Premio Racconti nella Rete 2023 “Niente di rotto” di Marcello Luberti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Percorro la valle dei cani, è un acquitrino, non c’è nessuno a spasso con gli animali. Senza scarpe adatte l’umidità mi penetra nelle ossa. Cade una pioggerella indistinta su Villa Borghese.
La vista del Palazzo che ospita la Galleria pone finalmente termine alla malinconia e a ogni mia belligeranza interiore.
Una scolaresca caciarona sotto gli ombrelli assedia l’ingresso, non immagina le bellezze che sono contenute in quella che veniva chiamata la “Delizia di Roma”.
Entro nella libreria, piena di visitatori, di giovani alla ricerca di gadget, calamite, cartoline, foulard, penne, cover per cellulari.
Faccio foto delle pubblicazioni e le invio con lo smartphone a mia figlia.
Alzo poi lo sguardo su un libro di notevoli dimensioni posto a una certa altezza e vedo una silhouette inquietante.
Sbircio con l’occhio sinistro, senza girarmi verso di lei.
È una signora alta, slanciata, pettinatura a caschetto con capelli biondi ingrigiti, sembrano artificiosi. Ha Ray-Ban fotocromatici, non guarda verso di me. Ho intuito il profilo del suo naso, il fascino immutato a distanza di molti anni. Sono ingrassato da allora, ho tutti i capelli bianchi, sono quasi un vecchio, ma potrebbe lo stesso riconoscermi.
Istintivamente giro le spalle ad Anneke Wiedfeldt detta Anke, la storica dell’arte esperta del Manierismo italiano. Se è lei.
Con discrezione e un po’ di paura guadagno l’uscita, anche se ho promesso a Letizia di cercare tutti i cataloghi riguardanti la Galleria.
Salutai Anke a Porta Cavalleggeri in una giornata di pioggia, nei pressi dell’abitazione di un’amica che l’avrebbe ospitata dopo la fine della nostra storia. Un piccolo trasloco, un addio sgarbato. Io mi liberavo di un amore nato male, lei invece avrebbe continuato ad amarmi pur nelle incomprensioni tipiche di Italia-Germania. E dire che vedemmo insieme in tv le immagini del crollo del Muro di Berlino in uno stato di euforia e commozione: i suoi genitori, ci teneva a ricordare, erano profughi della Prussia Orientale. Nel momento dell’addio non ci baciammo.
In fondo, ho sempre temuto e presagito questo momento.
Ma potrebbe anche non essere lei. La signora che ho intravisto potrebbe essere un’illusione partorita dagli errori e dalle slealtà passate.
Mi trattengo fuori per vederla senza essere visto, per capire come è cambiata una persona che ho amato, o per ammettere che vivo di fantasmi.
Passano i minuti, faccio piccoli passi su e giù. Mia figlia chiama al telefono, non rispondo, metto il silenziatore acustico.
Sto sul punto di andar via, non reggo l’attesa, ma ecco che dopo alcuni minuti la donna esce, è sola, siamo a pochi metri di distanza, sembra che non mi veda. La scruto da sotto l’ombrello.
È proprio lei, ho riconosciuto l’attaccatura dei capelli, il taglio della bocca, è una signora ancora bella. I suoi lineamenti, da allora, sono più aggraziati.
Ha una borsa a tracolla, di quelle da studiosi, è senza ombrello, veste un lungo impermeabile grigio di taglio maschile. Rinuncio all’ombrello anch’io, anche se gocce impercettibili mi inzaccherano le lenti degli occhiali. Il piazzale è deserto. Si incammina in direzione di Porta Pinciana. La seguo a distanza perché non ho il coraggio di fermarla.
Vibra il telefono con un messaggio di mia figlia. Gli occhi sullo schermo («meglio comprare Hirst, in biblioteca non lo trovo»), metto il piede in fallo su una cunetta di sanpietrini bagnati, perdo l’equilibrio.
