Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Nido di Rondine” di Annabella Susanne Gunzel

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Cerco affannosamente le chiavi nella borsa. Per quanto mi impegni, e ogni singola volta me lo riprometta, non riesco mai a mettere le chiavi nella stessa tasca. Spazientita appoggio per terra la busta della spesa che stavo tenendo nell’altra mano, mi tolgo la borsa dal braccio e inizio a rovistarci dentro con rinnovato vigore. Alla fine, trionfante, tiro fuori il mazzo di chiavi. Mi rimetto la borsa in spalla, infilo la chiave nella serratura arrugginita del portone e la giro con forza. Con un forte cigolio il portone della palazzina parigina si apre. Mi affretto a riprendere la busta della spesa e ad entrare. Lascio che il pesante portone si richiuda dietro di me con un tonfo. Faccio una smorfia: mi aspettano sei piani di scale da fare a piedi. Cerco di ricordarmi per quale motivo ho scelto di vivere all’ultimo piano di quell’edificio senza ascensore e, con un sospiro, inizio la salita. Si potrebbe dire che sono scappata; scappata da una vita troppo frenetica e da una relazione che mi faceva sentire in prigione. Forse, però, “scappata” non è la parola giusta. Quando si è presentata l’occasione di lavorare a Parigi, l’ho subito colta. Nel giro di alcune settimane ho: dato le dimissioni rinunciando ad un sicuro lavoro a tempo indeterminato a Milano, chiuso una storia che durava da tre anni, trovato un subentrante per il mio appartamento, convinto i miei genitori, e in particolare la mia apprensiva madre francese, che un’esperienza all’estero non mi avrebbe fatto altro che bene, e, soprattutto, trovato casa a Parigi. In tutto ciò, potrà sembrare strano, ma trovare casa è stata la parte più difficile. Avevo soltanto tre settimane per fare tutto perchè avevo già firmato il nuovo contratto di lavoro presso una prestigiosa boutique in Galeries Lafayette. Guardavo e rispondevo ad annunci online di alloggi a Parigi e, per potere andare a vedere gli appartamenti, fissavo gli appuntamenti con le agenzie o i proprietari nel weekend. Dopo il primo fine settimana a Parigi passato a correre da un lato all’altro della città, ero molto scoraggiata. Infatti, ho scoperto ben presto che molti degli alloggi parigini sono a dir poco minuscoli. Quando nella descrizione degli appartamenti leggevo: “dimensione 12 metri quadrati” o ancora “dimensione 8 metri quadrati”, pensavo si trattasse di uno scherzo. Con il mio futuro stipendio, inoltre, il budget per trovare casa era pure più alto del previsto e, quindi, ero ancor più convinta che quei numeri fossero un errore. Ho realizzato subito di essermi sbagliata dopo aver visitato il primo alloggio. Molti degli “appartamenti” disponibili, infatti, non erano altro che le cosiddette “chambre de bonne”. Queste, una volta, erano gli alloggi della servitù delle famiglie dell’alta borghesia. Si tratta di dei monolocali costruiti all’ultimo piano o nel sottotetto degli eleganti palazzi storici parigini. In alcuni casi, per accedervi, è addirittura necessario passare dalle scale di servizio e spesso, quando c’è, l’ascensore costruito in epoca moderna, non vi arriva. 

Così, il fine settimana successivo, mi sono ritrovata in un ampio boulevard del 9° arrondissement di Parigi, a fissare a bocca aperta una palazzina storica del XIX secolo. Ho controllato più volte l’indirizzo indicato nella mail di conferma dell’appuntamento, per assicurarmi di non aver sbagliato posto. Ho controllato il numero civico: corrispondeva. Anche il nome della via corrispondeva. Non c’erano dubbi; l’appartamento da vedere era proprio in quel palazzo. Lo splendido ed imponente edificio era come uno di quelli che si vedono nelle cartoline o nei film, aveva i balconcini in ferro battuto tipici di Parigi ed era impreziosito da elaborati stemmi dello stesso materiale. La linea del ripido tetto mansardato creava un senso di maestosità. Ho suonato il citofono e una voce maschile mi ha risposto in francese dicendomi di entrare e di aspettare. Con uno scatto il portone dalla serratura arrugginita si è aperto, l’ho spinto e sono entrata nell’androne ampio e fresco. L’incaricato dell’agenzia immobiliare a cui mi ero rivolta, un uomo giovane sulla trentina con un ciuffo spettinato che continuava a cadergli davanti agli occhi, mi ha raggiunto in poco tempo, si è presentato e mi ha invitato a salire le scale con lui. Gli ho chiesto se ci fosse l’ascensore e lui mi ha risposto di no; cosa che nell’annuncio, ovviamente, non c’era scritta. Ho seguito l’uomo e abbiamo iniziato la nostra salita. Ammetto che dopo i primi piani ero già senza fiato, ma non volevo assolutamente far vedere allo sconosciuto di essere fuori forma, quindi, ho stretto i denti e sono andata avanti. Arrivati al sesto piano, ormai, ero grondante di sudore e sentivo i muscoli delle gambe bruciare. L’agente immobiliare, ansante quanto me, ha tirato fuori un mazzo di chiavi dalla tasca dei pantaloni e si è diretto verso l’unica porta dello stretto pianerottolo. Siamo entrati nell’appartamento e l’agente ha iniziato a parlare, spiegandone le caratteristiche, ma io ormai lo ascoltavo distrattamente. Da quando avevo messo piede nel piccolo monolocale mansardato, non riuscivo a fare a meno di pensare che fosse perfetto. Le pareti e le travi del soffitto leggermente in pendenza da un lato erano di un legno chiaro. L’arredamento era minimale e pieno di ingegnose soluzioni salvaspazio: divano-letto, tavolo e sedie pieghevoli. La luce del sole si riversava nel locale. L’inaspettatamente ampia finestra dava sul largo boulevard costeggiato da palazzi storici. Mi sono avvicinata alla finestra ignorando l’agente che stava continuando a parlare e l’ho aperta. Mi sono affacciata e un leggero vento mi ha scompigliato i capelli. Ho visto Parigi dall’alto con i suoi tetti e quello scorcio della città mi ha tolto il fiato. La casa era perfetta. L’avevo trovata; era piccolissima, ma era mia. Quella casa di cui chiunque si sarebbe lamentato perchè c’era poco spazio e perché c’erano da fare sei piani di scale a piedi, a me pareva meravigliosa.

