Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Il primo amore” di Carlo Magliola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

La storia del primo amore è un passaggio della vita comune a tutti, probabilmente anche ai preti e alle suore. È un passaggio obbligato. Per alcuni è il primo e l’ultimo, o perché è andata così male che non hanno assolutamente più voluto sentir parlare di un’altra storia, o perché è andata talmente bene che è rimasto l’amore per tutta la vita.

Anch’io ho avuto il primo amore e non l’ho dimenticato.

Avevo diciassette anni, un classico e lei era una mia compagna di scuola, un altro classico. Aveva due particolarità che la distinguevano dal resto delle mie compagne; non era certo la più carina, né quella per la quale si aveva una particolare attrazione. Le sue caratteristiche erano che suonava la chitarra classica, cosa a dire il vero abbastanza rara e che si vestiva e si atteggiava in maniera molto monacale. Era molto religiosa e mi ricordo che portava spesso una collana con un gran crocifisso appeso.

Ora, non mi sono mai chiesto in realtà per quale motivo fossi così attratto da una pseudo suora, tenendo presente che il tutto si svolgeva agli albori dei leggendari anni 70. Fatto sta che, per corteggiarla, la domenica, ero diventato un assiduo frequentatore della chiesa e non mi perdevo una messa per tutto l’oro del mondo. Al di là che un amore val bene una messa e al di là della mia profonda ipocrisia nell’andare in chiesa in un periodo di completa rivolta verso tutto quello che c’era di clericale, quei quaranta, a volte quarantacinque minuti passati in chiesa insieme erano per me un gran successo e un’ottima occasione per godere della sua compagnia.

Il problema era come contattarla, fuori dall’orario scolastico, durante gli altri sei giorni della settimana. Bisogna tener presente che io ero molto molto timido. La chiesa mi andava bene perché lei non poteva fuggire; in genere arrivava prima di me e io, poco dopo, come uno spirito santo, mi poggiavo al suo fianco, fingendo una casualità fin troppo improbabile.

Siccome lei era la più brava della classe, l’espediente di farmi spiegare qualcosa che non avevo capito durante le lezioni funzionava abbastanza. Naturalmente quel qualcosa l’avevo capito benissimo, ma passare per tonto ne valeva sicuramente la pena. Così, o per telefono, o, nelle occasioni più fortunate, a casa sua, riuscivo a passare buona parte di qualche pomeriggio insieme a lei.

Quando ci si vedeva a casa sua, tra un’equazione e un’altra, mi faceva ascoltare qualche brano alla chitarra di musica classica: erano momenti idilliaci, durante i quali il mio animo innamorato toccava vette mai raggiunte prima. Io purtroppo di musica non ne sapevo assolutamente niente e quindi potevo stare lì solo ad ascoltare e a guardare quelle mani magiche che si muovevano sulla chitarra, sognando che un giorno magari mi avrebbero anche accarezzato.

Un’altra occasione di incontro extra scolastico erano le feste di compleanno. Usava allora di festeggiare i compleanni in casa della o del festeggiato, in genere di domenica pomeriggio, nel salotto buono di famiglia. Il divano veniva accantonato in un angolo della stanza. Lo stereo era sul lato opposto e il tavolo, anch’esso addossato al muro, era apparecchiato per i pasticcini e la torta.

La mamma del o della festeggiata se ne stava nella camera accanto e, periodicamente, con qualche scusa, entrava con lo scopo di controllare che il livello di ormoni circolanti non superasse i livelli di guardia.

Il posto più ambito era quello vicino allo stereo, dove io e gli sfigati come me, trovavano modo di evitare di gettarsi nei balli, con la scusa di mettere su i dischi.

La mia bella, che in realtà non sempre c’era perché il più delle volte la domenica andava a suonare la chitarra da qualche parte, o andava a qualche cerimonia religiosa, non amava molto ballare e se ne stava lì a parlare con le amiche, apparentemente indifferente a qualsiasi richiamo pseudo sessuale. In quei momenti, prendevo il quarantacinque giusto, lo mettevo sul giradischi e mi fiondavo verso di lei; trattenendo il fiato, riuscivo poi a fare la classica domanda, che somigliava in effetti più a una preghiera: balli?

