Premio Racconti nella Rete 2023 “Questione di prospettiva” di Dario Alessandro Pagli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Giunsi ai cancelli del giardino zoologico con svogliatezza, trascinato, più che convinto, dall’insistenza di certi amici. Tuttavia un soffio di trepidazione bambinesca mi spingeva ad accettare la proposta di trascorrervi una mezza giornata. La combinazione artefatta di ambienti naturali dello zoo mi divertiva e, allo stesso tempo, mi suscitava un profondo senso di sdegno. E’ una tracotanza tutta umana far credere a un orso marsicano di scorrazzare nei boschi del Gran Sasso mentre, a una manciata di metri, una renna della Lapponia, altrettanto ignara, scruta il cielo in attesa di un’aurora boreale che non arriverà.
Con questi sentimenti in testa, deciso comunque a non darci peso, oltrepassai l’ingresso un po’ attempato dello zoo e mi aggregai agli amici. Erano vecchi amici, di quelli che ogni tanto si fanno vivi e le cui voci, tutto sommato, sprigionano anche a distanza di anni un calore antico. Avevo bisogno di loro e loro si erano materializzati con quell’idea da gita scolastica dello zoo.
Al netto dei saluti di circostanza e degli scambi di battute sul nostro reciproco stato di adulti maturi non ancora così malmessi da poter essere considerati vecchi, le loro battute mi divertivano ancora. Negli occhi di qualcuno c’era un che di giovane che sopravviveva e che gli o le conferiva un’aria rispettabile, dignitosa, vittoriosa sul tempo.
Per gran parte della visita osservai più i miei amici che gli animali. Sì, ero curioso di scrutarne le reazioni, analizzarne i comportamenti, cercare una spiegazione al loro modo di comportarsi tra il fogliame stropicciato della foresta pluviale, sotto la mole possente di un baobab di resina o in una macchia fitta di abeti alpini. Erano più interessanti di leoni del Mozambico, capre alpine e fenicotteri rosa, non fosse stato che per l’eccitazione brillante dei loro occhi che conservava molto più di selvatico rispetto alla noia scritta negli sguardi apatici degli animali. Si stuzzicavano, ci stuzzicavamo , fingendo di gettarci nei recinti delle bestie più feroci, saltellavamo al muoversi di una frasca nella boscaglia che faceva presagire l’arrivo di una lince, urlavamo di timore allo spalancarsi delle fauci del leone maschio in uno sbadiglio scambiato per un ruggito.
Mentre così trascorreva il tempo, l’aria della mattina inoltrata cominciava ad assorbire il lieve calore del sole autunnale e i sentieri si svuotavano di ospiti, richiamati in gran numero dai profumi del ristorante interno allo zoo con i tavoli apparecchiati per il pranzo. Gli amici si sfregarono le mani e lamentarono un languore di stomaco che, in tutta onestà, io non percepivo. Mi accomiatai, perciò, da loro e li liberai dall’impaccio di dovere tenere compagnia a me che avevo deciso, unico nel gruppo, di saltare il pasto.
Mossi qualche passo incerto mentre li osservavo svoltare dietro a una siepe lungo il vialetto che conduceva all’area ristoro.
Un po’ eccitato dalla ritrovata libertà, rimasi per qualche minuto in contemplazione del ventaglio colorato di frecce indicatrici che, dall’alto di un palo, segnalavano le diverse aree del giardino zoologico con i rispettivi ospiti animali. Non avrei avuto molto tempo prima del ritorno degli amici e, per questo, pensai che fosse un obbligo morale nei miei stessi confronti sfruttare al meglio quello che mi si concedeva.
Scelsi l’India e mi diressi con passo svelto verso un cumulo di finte rovine, probabilmente di un tempio, dietro al quale si apriva il recinto dei macachi. Quando vi giunsi, scoprii, con un certo disappunto, che l’intrico di rami artisticamente disposto a celare un’impietosa, sebbene molto spaziosa, gabbia di ferro ne ospitava un solo esemplare. Il primate era appollaiato su un alto tralcio in posizione rannicchiata e mi sembrava che si sforzasse di tenere la testa infossata nella schiena. Mi dava le spalle, come a voler rivendicare la propria indifferenza per il mondo, quantomeno per quello umano che lo voleva parte attiva dello spettacolo.
