Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Macchie lunari” di Paola Grifo

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Era una serata afosa, per questo in camera mia la finestra era ancora aperta. Io cercavo invano un refolo d’aria, appoggiata al davanzale, il pigiama di cotone con la stampa di Titti e Silvestro appiccicato addosso. Guardavo il cielo e pensavo a come dire quella cosa ai miei genitori. Più ci pensavo, più mi sembrava impossibile parlarne, ed ecco che al sudore sulla schiena si era aggiunto quell’insolito peso al basso ventre. 

Non eravamo ancora andati alla casa al mare, dove di certo avrebbe fatto più fresco, e questo in effetti era inconsueto. Ma non ci eravamo andati proprio perché a Chiavari la tivù non ce l’avevamo, mentre in quel luglio 1969, la tivù pareva indispensabile. Avrei potuto anch’io guardarla fino a tardi, in deroga alla inflessibile regola “a letto dopo Carosello”, che solitamente mi costringeva a sbirciare lo schermo di nascosto da dietro la porta socchiusa della sala, finché gli occhi non cominciavano a bruciarmi e mi rassegnavo a tornare nel mio letto. Ma  quella sera ci sarebbe stato un evento incredibile, che pure io, aveva detto papà, avrei dovuto vedere: l’uomo che cammina sulla luna! 

Guardavo la luna tra i palazzi, e cercavo le parole giuste per affrontare i miei genitori. In fondo, si trattava di un fatto come un altro, e di un fatto naturale, per giunta. Ma perché proprio a me, pensavo? E perché così presto? Già sentivo i commenti di mamma, un misto fra un malcelato orgoglio femminile e il suo profondo imbarazzo per certi temi; ma soprattutto, mi immaginavo con ansia gli sguardi muti di papà, sospesi fra vergogna e fastidio. Presi Igloo, l’orsetto di peluche, per stringermelo sulla pancia, ma faceva talmente caldo che alla fine lo lasciai cadere a terra. 

La luna però non mi suggerì niente, se non di tacere. Anche lei sembrava voler ignorare quello che le stava capitando.

In verità, mi pareva improbabile che si potesse camminare su quella faccia bianca appesa nel cielo, tonda come una padella e con un’espressione da vecchio imbronciato. E ancora più irreale che un luogo simile, lontano come i sogni, lo si potesse raggiungere in un solo giorno. Eppure, papà mi aveva spiegato che il razzo era partito ieri, e oggi sarebbe successa quella cosa per cui era stata addirittura inventata una parola nuova: allunaggio. Dunque, trascinando un po’ i piedi, raggiunsi i miei in salotto, pronta ad assistere con loro a questo evento straordinario.

Stavo lì, sul sofà di velluto, in mezzo ai miei genitori, le gambe strette. I miei occhi, puntati sulla tele nell’attesa di passi umani sul viso di quel vecchio strambo e grigio che viveva in cielo, scorgevano per ora soltanto lo spettacolo noioso di una platea di uomini, altrettanto grigi, seri e un po’ imbronciati: anche loro, ospiti della sede RAI, silenziosi e un po’ tutti uguali nei loro completi scuri, aspettavano con me, lo sguardo incollato alle televisioni in sala. 

Il resto del mio corpo, frattanto, cercava di restare immobile per non tradirsi, rigido in pizzo al divano, nel timore che la serata potesse essere turbata da quell’evento sconcertante che mi stava capitando. Cercai di non pensarci e di tuffarmi nell’insolita atmosfera di festa che circolava in casa. 

Mi concentrai sulla trasmissione. Conduceva un signore sorridente, che riempiva l’attesa con commenti, numeri e astrusi termini tecnici. Aveva il ciuffo biondo, gli occhiali quadrati, e un nome da soldatino di latta: Tito Stagno. Tito era giovane, eccitato, si muoveva a scatti sulla sedia mentre cercava di spiegarci le operazioni, parlando di pulsanti, luci di emergenza, capsule piccole come ascensori. A volte, traduceva alcune parole degli astronauti, che leggeva da uno schermo. 

