Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Le lacrime in tasca” di Marina Corsi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Cronaca d’amore e libertà

L’anoressia è un richiamo d’amore urlato (Fabiola De Clerq)

È una fresca mattina d’estate, la strada si presenta deserta di fronte ai miei occhi. Guido freneticamente, per arrivare in tempo all’appuntamento. Vari pensieri corrono nella mia mente, gli occhi vagano in quell’immensa distesa di sabbia e di mare. Tutto sembra essere così accogliente: la striscia azzurra del cielo mi accompagna.

Il profumo delle ginestre si sparge nell’aria e mi dona un’inconsueta allegria. So di andare troppo in fretta, vorrei fermarmi per godere di tutti quegli odori e quei sapori che avverto sulla mia pelle, ma è troppo tardi. Sento sul viso il fresco sapore del mare, i miei seni respirano l’odore intenso dei fiori gialli delle dune, le mie gambe provano il calore rosso della sabbia. Improvvisamente, in lontananza mi sembra di udire grida giocose di bambina. Piano piano si delineano come in trasparenza degli occhi grandi, curiosi, pieni di una delicata tristezza. Mi rivedo bambina, capelli lunghi e lisci, labbra ben disegnate e quell’aria troppo malinconica e poco infantile per la mia età.

Mi diverto a tirar calci nell’acqua e a correre veloce a piedi nudi sulla sabbia ancora fresca del mattino. Cosa avrei voluto essere in quel momento? Forse un bel gabbiano per poter volare. L’immensità del cielo e del mare mi affascina, così come tutto ciò che si estende illimitatamente intorno a me. In quell’immensità la mia fantasia può creare delle immagini irreali e sognare degli spazi infiniti.

Il piede spinge forte sull’acceleratore e quelle immagini mi corrono dietro. Visioni, sogni, pensieri, tutto si accavalla nella mia mente. Risento dei suoni, delle voci, il mio pianto. La voce di mia madre:

Hai le lacrime in tasca, possibile che ogni volta che si deve uscire, tu pianti una grana?

Sei la solita piagnona rompiscatole – fa eco mia sorella, più grande di me di cinque anni.

Io non sapevo cosa fosse quel disagio che provavo. Gli occhi improvvisamente si riempivano di lacrime e inondavano il mio viso piccolo e minuto. Ho sei anni in quella foto sul mobile della sala da pranzo; ho il vestitino da casa azzurro, gli occhi languidi, lo sguardo triste.

Sono sola. Non so cosa mi faccia star male. La mamma si preoccupa solo se ho mangiato, se sono ben vestita e se tutto è in perfetto ordine per uscire. Nessuno mi chiede perché sia triste, perché pianga. Da sempre sento ripetermi che non voglio bene a nessuno e così sono cresciuta con questa convinzione. A soli pochi mesi, uno spasmo allo stomaco mi faceva rimettere tutto. Sono passati sei anni e quello spasmo si è trasformato in ansia.

Corri, sbrigati che passa il pullman per andare a scuola!

Il suono inconfondibile del clacson mi rimbomba ancora nelle orecchie, puntualmente rimettevo la colazione che avevo forzatamente mandato giù poco prima.

Finalmente si arriva a scuola. Qui so il fatto mio, sono la più brava, sempre al primo banco, leggo e scrivo già all’età di cinque anni. La mamma mi ha insegnato tutto.

Di nuovo l’angoscia mi prende quando sento diffondersi l’odore inconfondibile del refettorio. Si sparge nei corridoi, quell’insipido sapore di minestra.

Dai, stupida, mangia. Perché piangi? Cosa ci vuole a finire, sono solo pochi cucchiai! – incalzava mia sorella impaziente di andare a giocare.

Le lacrime mi scendevano senza sosta.

Continuo ancora lungo la strada che costeggia il mare. I gabbiani si allontanano a gruppi, all’arrivo dei primi bagnanti. Un ultimo gabbiano solitario indugia ancora sulla sabbia. La corsa di un bambino verso di lui, lo fa librare alto nel cielo. Seguo con lo sguardo la sua virata dietro il promontorio, il suo verso risuona come in un’eco lontana.

Sono seduta accanto alla mamma, nella vecchia cucina con il tavolo di marmo bianco e l’odore del sugo appena fatto. Pendo dalle sue labbra, sta intonando una vecchia canzone romanesca. Piango per le storie che si narrano in queste canzoni.

Ho buona memoria dei racconti di mia madre, mi scolpivano dentro, mi entravano nell’anima.

Vivevamo in simbiosi, da lei non riuscivo a separarmi. Nel nostro perfetto microcosmo, dove tutto sembrava funzionare alla perfezione, nessuno si accorgeva di me, della mia solitudine. Ognuno di noi era pietrificato, imprigionato, non circolavano le emozioni, i desideri, tutto era perfettamente calcolato, misurato.

Esci da quello stanzino, non c’è aria! – mi ripeteva mia madre.

