Premio Racconti nella Rete 2023 “Minnie” di Irene Catanzariti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Per cominciare, grazie dell’invito. Mi chiedeva cosa mi colpisca in questi casi. Ciò che non manca mai di farmi sorridere è la convinzione che siate voi, bipedi implumi, a servirvi di noi, come se noi fossimo necessariamente felici di subire le vostre decisioni, senza mai aver voce in capitolo su dove dirigere anche quella, che tutto sommato, è la nostra vita, oltre alla vostra.
Capita al principio che ci desideriate, magari a lungo. Ci volete belle, ma anche resistenti alla fatica, per un fuggevole momento, oppure per la vita intera, sempre che, con tutto quello a cui ci sottoponete, non andiamo in pezzi prima.
Alcune di noi parrebbero a prima vista più fortunate, ma non mi cambierei con loro per nulla al mondo: rinchiuse come sono in torri d’avorio, dalle quali hanno solo rare occasioni per evadere. Portate in giro come regine in taxi o limousine, quasi senza toccare terra, restano comunque prigioniere.
La prima volta mi sembrò molto tranquilla dietro ai grandi occhi chiari, spalancati. Era paffutella in viso, serafica. Portava una gonna leggermente scampanata sopra calze a righe orizzontali bianche e nere, come la maglia.
Unica nota stonata: le scarpe.
Massicce, sgraziate, carnose. Due parallelepipedi di pelle verdognola, fibbie di ottone, cerniere spesse laterali a fare da inserto e un pesante carrarmato sotto. Non solo non slanciavano la gamba, ma la deprimevano. Erano, in una parola, semplicemente brutte.
Mi incuriosì. Per questo mi feci dare la scheda dalla caposala. L’aggiornamento più recente risaliva ad una settimana dopo il fatto.
I: Allora, signorina, cosa voleva dirci?
M: Vorrei indietro le mie scarpe.
I: Forse non sono di suo gusto quelle che le abbiamo fornito?
M: Non sono abbastanza grosse.
I: Ed è un problema per lei?
M: Sì. Mia nonna diceva sempre: “scarpe grosse e cervello fino”.
I: Interessante.
M: Secondo mio padre sarei una senza cervello, così ho comprato quelle scarpe. Adesso le rivoglio.
I: Suo padre era solito offenderla in questo modo?
M: Lui parlava per il mio bene.
I: Capisco.
M: Pensi che una volta mi disse pure che avevo grandi talenti e che li avevo sprecati: una scelta sbagliata dietro l’altra. E me le enumerò tutte. Fu molto preciso.
I: Di quali scelte si trattava?
M: Numero 1: la mia occupazione. A me piace quello che faccio, anche se guadagno poco, ma mio padre non l’ha mai considerato un vero lavoro, intanto perché non ho opportunità di carriera e poi perché mi diverto; numero 2: il mio fidanzato. Un bravo ragazzo, ma poco ambizioso a detta sua. A lui le scarpe sono piaciute subito.
Dopo il primo momento di innamoramento, siamo date per scontate, tranne casi fortunati, spesso dimenticate e, dopo esservi state accanto per gran parte del cammin di vostra vita (come diceva il sommo poeta), messe da parte, buttate via come scarpe vecchie. Per questo non mi sento di giudicare, pur non potendola certo approvare, la reazione di alcune di noi verso taluni vostri atteggiamenti. Come ho avuto modo di affermare in passato, la mancanza di considerazione, l’essere trascurate, rifiutate o bullizzate, può predisporre a comportamenti antisociali in soggetti borderline o che crescono in ambienti e situazioni familiari difficili. Non sarebbe, quindi, strettamente parlando, colpa loro.
Disturbato da un rumore sordo che pareva provenire dalle viscere della terra e premeva per uscire proprio sotto la sedia alla quale ero inchiodato ormai da troppo tempo, alzai gli occhi dal fascicolo e guardai al di là del finestrone situato proprio di fronte alla scrivania.