C’era poi un’altra voce, roca e più anziana, già sentita al telegiornale: “Vi parla Ruggero Orlando”, che le mie orecchie di bambina associavano al pupo Orlando Furioso, un ricordo che papà aveva portato dalla Sicilia e che era appeso a un gancio in ingresso. Avevo trascorso molti pomeriggi da sola, a inventare storie con quella marionetta, alta poco meno di me. Accarezzavo le piume rosse dell’elmo, sguainavo la spada dall’elsa di ferro perché si battesse con immaginari nemici, o gli sollevavo la visiera per farmi guardare, nei panni di Angelica, per poi ridere dei suoi occhi strabici dalla furia d’amore! Chissà se anche questo Ruggero Orlando era furioso. Forse sì, almeno un po’, pensai, quando lui e il biondo Tito si erano messi a discutere: Tito aveva urlato entusiasta “Ha toccato!”, riferendosi al ragno, nome in codice del modulo lunare, e aveva quindi dato il via ad un fragoroso applauso del pubblico, ma Orlando da Houston aveva ribattuto piccato: “Eh no, qui ci pare che manchino ancora dieci metri”. Noi da casa, però, non vedevamo niente, e non potevamo sapere chi avesse ragione. Era tutto talmente bizzarro: io che guardavo in televisione dei signori, che a loro volta guardavano altre televisioni con altri signori… Roba da far girare la testa. Mamma, dopo quel bisticcio, si era messa a ridere, commentando “Andiamo bene!”, e allora risi anch’io, con poca convinzione. “Il mondo, da oggi, non sarà più lo stesso” declamò poi mio padre, solenne. A me quella frase suonò come una condanna, perché forse anche il mio, di mondo, non sarebbe stato più lo stesso: me lo sentivo, per via di quel dolore alla pancia e del calore liquido che avvertivo fra le cosce, nonostante il mucchietto di carta igienica infilato nelle mutande. Di sicuro, avrei lasciato una traccia di sangue sul cuscino dove mi ero seduta. Lo guardai di sfuggita, mentre mi alzavo in piedi assieme ai miei, che applaudivano all’allunaggio con aria convinta, facendo eco alle ovazioni dei tizi nello schermo. Immaginai che anche in altre case si stesse ripetendo la stessa scena, come in un gigantesco gioco di scatole cinesi. Sulle righe del velluto beige, scorsi una macchia rosso-brunastra, la cui forma ricordava vagamente un biscotto savoiardo, di quelli che mamma usava per fare la zuppa inglese. 

Perché non ero riuscita a dirlo? Ora, l’avrebbero scoperto nel peggiore dei modi, mi avrebbero dato della stupida e mia madre, poi, avrebbe fatto chissà che scena per il divano sporco. In fondo, qualche mese prima era stata proprio lei a spiegarmi come meglio poteva le faccende relative al sesso. È solo che le sue parole mi erano suonate fredde e impersonali, come se le avessi sentite in un documentario, e forse era per questo che le avevo quasi dimenticate. E papà? Non sarei più stata la sua bambina, avrebbe iniziato a guardarmi in un altro modo. Esisteva una parola per dire che per lui sarei diventata qualcosa di potenzialmente in pericolo e pericoloso assieme? Io non la conoscevo, ma sapevo che, d’ora in poi, avrebbe sentito sempre di più il dovere di proteggermi da chiunque, dagli altri e da me stessa, e sarebbero perciò aumentati divieti e restrizioni. Conoscevo la sua gelosia: una volta mia madre aveva detto che il pediatra di mio fratello “era un bell’uomo”, e papà non le aveva rivolto parola per un mese. 

Il mondo non sarebbe davvero più stato lo stesso per me, e non ero pronta.

Quando in tivù apparve l’impronta di Aldrin sulla sabbia della Luna guardai ancora quella che avevo lasciato io sul velluto. Avevano una forma simile… Fu in quel momento che mi sembrò tutto più vero: i primi passi dell’uomo sulla luna, e i miei primi passi nel corpo di una donna di nove anni. Chissà se sarebbe andato tutto bene, come aveva detto la mamma.

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1 commento »

  1. Che tenerezza questo racconto! E la chiusa mi è piaciuta molto!

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