Non so se perché facessi pena, o perché in fondo in fondo un po’ di simpatia nei miei confronti lei la provava, fatto sta che accettava, stancandosi dal gruppo e portandosi al centro della sala. Per non farle credere che volessi approfittare di lei, mi tenevo a debita distanza, appoggiando le mani sui suoi fianchi, mentre lei appoggiava le sue sulle mie spalle: in mezzo ci sarebbe potuto passare un autotreno.

Venne, messa dopo messa, festa dopo festa, equazione dopo equazione, il momento di chiedere di uscire insieme. Mi disse di sì e per me fu come se avesse accettato di sposarmi e di vivere con me per tutta la vita.

Andammo per il viale, luogo classico della città, adibito giustappunto agli approcci sentimentali.

Camminavo vicino a lei, facendo ben attenzione a non sfiorarla nemmeno con un dito, non volevo che potesse pensar male. Dopo due o tre appuntamenti, decisi che il momento era giunto: l’avrei presa per mano. E se poi mi avesse guardato male, se poi avessi reagito male e se ne fosse andata, diventando magari atea pur di non incontrarmi più? Mi feci coraggio, trattenni il respiro e le presi la mano. Non reagì, anzi me la strinse un po’. Era fatta.

Da quel momento, considerai che lei era a tutti gli effetti la mia ragazza, il mio corteggiamento durato più di un anno scolastico aveva dato i frutti sperati.

Fu così che una sera d’estate, verso le sette, vicino alla piazza principale della città, l’abbracciai e le diedi un bacio, il mio primo bacio.

So che nessuno ci crederà, eppure successe. Non so se fu un caso o la punizione di Dio per averlo preso in giro tutte le volte che ero andato a messa, ma in quel momento, nel momento magico del mio primo bacio, la terra cominciò a tremare: nono grado della scala Mercalli, mi sentivo Gesù Cristo morente in croce.

Il seguito fu un susseguirsi di eventi infausti. Lei, il giorno dopo, lasciò la città con la famiglia per cercare riparo lontano dalla zona del terremoto. Io rimasi solo, senza sapere dove fosse andata e per quanto tempo.

Passarono i giorni, non ricordo come riuscii a sapere in quale paese era fuggita, ma non potevo perderla, la dovevo trovare.

Così, dopo circa un mese, forse due, salii in macchina, una vecchia cinquecento tenuta insieme dallo scotch, a seguito di un incidente che aveva avuto mio fratello. Con la mia patente fresca di qualche mese, partii verso la mia destinazione. Sapevo il nome del paese, ma non la via dove lei stava.

Ero disposto a suonare tutti i campanelli e lo feci, fino a quando, finalmente, la trovai.

Mi fece entrare cortesemente, ma intuii subito che c’era qualcosa che non andava. Era formale, distaccata: come poteva essere dopo che due mesi prima ci eravamo addirittura baciati. Mi fece sedere e mi raccontò che, nel frattempo, si era messa con un ragazzo, più grande di noi, che di lavoro vendeva spartiti musicali.

Sapevo che non conoscere la musica poteva essere un grosso handicap, ma non pensavo che mi avrebbe penalizzato tanto.

La salutai, risalii sulla mia cinquecento incerottata, e ritornai a casa, questa volta la scossa era stata molto più forte.

La rincontrai un giorno, cinque o sei anni dopo. Mi venne incontro salutandomi. Si era sposata con il venditore di spartiti, non aveva più il crocifisso, era dimagrita, spigliata, allegra. Mi fece vedere delle foto di una festa di carnevale a cui aveva partecipato qualche giorno prima, dove era vestita da odalisca. Sorrisi, meravigliato. Da suora a odalisca. Non ero riuscito a diventare il suo pascià. Né Dio né Maometto mi avevano dato una mano, non ce l’avrei mai potuta fare.

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