Non so per quanto tempo rimasi lì a osservarlo, in attesa che si voltasse. So per certo che non feci niente per attirarlo, né un sibilo, né uno di quei suoni sordi fatti tra i denti con cui di solito ci si rivolge ai gatti per farli voltare. Aspettai io, dunque, che si voltasse. Ingannai allora il tempo dilungandomi sulla descrizione dei macachi riportata sul cartello fuori dal recinto.
“Questo esemplare, di nome Arturo, appartiene alla famiglia dei mammiferi primati cercopitechi. La sua specie è diffusa nel Sud-est asiatico e presenta, tra le sue peculiarità, il pollice breve e le tipiche collosità in corrispondenza delle natiche”.
Ridacchiai come un bambino a quell’accenno indiscreto all’intimità della bestiola e allungai di nuovo lo sguardo al tralcio. Il macaco, però, non c’era più.
Approfittando della mia distrazione, doveva essersi spostato per saltare chissà dove, tra i rami tesi dentro la gabbia. Ruotai la testa tendendo il collo per allungare gli occhi fin dove possibile in cerca dell’animale finché, con un sobbalzo, vidi che si trovava davanti a me: Arturo mi fissava col suo volto roseo ammantato di una peluria irta macchiata di grigio e marrone, gli occhi giallo intenso in cui erano immerse le piccole pupille nere. La bocca non era più che un solco orizzontale sotto il naso dalle narici larghe e conferiva alla bestia un’espressione che gli uomini tentano di assumere, di solito senza riuscirci, quando vogliono celare il loro stato d’animo. Aveva un’aria severa ma non di rimprovero, né di risentimento. Si sarebbe potuto dire uno sguardo venato di malinconia ma, senza la suggestione delle sbarre mascherate da rami dietro ai quali era costretto a vivere, anche questa impressione svaniva: era, piuttosto, lo sguardo di una sfinge, non più che l’incorruttibile custode del suo enigma.
E di quell’enigma, senza ancora saperlo, ero destinato a diventare parte.
Neppure adesso che rimetto faticosamente insieme i pezzi di questa storia mi so spiegare come sia andata che dietro alle sbarre della gabbia ci sia finito io. Scrivo faticosamente questo che ricordo della vicenda usando la superficie di una piccola lastra di pietra che ho trovato in mezzo a un ammasso di tralci. Mi sono ferito a un dito per procurarmi un sostituto naturale dell’inchiostro ma ora il caos di lettere sanguigne colanti si confonde e penso di rinunciare. Poi, però, continuo. Tuttora, comunque, non trovo una tesi che supporti una logica spiegazione di quanto è avvenuto. Quando riuscissi a rintracciarla, mi darei forse pace e il dolore di questa condizione si allevierebbe.
Il macaco mi scruta ancora e, a separarci, persistono le sbarre mascherate da rami.
Lui, però, ora è fuori. Veste un’uniforme blu come quella dei dipendenti dello zoo e, sotto il taschino bordato d’oro, mostra un cartellino nuovo di zecca su cui compare una strana scritta che credo riporti il suo nome: Arturo.
Le callosità in corrispondenza dei glutei sono pudicamente tenute al riparo da sguardi indiscreti sotto i pantaloni della divisa. Il volto roseo è tagliato dalla stessa linea in corrispondenza della bocca ma la ieraticità dello sguardo è scossa da un fremito malvagio in fondo al giallo delle iridi. Mi guarda vagare inerte e senza indumenti nello spazio della gabbia che fu suo. Credo abbia capito il mio intento di scrivere quando armeggio intorno alla lastra di pietra serena. E’ probabile, però, che la mia volontà di testimoniare i fatti sia del tutto irrilevante e che lui lo sappia, giacché la lingua in cui mi esprimo temo non sia più un patrimonio condiviso.
Mi domando che fine abbiano fatto gli amici, se mai abbiano finito il pranzo. A volte mi sembra di sentire la voce di qualcuno di loro proveniente dalla zona in cui, ricordo, erano ospitati leoni e tigri. Ma della fanciullesca eccitazione di quando ci incontrammo l’ultima volta, anche nelle voci, non c’è più niente: sono lamenti lontani, vaghi gorgoglii seguiti da schiocchi che sembrano di frusta e ruggiti di rimprovero.
L’ultima volta che li ho sentiti, ho alzato gli occhi al mio guardiano e sul volto imperscrutabile, per la prima volta, ho letto, inequivocabile, un ghigno: Arturo sorrideva mostrando la dentatura pronunciata e, con una mano, mi tendeva un secchio con un ammasso affastellato di cibo, mentre con l’altra stringeva sul fianco una frusta nera.