Proteggo la testa parando il braccio, getto un oddio e cado su un fianco. Rimango per terra confuso, non capisco subito cosa è successo.
«Vieni, che ti dò una mano»
È lei, china su di me, non sorride. Mi aiuta a sollevarmi, la manica sinistra del giaccone si è strappata sotto l’ascella. Sento un profumo, come un odore di infanzia, penso ai barattoli di succo di frutta degli anni sessanta, quelli dai colori sgargianti.
Dice che mi ha riconosciuto mentre guardavo quel librone in alto sugli scaffali, ha avvertito la mia presenza, non sa come spiegarlo, ma non si è girata per guardarmi. Fuori, poi, si è accorta che la seguivo.
«Niente di rotto?»
«Credo di no» dico mentre mi rialzo appoggiandomi a lei, ho un forte dolore all’altezza dell’anca. La abbraccio istintivamente. Lei non ricambia, è a disagio.
«Grazie, che vuoi, l’età, la distrazione, per stare dietro a mia figlia»
Le parlo di Letizia e del suo progetto di museologia per l’università.
Bello che tua figlia si occupi di arte, finalmente sorride. Le si accendono le gote, il suo tratto caratteristico. Poi si fa seria.
«Gianni, perché mi seguivi?»
«Non lo so, scusami, credevo ce l’avessi con me. Non avevo il coraggio di fermarti. Tu pure mi hai riconosciuto, nella libreria, ma non ti sei voltata»
«Si, perché mi hai fatto del male» dice Anke abbassando gli occhi, parla perfettamente, senza la minima inflessione tedesca.
«Ti chiedo scusa per allora», dico con un senso di liberazione anche se avverto dolore all’anca.
Le racconto dei miei altri tentativi andati male, degli anni di psicoanalisi, del matrimonio a quarant’anni, di mia moglie Monica, della nascita di Letizia, dell’illusione di voltare pagina.
«Sono integro all’apparenza, sono andato in pensione l’anno scorso, cerco di rimanere sereno, di gestire la parabola discendente con dignità e se possibile senza conflitti»
«Non sei cambiato, in due secondi hai fatto la sintesi della tua vita» mi dice.
Ma non è tutta la verità. Le scuse che avevo sulla punta della lingua da trent’anni non bastano a tacitare la mia coscienza.
Trovo un muretto bagnato su cui mettersi a sedere. Riattivo la suoneria del cellulare, mi ricordo che devo acquistare il libro che serve a Letizia.
«E tu che hai fatto, sei rimasta a Roma tutti questi anni?» le dico guardandola direttamente negli occhi.
«A parte alcuni intervalli in Germania, sono stata qui, non riesco a staccarmi dall’Italia, da Roma»
Mi offre una gelatina di frutta color viola. Ecco qual era l’odore, mi dico appena la metto in bocca.
Poi si rimette in piedi, calcia nervosamente le pietroline dello stradino e con la mano si tocca i capelli lisci corti, quasi bianchi, intorno all’orecchio.
Lentamente si mette a snocciolare le cose che le sono capitate, vere e proprie sventure, un quadro fosco della sua vita. Ad ogni passaggio si butta la croce addosso: «il problema sono sempre io» dice ossessivamente e tira calci a vuoto sul brecciolino.
Mi rendo conto che le mie vicende non contano niente, mi vergogno. Vorrei abbracciarla ma mi trattengo, non voglio rivivere la situazione di poco fa.
«Mi dispiace, Anke, davvero»
Non è proprio il momento di dire la verità.
Le parlo di mio cugino Sergio che ci fece conoscere, morto di tumore quattro anni fa.
«Lo sapevi? Era come un fratello per me. Quando penso a lui mi sento indegno della vita»
Squilla il telefono, Letizia da Milano mi dice «Papà che ti succede?».
La rassicuro e le dico che ho incontrato una vecchia amica, una grande esperta di storia dell’arte. Di nuovo, mi chiede di acquistare “Archaeology Now” di Damien Hirst.