Fu guardando fuori che la vidi: seduta, le gambe a penzoloni giù dal muretto che separava il giardino dal vialetto di collegamento tra i padiglioni, a testa bassa batteva ritmicamente contro la pietra grigia ormai scrostata i pesanti carrarmati delle scarpe, troppo grandi per le sue gambe. Colpo dopo colpo vidi la superficie di quel muro sbriciolarsi come presa a picconate e il giallo chiaro delle scaglie della pittura che la ricopriva ammucchiarsi alla base, seguito dal bianco dell’intonaco e dal rosso del mattone. Osservava le scarpe concentrata, le labbra tirate, le sopracciglia aggrottate che deformavano appena il bel viso, come se non fosse lei ad imprimere quel movimento distruttivo, ma ne fosse, anzi, un po’ stupita.
Appena quell’idea mi attraversò il cervello, mi riscossi: dovevo aver lavorato troppo se la mia mente partoriva simili sciocchezze. Respirai profondamente due o tre volte, liberando il diaframma.
I: Non mi sembra che suo padre fosse molto incoraggiante.
M: Forse ha ragione, ma lo faceva solo perché si preoccupava per me.
I: E sua madre?
M: Mia madre è morta dandomi alla luce. Mio padre mi ha sempre detto che era colpa mia se sua moglie non c’era più.
I: Lei sa che non è vero.
M: Se io non fossi nata, mia madre sarebbe ancora viva e vegeta. Il parto è un evento pericoloso, mio padre me lo ripeteva sempre. Come avvertimento, perché avevo un fidanzato, credo.
I: Era contento che lei avesse un fidanzato?
M: Veramente diceva che non era proprio il mio fidanzato, ma uno con cui mi accompagnavo. Nessuno sano di mente avrebbe potuto desiderare di stare veramente con me. Così diceva. Gli piaceva tanto scherzare.
Invece di sviluppare sintomi depressivi, come ho visto accadere fin troppe volte, alcune reagiscono con rabbia. Mentre la maggior parte si limita a mangiarsi dentro, a consumarsi, a sbriciolarsi dall’interno, sono poche (e mi sento di aggiungere Per fortuna) quelle che non riescono invece, questa rabbia, a controllarla.
La ragazza, sentendosi osservata, alzò gli occhi e sorrise. Poi scese dal muretto e cominciò a portare lentamente un piede avanti all’altro, lungo una linea visibile solo a lei. Nuovamente mi colse l’impressione che fossero le scarpe a portarsi dietro le sue gambe, il bacino, l’intero suo corpo e non viceversa. Era proprio ora che andassi a casa a riposare.
Rimango sempre stupita della maniera molto “creativa” (passatemi il termine, non vorrei pensaste che io le approvi o che possa anche lontanamente plaudire a siffatte esternazioni. Per indole e disposizione naturale sono, infatti, estremamente contraria all’eccesso e ad ogni sua manifestazione), dicevo, rimango davvero meravigliata degli escamotage da queste personalità individuati per colmare la disparità nel margine di manovra che abbiamo noi rispetto a voi. Ma si sa: il bisogno affina l’ingegno. E il bisogno di sfogarsi o fare giustizia (perché tale può essere nella maggior parte dei casi la motivazione) diviene a volte un pungolo al quale è impossibile sottrarsi.
Devo ammettere che quelle scarpe mi erano state antipatiche sin dall’inizio. Così sgraziate, di un colore fangoso, un grip inutile per i marciapiedi cittadini, aggressive. E cosa mai c’entravano con i graziosi abiti della ragazza? Con i suoi modi misurati, delicati? Per carità, ognuno è libero di vestirsi come crede, ma quelle scarpe urtavano la mia sensibilità, erano incongrue.
Togliendomi gli occhiali, mi sfregai con pollice e indice la radice del naso, mi sentivo proprio stanco. Prima di andare, però, volevo concludere la lettura dell’incartamento in modo da iniziare la terapia già l’indomani.