Invece era lì, la vera aria, la mia aria. Nel mio rifugio mi isolavo e vivevo i miei sogni ed i miei desideri di bambina. Ero al riparo dalle liti dei miei genitori, e mi proteggevo dall’invadenza di mia madre, che come un uragano entrava prepotentemente e mi obbligava ad uscire e a spegnere la luce. Così costretta a restare al buio per ore ed ore, sentivo crescere la paura, tanta paura, finché non scoppiavo in un pianto sommesso.

In quel piccolo angolo, tra gli odori di detersivi e di polvere, mi nascondevo per sfuggire al mondo, alla vita.

C’è molto vuoto dentro e fuori di me. Ormai riesco ad amare solo il vuoto, ciò che non c’è.

Cammino nell’aria, sui parapetti della mia casa, dal quarto piano scendo, librandomi nell’aria percorro obliquamente le pareti del palazzo. Mi sento leggera, libera di andare e venire, salire e scendere e lo faccio con una grande disinvoltura: non ho paura del vuoto, guardo in basso e tutto mi appare normale. Mi trasferisco da una stanza all’altra passando da fuori, non percorro lo spazio interno del mio appartamento, ma mi servo di quello esterno che nessuno vede e soprattutto nessuno sa che esiste, perché ovviamente, è impraticabile agli altri.

Ogni volta che chiudo gli occhi mi capita di fare questo sogno.

Sono una ragazzina che vorrebbe fare tante cose, che ha un grande bisogno di sfogare la sua creatività, la sua fantasia. Amo la danza e per ben due volte mi viene negata. Mia madre mi ha sempre tarpato le ali.

Per tutto il periodo della pubertà non ho  deluso le sue aspettative. Sempre la prima della classe, la figlia perfetta, educata ed obbediente, poi improvvisamente sono diventata la figlia ribelle, l’oppositrice.

Non volevo adattarmi più ai suoi desideri, alla logica che cercava di impormi, e che mi proponeva come l’unica valida. Non potevo esprimere con lei nessun tipo di desiderio, nessuna aspirazione perché subito riusciva a sminuire tutto. Di fronte ad una logica così rigidamente impietosa avevo solo due possibilità, la sottomissione o la ribellione. Ho cercato di adottare inizialmente la prima, poi la seconda.

Pur di farmi mangiare, mi prometteva  tante  cose che poi puntualmente non manteneva. Mi sento ingannata, penso di poter meritare molto di più di quello che ho, più comprensione e più rispetto per le mie esigenze ed i miei bisogni non primari.

Comincio a vagare alla ricerca di punti fermi, di una mia identità. Non sono più in grado di decidere da sola cosa desidero veramente, forse non ho più neanche un desiderio oppure è solo paura di averne uno. Mi reprimo e nel frattempo mi chiedo dov’è la mia realtà. Mi sento una nullità.

“Non ti fidare di nessuno, ricordati che solo tua madre può darti consigli senza altri fini” – così mi preparavo al mondo.

La mamma mi ha insegnato che la felicità non esiste.

In nome di questo suo amore per me, mi chiudeva e mi proteggeva dai pericoli esterni. Si può condannare una madre per avere troppo amato? Eppure da quell’amore cercavo di fuggire, di liberarmi.

È da un po’ di tempo che mangio sempre di meno. Scruto il mio corpo allo specchio, sono già donna: le forme si impongono sotto i vestiti che diventano sempre più larghi per nasconderle, gli sguardi degli uomini accrescono la mia difficoltà ad accettare questo corpo che piano piano si trasforma e matura. Rifiuto di crescere, rifiuto il mio corpo, la mia sessualità. Rifiuto il mondo esterno, ho paura di non farcela ad affrontare la vita, ho paura del confronto con gli altri. Temo le sconfitte anche le più banali. Mi chiudo sempre di più. Vivo isolata anche dal mondo dei miei coetanei.

Comincio a rallentare, non ho più voglia di correre, il mare è alle mie spalle, il paesaggio sta cambiando improvvisamente sotto i miei occhi. Piccole alture si alternano a campi di girasoli. Il sole è già alto nel cielo, forse ho qualche minuto per riposarmi. Scendo dalla macchina, l’asfalto è rovente, l’umidità mi incolla addosso il vestito. Cerco un po’ di fresco in un bar sulla strada. È molto piccolo e pieno di volti seccati dal sole, sono tutti uomini. Indugio, sento il peso degli sguardi fissi sulle mie forme invadenti, ho le labbra secche e non riesco a parlare.

Non ricordo proprio quando è iniziata quella che gli altri chiamano la mia malattia.

Terza media. La visita scolastica. Cammino in lungo e in largo, seminuda sotto gli sguardi di due dottorini che tra di loro azzardano dei commenti, ammiccano e ridono compiaciuti. Avrei voluto scappare via e nascondermi, sentivo tutto il peso del mio corpo, il disagio che stavo provando era tutto lì, in quelle forme ormai da donna.

Il giorno successivo la visita scolastica elimino subito tutto quello che posso, sfuggendo inizialmente al controllo materno.