«La prendo», ho detto all’agente immobiliare. Ricordo che quel giorno, quando sono uscita dal palazzo, ho pianto. Ho pianto perché non mi pareva vero; mi sembrava che il cielo mi stesse dando un’altra possibilità. Ero libera di poter ricominciare ed è stato allora che ho deciso di lasciare Luca.

Ormai sono quasi sei mesi che vivo qui, ma quando arrivo al pianerottolo del sesto piano sono sempre senza fiato. Appena varco la soglia di casa, però, mi dimentico della fatica. Sì, perché nonostante io abbia meno della metà dello spazio che avevo a Milano, quel piccolo appartamento di 20 metri quadrati, sa di casa più di qualsiasi altro posto in cui abbia mai vissuto. Appoggio la spesa sul tavolo. Mi verso un bicchiere di vino e mi lascio cadere pesantemente nella sedia di fronte alla finestra. Mi appoggio al davanzale con i gomiti e sospiro lasciandomi scivolare di dosso il peso della giornata. Fin dai primi giorni, il lavoro in Gallerie Lafayette, si è rivelato essere quello giusto per me e le giornate volano. Mi sono innamorata di Parigi: delle rive della Senna che si riempiono di gente al primo raggio di sole e dei pomeriggi della domenica, quando quasi tutti i negozi sono chiusi e camminare per le vie quiete della città mi rigenera l’anima. Mi sono rifatta una vita in pochi mesi e mi sono scoperta più forte di quanto immaginassi. Ripenso a Luca; Luca che non mi faceva mai sentire all’altezza. Ora mi domando perché non l’ho lasciato prima. Perché ho permesso per tre anni ai suoi commenti sottili e sprezzanti di minare ogni mia sicurezza e di farmi dubitare tanto di me stessa? In fondo, mi sono sempre vantata di non farmi problemi nel dire quello che penso. Forse, lui, è riuscito a farmi dubitare anche di quello e io, gliel’ho permesso. Schiocco con la lingua; non ho ancora fatto pace con me stessa a riguardo. Penso a quando gli ho detto che era finita; avevo il cuore che batteva a mille e le parole uscivano a singhiozzi. Lui mi ha dato un bacio sulla guancia ed è andato via. Io mi ero aspettata il finimondo e, invece, era sceso il silenzio e mentre lo osservavo allontanarsi, mi sono sentita leggera. Scuoto la testa; non voglio più pensarci. L’adesso è buono e tanto mi basta. Guardo fuori dalla finestra. La casa dall’altro lato della strada di fronte alla mia ha il tetto spiovente e con l’arrivo della primavera ho scoperto che le rondini ci costruiscono i loro nidi. A volte, passo i pomeriggi a osservare i loro voli irregolari nel cielo del viale. Ad una delle mie vicine il loro garrire dà fastidio; a me, invece, fa compagnia. Da quando sono arrivate le rondini, il mio cuore si è alleggerito. Sorrido tra me e me. Mi sento stranamente simile a quegli uccelli, perché anche la mia casa, come le loro, è posta sotto un tetto, ma soprattutto, perché le rondini sono migrate per sfuggire all’inverno e, come loro, sono migrata anch’io. Ecco, forse la parola giusta è questa: “migrata”. Suona decisamente meglio di “scappata” ed è quella che fa al caso mio.

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