Sfogliando a ritroso il fascicolo, andai al giorno del fatto. Il dott. Formenti, che avevo sostituito dopo l’incidente in cui si era rotto malamente femori e tibie, aveva fatto un buon lavoro con la trascrizione dei colloqui.
I: Si sieda, signorina, vuole un bicchiere d’acqua?
M: No, grazie, sto bene.
I: Vuole forse lavarsi il viso, le mani?
M: No, grazie, trovo che il rosso si intoni al vestito.
I: Ci racconti con parole sue cosa è accaduto.
C’era una nota scritta a mano a margine della pagina, immaginai fosse del dottor Formenti. Strizzai gli occhi e lessi “Le scarpe mi osservano”, possibile?
Proseguendo con gli studi, ho appreso, ad esempio, che uno shock scaturito da un evento destabilizzante può contribuire ad una manifestazione violenta. Correlato a questo discorso c’è quello del disturbo post traumatico da stress, generato da una ferita emotiva spesso risalente all’infanzia, un trauma di origine diversa: un abuso – non solo fisico -, negligenza, abbandono, rifiuto, un lutto. Per alleviare l’ansia e la tensione, tali soggetti metterebbero prima, in scena una serie di fantasie mentali, per poi, magari dopo anni, esplodere in forma di violenza, anche estrema.
Alzai nuovamente gli occhi alla finestra, ma la ragazza non si vedeva più. Mi avvicinai al vetro. Vagai con lo sguardo lungo le siepi che dividevano i marciapiedi di collegamento tra un padiglione e l’altro e finalmente la vidi alla mia sinistra, in mezzo ad un’aiuola. Stava scavando una buca con il tacco e il contrafforte della scarpa destra e, quando evidentemente giudicò sufficiente la profondità, la vidi spingere qualcosa con la punta nella buca e con la suola di quell’orrendo carrarmato ricoprirla e pestare con violenza la terra fino a pareggiarla. Quindi si inginocchiò e appoggiò con delicatezza sulla buca appena ricoperta qualcosa che non riuscii a distinguere, mi ripromisi di andare a vedere più tardi di cosa si trattasse.
Senza necessariamente scomodare il disturbo post traumatico da stress, chi di noi non sarebbe tentato di reagire a provocazioni costanti, a costanti manifestazioni, di disistima, se non addirittura di palese disprezzo?
Il mio sguardo corse ancora a quelle scarpe che, per quanto potevo vedere a quella distanza, mi parvero respirare. Vedevo formarsi all’altezza delle fibbie nuvolette di vapore, come quando si respira all’aperto in pieno inverno. Dove l’ardiglione violentava la pelle per entrare, immaginai i buchi cedere, allargarsi, fremere e un rigurgito acido mi risalì in gola mentre mi chiedevo perché la ragazza pareva non accorgersi di nulla. Eppure quelle scarpe avevano un’infernale vitalità che non potevo essere solo io a percepire.
M: E’ stato per via delle scarpe.
I: Che scarpe?
M: Quelle che ho ai piedi. Fortuna che non si sono macchiate.
I: Vada avanti, la prego.
M: Ero felice stamani. Era il giorno in cui mi avrebbero confermata al lavoro, avevo superato il mio periodo di prova. Bril-lan-te-men-te, hanno detto. Si rende conto?
I: Complimenti, signorina, prosegua pure.
Una volta ne ebbi in cura due, sia pur per un periodo limitato, due gemelle, sembravano lottatori di sumo, massicce e sgraziate com’erano, carnose. Ti davano l’idea che se ci avessi appoggiato un dito sopra, sarebbe sprofondato, risucchiato in quell’ammasso all’apparenza molle, in realtà molto compatto. Riuscite a immaginare le vessazioni, le costanti prese in giro che, sia pur nella loro giovane vita, aveano subito? Nella migliore delle ipotesi guardate con aria di compatimento, nella peggiore, di aperto disprezzo, con l’aggiuntiva frustrazione di non poter mai dire nulla. Purtroppo potei fare molto poco per loro, il danno interiore troppo grande[1].