Il mio stomaco però si ribella. I morsi della fame si fanno sempre più insistenti, i crampi dolorosi mi svegliano la notte. Bevo acqua. Non voglio cedere ad un bisogno che è solo materiale.

A mano a mano riesco a controllare anche la fame, allenando il mio corpo a non mangiare. Tutto questo mi da sicurezza, è il mio grido, la mia ribellione.

Vivo costantemente con le mie insanabili contraddizioni. Amo la vita, ma invoco la morte, ho fame, ma mi ostino a non mangiare.

Le mie braccia iniziano a somigliare a tronchi di rami in autunno, il seno è ormai un piccolo abbozzo sul mio scarno torace, anche le gambe non hanno più forma. Mi guardo allo specchio e mi trovo bella. Mi piace il mio corpo ridotto all’essenziale, senza forma, adesso lo posso anche mostrare. Mi sento più libera, ora mi posso vestire come voglio. Ostento jeans e maglietta, Sono riuscita anche a liberarmi delle mestruazioni, adesso sono davvero diversa.

Se sono più leggera potrò alzarmi e volare via.

L’aeroporto brulica di gente, per la prima volta sono un passeggero come tanti che prenderà un volo per Londra. Sono molto entusiasta, non ho nessun tipo di ansia o di paura, vorrei solo affrettare la mia partenza.

Mi sento molto forte, in grado di riuscire in tutto. Cammino tantissimo, non mangio quasi mai.

Nessuno mi chiede perché non mangi, nessuno sembra accorgersi di quanto sia magra.

Mi sono aggrappata a questa situazione e per ben otto anni l’ho vissuta come l’unica soluzione di rottura con il contesto in cui vivevo, mi rigenerava, mi dava forza per continuare a vivere.

Durava poco però, perché ogni volta al rientro cadevo in una forte depressione.

Ho da poco superato i vent’anni e la mia vita trascorre sempre come prima. Frequento l’università, ma non sono soddisfatta, lavoro allo stesso tempo e mi sottopongo ad uno sforzo che supera le mie capacità. Considero la vita come una continua prova di resistenza, mi affanno in mille attività per convincermi che sono ancora viva.

Cerco una strada da seguire, non capisco cosa desidero, cosa voglio fare, quale sia il mio posto in società.

L’idea di ripartire e andarmene mi perseguita di nuovo.

Il desiderio di fuga mi accompagna sempre.

Uso continuamente il cibo come barometro delle mie emozioni: sono insoddisfatta, non mangio.

Sono a casa sola con mia madre, quando ad un tratto la vedo scagliarsi contro di me con la punta di un ombrello che va a colpirmi in un occhio dal quale comincia a scorrere molto sangue. La supplico e la incito affinché continui a colpirmi. È pronta ad infilzarmi di nuovo, in un’altra parte del corpo, quando invece la fermo, ho paura. Le chiedo allora di fare in modo che io non  me ne accorga, ma lei rinuncia.

Ritrovo questo sogno scritto sulle pagine di un diario, anche la calligrafia mi appare molto turbata e cambiata. Ho dimenticato gran parte della mia sofferenza, di quei giorni terribili in attesa della morte che aspettavo come salvezza contro il mio dolore del vivere.

L’anoressia mentale è stato il mio ultimo grido contro un bisogno d’amore mai soddisfatto. Come attraverso una lente d’ingrandimento ora vado incontro alla vita, provo il piacere di scoprire le piccole cose, i piccoli gesti.

Riprendo a mangiare, piano piano come un malato. E come un vero malato provo dolore nell’ingoiare i primi bocconi, forse è disgusto o forse è rabbia. Ho rinunciato a lottare? Mi sono lasciata dietro tante angosce e tanti tormenti che adesso dopo tanti anni provo molta tenerezza per quello che sono stata.

Ho scoperto  la gioia e il piacere di dirmi che non è finita, che non è mai troppo tardi, che si può iniziare a vivere. Dopo che si è disprezzata la vita che ci hanno donata,   s’impara ad amarla una seconda volta.

Ho salvato il corpo, ora devo salvare la mia anima.

Mi avvicino alla medicina alternativa e comincio a frequentare i centri macrobiotici. L’attenzione al mangiare sano mi riconcilia con il cibo e riprendo a mangiare.

Mi guardo intorno, procedo lentamente, l’essenza stessa della vita mi sembra racchiusa in quello che ho davanti agli occhi: la schiuma bianca del mare, due piccole isole ai lati, l’orizzonte. Mi piacciono le luci del tramonto, si insinuano sulle cose e le fanno apparire come veramente sono. Le linee sono nette, decise, non lasciano dubbi, sono più reali. I colori accesi e intensi lasciano distinguere le forme. La luce si diffonde dappertutto, attraversa gli oggetti e li scolpisce.

È l’ora che preferisco, è la più bella, mi abbandono ai caldi raggi del sole e riprovo un piacere dimenticato. Ora amo.

Oggi sono felicemente sposata, ho tre splendidi figli e continuo a vivere all’estero.

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