre belli e felici e con quell’aspetto.
“Massimiliano…” prova a biascicare.
“No papà, sono Marco!”
“Chi?”
“Marco, il tuo figlio maggiore, papà!”
Il filo di voce gli si spezza quando tenta di ripetere il mio nome imboccato dal mio lento sillabare MAR-CO.
“Su, ripeti papà, MAR-CO.”
Non mi è difficile trovare il coraggio di parlare. Qualsiasi altro figlio normale sarebbe già scoppiato a piangere. Io invece, forse inconsciamente, avevo previsto l’evolversi di quella malattia dai contorni subdoli che richiedeva coraggio. E tutti quegli anni di assenza dovevano avermi rafforzato. O più crudelmente raffreddato.
“Francesca e Massimiliano stanno bene… e anche la mamma!”
Chissà se gli importava ancora di mamma, di sua moglie, la sua vera moglie, dei suoi figli, della sua famiglia d’origine. Di Francesca e di Massimiliano. E di me, del suo Marco, del suo figlio maggiore, il prediletto. Chissà se quella malattia gli aveva lasciato uno spazio per me, in un angolino della sua memoria sbiadita. Molto probabilmente no, altrimenti non sarebbe andato via da casa lasciando la moglie con tre figli in balia del loro destino.
Lo guardo. Per un attimo penso che in fondo il destino è giusto. Che quel meccanismo che tutto riequilibria e che si chiama Karma ci veda benissimo e riassesti tutto facendo pagare dazio già in questa vita.
Mio padre davanti ai miei occhi in quel momento. Trasfigurato nei suoi lineamenti da un male irreversibile. E io là, a fare a pugni con la compassione. Una battaglia persa penso. Sui sentimenti che ti appartengono è sempre difficile indagare. Più semplice constatare la dedizione amorosa di Franca. Un dato di fatto. Così ammirevole che vorrei consolare io lei e sorriderle più discretamente di quanto non faccia lei con me. Sembra molto in pena. Tra non molto si sarebbe dovuta staccare da mio padre. E anche in questo il Karma era atrocemente giusto perché la verità è che non gli si sarebbe dovuta mai attaccare addosso.
Un po’ mi vergogno di essere figlio, perché non riesco a comprendere il significato viscerale di un tale legame. Dovrei forse rinnegare la mia condizione. Ma poi penso che è una cosa normale, penso che tutti siamo figli ma non tutti siamo padri. E così torno a credere che il problema dovrebbe porselo lui e tormentarsi per essersi svincolato da quel legame naturale.
Lo guardo mio padre. In una nuova smorfia di dolore, in una nuova ruga che regala la sua guancia molle appesa sopra il labbro svuotato dal tempo.
Devo uscire da quella stanza. Mi sento un estraneo. Lui che continua a guardare il soffitto. A non saper pronunciare nemmeno il mio nome. Franca che mi guarda con un moto di compassione capace di schiacciarmi ancor più nel dilemma della mia inadeguatezza.
Non è giusto che tutto finisca così, con un senso di colpa inestinguibile.
Poggio la guancia sulla sua.
Riesco a rivedere le volte in cui mi fiondavo nel letto tra lui e la mamma per essere coccolato e subito dopo anche Francesca e Massimiliano ci raggiungevano e tutti e cinque giocavamo su quel letto a essere felici.
Rivedo poi sfocato il giorno della prima comunione e quel cravattino blu con i pesciolini rossi. Dopo avermelo annodato mi dice che adesso sono anch’io un uomo come lui. E accovacciato mi bacia chiedendomi se sono pronto. E io gli annuisco con la testa che sono pronto. Che sono un uomo. Ma so che non è così perché sento di essere sempre il suo bambino. Perché non si è mai pronti veramente. Nessuno lo è. Ma nonostante ciò gli confermo fermamente: “Sì, papà, sono pronto!”
La mia guancia è ancora sulla sua che ripercorre un passato fatto di gioie prese e lasciate, di affetti concessi e negati, di nostalgie silenziose e speranze. Sento il cuore che porta alla testa i pensieri e la vena del collo che aderisce al suo in un pompare di emozioni.
A un certo punto il mio viso comincia a bagnarsi. Papà sta piangendo. Non voglio staccarmi da lui. Voglio sentirlo. Ciò che lui ha dentro, ciò che è per me. Ci sono io a scorrergli dentro, nel suo sangue, nella sua linfa, nelle sue lacrime. Ci sono io, suo figlio, nel suo DNA.
E adesso nemmeno io posso più trattenere tutto dentro. Sto per scoppiare.
E mi arrendo, mischiando le mie lacrime alle sue, ricomponendo un’antica fusione di liquidi che sembra un fiume in piena capace di travolgermi e di immergermi come in un lavacro sentimentale purificatorio.
La mia memoria sembra fare da supporto alla sua nel tentativo di inerpicarsi e provare ancora a fare qualche scalino insieme. Uno spiraglio di lucidità, di magico bagliore quelle lacrime che continuano a sgorgare infrenabili.
Piango senza riuscire a smettere. Piango come un bambino. Come il bambino felice e invincibile che ancora mi sento tra le sue braccia. E gli dico che no, non sono ancora pronto. Che quella cravatta voglio ancora che me la annodi intorno al collo.
Recupero la busta lasciata sul comodino accanto al letto. Il mio desiderio inammissibile tenuto represso per tutti quegli anni sta per materializzarsi. Il tempo ha fatto il suo decorso invertendo i ruoli, senza per questo snaturare le sue leggi. Tiro fuori la cravatta. I pesciolini rossi si sono ormai sbiaditi. E il fondo blu è ormai un grigio cielo opaco. La bacio mentre le mie labbra sembrano accennare un sorriso. “È sempre la mia preferita sai papà?” gli dico, mentre con cura gliela annodo attorno al suo di collo, dribblando i tubicini e ricostituendo come nuovo quel cordone di complicità mai spezzato, nonostante tutto.
Lui posa gli occhi bagnati su di me con un amore ritrovato, riconosciuto. Sembra volermi dire qualcosa, muove le labbra a stento. Queste scivolano disarticolate tra loro senza efficacia come fossero su una lastra di ghiaccio.
Allora mi avvicino per poter ascoltare, mentre con le mani gli stringo le sue.
“Dimmi pure papà, ti sto ascoltando.”
Lui mi bacia e dopo aver preso una boccata più consistente mi sussurra in un orecchio: “Sono pronto amore mio!”
Struggente. La morte di un genitore è fatta di un dolore inestinguibile misto a sensi di colpa, a cose non dette e ad un vuoto che mai più si colmerà. Tu sei riuscito a trasmettere questo sgomento con estrema dolcezza, con una scrittura che coinvolge il lettore fino all’ultima sillaba.
Bravo, e… grazie.