Avevo appena terminato di leggere quelle parole, quando vidi la ragazza camminare decisa verso la finestra, mi ritrassi, non so neppure io perché e l’occhio mi cadde ancora sulle scarpe. Stavano correndo, trascinandosi dietro le sue gambe sottili e facendo svolazzare la gonna leggera. Poi frenarono, proprio sotto il davanzale. Dal riflesso sul vetro, mi resi conto di guardarle con una smorfia di disgusto che cercai istintivamente di reprimere. Dal canto loro, le scarpe mi parvero ghignare, con aria di sfida.
M: Ero proprio felice mentre facevo colazione. Fischiettavo sottovoce una canzone – mio padre non ha mai sopportato di sentir canticchiare.
“Dove vai?” Mi ha chiesto. E io tutta contenta gli ho detto che andavo a firmare il contratto per il lavoro dei miei sogni.
“Il lavoro dei tuoi sogni?” Ha detto lui, sghignazzando. “E ci vai con quelle scarpe da ritardata?”
“É stato per questo, credo, che l’hanno fatto: non sopportavano più di essere umiliate e offese. Gli sono arrivate da dietro, le ho viste prendere la rincorsa e poi Sbam! far partire il calcio e lui è caduto, sbattendo contro il camino. É stato allora che ho preso l’accetta e l’ho aperto.”
I: “Per quale motivo?”
M: “Per guardare com’era il suo, di cervello.”
I: E?
M: Niente di che, d’altronde cosa vuole pretendere: mio padre ha sempre portato solo striminziti mocassini in similpelle.
Adesso avevo il quadro completo.
Mi alzai, spensi la lampada sulla scrivania, misi in borsa il quaderno degli appunti, la custodia con gli occhiali da lettura, la penna stilografica e mi avviai verso le scale. Non vedevo l’ora di tornare a casa, ero stanco morto, di una stanchezza diversa dalla norma, sperai solo di non covare un’influenza.
Non mi ero reso conto di aver fatto così tardi, il corridoio era buio e sul vecchio pavimento in graniglia si sentiva risuonare solo l’eco dei miei passi.
Mentre spegnevo man mano le luci dietro di me (le norme dell’ospedale erano molto severe in materia), guidato solo da quella di emergenza, mi avvicinai alla rampa di scale più vicina.
Impegnando il primo scalino, udii uno stridio che mi fece accapponare la pelle, come a scuola il gesso contro la lavagna o il coltello sul fondo di un piatto di porcellana. Mi voltai, ma non vidi nulla, i corridoi vuoti, a quell’ora personale e pazienti ormai in camera, chiusi per la notte.
Presi le scale, avevo sempre odiato gli ascensori e per due piani comunque non ne sarebbe valsa la pena.
Mentre affrontavo la seconda rampa, udii ancora quel rumore, mi girai di scatto e sobbalzai: sul muro alla mia destra, proprio dietro di me, ma appena più in alto, vidi la testa scura di un rinoceronte. Mi girai per capire cosa avesse potuto creare quell’ombra, persi l’equilibrio, come se qualcuno da dietro mi avesse sferrato un gran calcio.
Mi sentii trascinare in avanti dal peso stesso della testa, annaspai per cercare il corrimano, non lo trovai, con uno scatto di reni tentai di buttarmi all’indietro, senza successo, rotolai fino in fondo alla rampa.
“Maledette scarpe” pensai mentre mi caricavano sull’ambulanza.
[1] Scarpa I. et al. Intervista alla dott.ssa Sapato in “Scarpe assassine: psicopatologia della calzatura moderna” – Ed. Del Sogno, 1966 – pp 178-179.
Molto particolare, psicologico e divertente