Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Haiti” di Carlo Magliola

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Ero salito sull’aereo a Parigi con la febbre, nausea e mal di pancia. Non era il massimo per affrontare un volo intercontinentale. La destinazione era Fort de France, nell’isola della Martinica. Da lì avrei dovuto prendere un altro aereo, con destinazione Miami e scalo intermedio a Port au Prince, Haiti.

Avevo probabilmente contratto un virus intestinale, che aveva deciso di fare il viaggio con me, per andare a contagiare un po’ di persone nel nuovo mondo.

Oggi, con la pandemia, mi avrebbero rinchiuso in una cella frigorifera insieme al mio amico, ma allora l’esportazione di virus era abbastanza libera.

Arrivato alla Martinica, non mi rendevo conto di niente. Soprattutto non mi rendevo conto di essere in uno dei posti più ambiti del mondo. La cosa che mi colpì di più era che stavo ai Caraibi, eppure ero in Francia. Perché noi italiani non avevamo delle colonie in quei posti meravigliosi? In fondo avevamo scoperto l’America, tutto poteva e doveva essere una nostra colonia. Ma di italiano, nella scoperta del nuovo Mondo, c’è solo il fatto che Colombo è nato in Italia, e poi non è nemmeno detto.

Fatto sta che, passata la sbornia da colonialista, non mi passava assolutamente il mal di pancia e la sua fastidiosa conseguenza.

Mi imbarcai sull’aereo per Miami. I miei compagni di viaggio erano tutti bianchi, tranne qualcuno di colore. La mia destinazione non era Miami, ma Port au Prince, capitale della Nazione più povera del mondo.

Quando arrivai all’aeroporto, scesi, insieme a tutti i passeggeri di colore, in un ambiente surreale, con strade polverose, baracche fatiscenti, auto e mezzi pubblici improbabili.

La città conservava qua e là i segni di un passato coloniale, frammisto a un tessuto urbano estremamente degradato, dove baracche dipinte con colori vivaci facevano ricordare che in fondo era sempre un’isola caraibica.

Il turismo era inesistente, anche se una volta c’era stato un villaggio turistico, poi chiuso per motivi politici. La popolazione era quasi totalmente di colore, i bianchi erano una vera rarità, ed essendo rari e generalmente più ricchi degli altri abitanti, erano anche facili bersagli della malavita.

Dal punto di vista politico, quando arrivai a Haiti, c’era una situazione alquanto complessa, figlia di una storia del paese molto triste e travagliata:

Haiti fu scoperta da Cristoforo Colombo nel 1492. Nei decenni successivi fu usata come base per i commerci dalla compagnia francese delle Indie Occidentali, e nel 1697 fu annessa all’Impero francese. La dominazione francese fu durissima: i fertili terreni dell’isola furono sfruttati in maniera intensiva per produrre zucchero e caffè da smerciare in Europa, fino a che buona parte del territorio fu completamente desertificato. Per lavorare nei campi l’amministrazione imperiale importò fino a 40mila schiavi africani all’anno, che morivano nella lunga traversata in mare oppure dopo pochi anni di fatica.

Ma dopo la rivoluzione francese, anche Haiti si ribellò alla Francia e, nonostante i successivi tentativi di Napoleone di sedare le rivolte, nel 1804 il paese si dichiarò indipendente. Haiti divenne il primo stato indipendente dell’America Latina e il primo di colore.

I problemi di Haiti però erano appena iniziati.

Nel corso del Novecento ad Haiti è capitato un po’ di tutto, fra cui un’invasione degli Stati Uniti, almeno due dittature sanguinose, quelle di Francois “Papa Doc” Duvalier e di suo figlio Jean-Claude, “Baby Doc”, vari colpi di stato appoggiati dall’esercito e un intervento dei caschi blu dell’ONU, che si rivelò inutile.

In questa situazione sociale e politica molto delicata, per uno straniero, soprattutto se bianco, girare per strada a piedi era decisamente sconsigliato, se non per brevi tratti e in quartieri un po’ più tranquilli (si fa per dire).

Il mio albergo stava vicino alla zona residenziale ed era una vecchia struttura coloniale, tutto sommato di uno squallore veramente autentico. La camera era arredata con un letto matrimoniale, un armadio, un tavolino e una sedia. Alle pareti bianche non c’era attaccata nemmeno una stampa e sul soffitto girava una ventola con la luce al centro. Senza aver mangiato nulla, mi sdraiai sul letto, fissando le pareti bianche e pensando: ma se adesso muoio qui, chi mi viene a pescare? Con questo allegro pensiero finalmente mi addormentai, alla fine della giornata più strana, nel posto più strano che avessi mai visto.

L’indomani era programmato il viaggio a Cap Haitien, dall’altra parte di Haiti. Là, era previsto un sopralluogo di lavoro.

La strada per arrivarci era un insieme di buche con un po’ di terra intorno. Avevamo un fuoristrada, che saltellava come un canguro. Si attraversavano villaggi del tutto simili a quelli africani. La particolarità che mi saltò agli occhi fu che gli uomini vivi abitavano in capanne di fango, mentre i morti erano sepolti in strutture in cemento e muratura. Spesso la religione fa fare strani ragionamenti al nostro cervello, è inutile trovare la razionalità in ciò che è guidato dalla superstizione. Per carità, non voglio togliere niente ai cari estinti haitiani, che peraltro, prima di morire, ne hanno viste veramente di tutti i colori, però, insomma, perché non prevedere un paio di pareti in muratura anche per i poveri viventi.