Anke mi sente parlare e sembra svegliarsi dal torpore della tristezza. «Eccolo» dice frugando nella cartella «Guarda che combinazione. L’ho appena acquistato. Glielo presto volentieri, se vuoi. Sembra un catalogo molto bello»
«Vedi cos’è la vita?» dico a lei, ma soprattutto a me stesso.
Mi alzo, ora sento dolore anche al polso. Ci muoviamo per uscire da Villa Borghese, cammino con qualche difficoltà.
Anke lavora al Goethe Institut come esperta di storia dell’arte. Dopo il dottorato non è riuscita a vincere concorsi per la docenza universitaria in Italia, ma è contenta così. Cerca di combattere la depressione. È in cura da uno psichiatra, è dura, dice, ma tira avanti.
Poi continua lo sfogo verso il marito che l’ha pugnalata alle spalle, senza alcun riguardo per i vent’anni vissuti insieme e per la loro figlia adottiva. Anche Maria ha abbandonato la madre per fare l’università a Regensburg.
Vedo davanti a me una donna provata, non gliene è andata una giusta. Lei rimane in piedi tutto il tempo, con le mani nelle tasche come a difendersi.
Mi sento in colpa, anche se non ci sarebbe un motivo.
Dovrei cambiare argomento, e invece penso di darle solidarietà con altri pensieri tristi.
«Nulla è per sempre. Nemmeno i figli sono per sempre, non si salva nulla. Non ce ne rendiamo conto, ma siamo fatti male»
Dovrei dirle che volli innamorarmi di lei per cancellare Enrica dalla mia vita, che sapevo in partenza che non ci sarei riuscito, troppe drammatiche differenze, non ero un uomo libero. La mia confessione sarebbe solo un inutile male a babbo morto.
«Dopo aver incontrato Monica, pensavo di aver accantonato le ansie che mi hanno tormentato fino a una certa età, e invece non è andata così. Passano gli anni, l’amore non soffia così forte e mi accontento, ho messo fine a quelle rincorse della felicità che sono il sale della vita»
«Basta» mi dice Anke scura in volto, «non sopporto tutto questo tuo disincanto, mi fa male sentirti»
Appare turbata, tira fuori il libro e si mette a sfogliare le pagine con l’aria di chi non vi può trovare risposta alle proprie domande.
È insofferente, si distacca da me, accelera il passo.
«Devo tornare in Istituto, sono in orario di servizio, ti va di accompagnarmi?»
«D’accordo» le dico come per scusarmi.
Cambio registro per non affliggerla, le parlo di Letizia, di quanto le voglio bene, degli studi che sta facendo a Milano, ha fatto la tesi della laurea triennale su Giulio Romano.
«Non era su Giulio Romano la tua dissertazione del Magister? Pensa che coincidenza»
Annuisce, sorride, le scappa una lacrima di emozione e dice «Sto invecchiando, scusami, piango per un nonnulla». Le prendo un fazzoletto di carta per asciugare le lacrime.
Continuiamo in silenzio la passeggiata lungo il bel quartiere signorile, arriviamo davanti al Goethe Institut.
«Anke, cosa dico a Letizia? Il libro glielo presti tu?»
«Genau … per l’arte questo ed altro, non certo per te», dice sorridendo con un pizzico di ironia e recita il suo numero perché io lo registri sul cellulare.
«Gianni, dille pure che attendo una sua chiamata. E che mi farebbe piacere conoscerla una volta a Roma»
Finalmente ci abbracciamo, senza baci di cortesia, come a Porta Cavalleggeri. Adesso riesco a guardare Anneke Wiedfeldt senza timore, la tempesta sembra passata.
Mi saluta, frettolosamente varca il cancello. Io mi fermo fuori.
La guardo mentre sale lungo le scale del palazzo e le dico ad alta voce «Grazie Anke», agito un braccio, ma lei non si volta.