Comunque, saltellando sulla Route Nationale 1, a un certo punto, la mia pancia chiese decisamente aiuto. Non ero assolutamente guarito dal mio virus, anzi, ero abbastanza peggiorato. Così, quando la strada attraversò un raro tratto boschivo, chiesi all’autista di fermarsi, perché avevo bisogno di appartarmi.

I miei compagni di viaggio mi guardarono strano: addentrarsi da solo nella foresta non era cosa particolarmente consigliabile, ma a me non interessava niente, chiunque si sia trovato nelle mie condizioni, mi può capire. Così mi accovacciai dietro un cespuglio e…cominciai a sentire dei rumori e dei fruscii intorno a me. Ecco, pensai, che fine ingloriosa, cosa avrebbero raccontato a mia figlia…

Ma guardando bene fra le foglie, cominciai a distinguere degli occhietti vispi appartenenti a tanti bambini che, indicandomi con un dito e ridendo a più non posso, gridavano: blanc, blanc, blanc!

“Beh, che c’è da ridere?” urlai, e con dignità mi tirai su i calzoni e mi avviai verso la macchina. Se i bambini ridevano, i miei compagni di viaggio non erano da meno. Però stavo un po’ meglio e poi son sicuro che, alla sera nel villaggio dove vivevano quei bambini, sarei stato la notizia principale.

Arrivammo in serata a destinazione. Cap Haitien era molto più confortevole di Port au Prince, lì ti rendevi conto di essere ai Caraibi. La mattina dopo, essendo domenica, non si lavorava e così decidemmo di andare sulla spiaggia. Era la zona dove era affondata la Santa Maria di Colombo, il giorno di Natale del 1492. Poco lontano, più a ovest, c’era l’isola della Tortuga. Era la famosa isola dei bucanieri, che dal 1600 razziavano le navi, che riportavano merci pregiate verso la madrepatria. Soltanto con la pace di Utrecht, nel 1713 le potenze europee si coalizzarono contro la pirateria, portando, di fatto, alla fine l’epoca dei filibustieri nei Caraibi. Ma l’isola della Tortuga divenne principalmente nota per merito di Emilio Salgari e del suo Corsaro Nero, alla fine dell’ottocento.

Il pranzo sulla spiaggia consistette in un’aragosta servita su una foglia: niente male, fortuna che il virus ormai era stato sconfitto. Di domenica le donne e le bambine erano vestite a festa, con vestiti molto allegri e raffinati, in netto contrasto con la povertà in cui versava quella povera gente. La meta era naturalmente la chiesa, che si riempiva di gente, secondo i dettami di un cattolicesimo importato ad Haiti più per convenienza, che per fede.

Il mio lavoro, per il quale ero stato spedito in quei posti dalla mia società, consisteva nell’identificare la gestione del territorio più adatta a limitare il fenomeno della desertificazione. Il lavoro veniva svolto in collaborazione con dei tecnici locali, che conoscevano bene la realtà locale.

A capo del gruppo di lavoro c’era una ragazza haitiana, di nome Gina, sposata con un americano.

Dopo circa un mese, il progetto poteva ritenersi concluso e quindi era arrivato il momento di presentarlo alle autorità haitiane.

L’incontro avvenne in una sala prefabbricata, senza aria condizionata, alla presenza dei rappresentanti del Ministero dell’Agricoltura e del territorio e di tutto il nostro gruppo di lavoro. In totale saremo stati una cinquantina di persone in circa 100 m2 di superficie. La temperatura percepita era tuttavia notevolmente maggiore di quella reale, a causa dell’emozione che mi attanagliava dalla testa ai piedi. Infatti ero stato incaricato di presentare quanto era stato elaborato durante il nostro soggiorno ad Haiti. La cosa non sarebbe stata particolarmente ardua, se non fosse per il mio francese estremamente carente. Il discorso lo avevo più o meno preparato e sarei potuto andare abbastanza bene a meta, ma quello che mi preoccupava erano le domande: e se a qualcuno dei ministeriali haitiani gli fosse venuto qualche dubbio e mi avesse interrotto con qualche domanda assassina? E infatti, fu così. Finita la mia esposizione, Gina chiese cortesemente se c’era qualche domanda e domanda ci fu, anzi, più di una. Se sto qui a raccontare vuol dire che in qualche modo riuscii a rispondere, ma di sicuro quel giorno persi molti chili di peso.

Quando ripresi l’aereo per tornare in Europa, mi sentii come se uscissi da un sogno. Avevo veramente la sensazione di essere stato in un altro mondo, penso molto di più di quello che possono aver provato Cristoforo Colombo e quelli dopo di lui, che quel nuovo mondo lo distrussero in pochissimo tempo.

Di certo Haiti e la sua gente mi sono rimasti nel cuore e penso che, se Dio esiste, dovrebbe mettersi una mano sulla coscienza e finalmente aiutarli un po’.

A proposito, nel 2010, nove anni dopo il mio viaggio, ci fu un fortissimo terremoto che fece più di 200.000 vittime. Tra loro anche Gina e i miei colleghi di lavoro.

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