Premio Racconti nella Rete 2023 “Lessico aziendale” di Chiara Persico
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Come sono diventata la “Signorina d’Och”
Una delle poche cose, anzi forse la sola che sapevo di certo era questa: che mi chiamavo Elisabetta Panera. Anzi, a esser precisi, Pànera. Con l’accento sulla prima “A”. Ma accettavo d’essere chiamata anche Panèra, o meglio ancora, Elisabetta. Fu quando cominciai il mio primo, vero, lavoro che persi il privilegio d’essere chiamata con il mio nome.
L’Azienda è l’A&M Communication, immagino dalle iniziali dei nomi dei due fondatori. Dico “immagino” perché qui nessuno viene chiamato come da anagrafe. Negli anni ho sentito rimbombare per gli open space tanti generici “Bomber!” “Grandissimo!” “Meraviglia!” “Amori miei!” da averne la nausea. Per non parlare dei “Picci”, “Jack”, “Ross”, “Fru” durante le riunioni. Anzi, le call di team. O i meeting. Già perché prima di iniziare il mio primo, vero, lavoro non sapevo che avrei perso anche la capacità di parlare la mia lingua.
Il mio primo giorno all’A&M Communication è stato cinque anni fa. Ricordo come fosse ieri il momento esatto in cui la mia scarpa tacco 8 di seconda mano aveva oltrepassato la porta a vetri girevole e un pavimento di marmo lucido si era spalancato davanti ai miei occhi. Aveva un sorriso beffardo, il pavimento. Sembrava dire: «Ecco la novellina col tacco da nonna che farò cadere davanti a tutti il primo giorno del suo primo, vero, lavoro!»
Ma per fortuna la mia mente, resa vigile da un’intera caffettiera zuccherata, si era messa in allarme. Avevo attraversato indenne l’atrio grande quanto la stazione di Milano Centrale e mi ero diretta decisa ai tre ascensori. Saranno tutti uguali? Mi ero chiesta, osservando pensierosa la pulsantiera di quel grattacielo di 30 piani. Finché uno dei tre non aveva spalancato la bocca e mi aveva risucchiata insieme ad altre dieci persone. Eravamo tutti vestiti di blu in quell’ascensore, lo ricordo bene. Donne in tailleur, uomini in completo. Dal blu chiaro, al profondo notte. Ma quando l’inghiottitore d’esseri umani mi aveva risputato fuori, un mondo di colori mi aveva offuscato la vista. Piano 25, A&M Communication.
Pareti giallo fluo, scrivanie arancioni, sedie verde muschio e pouf rossi a pois bianchi. Indecisa se sedermi su una seggiola color vomito o un’Amanita muscaria, mi ero diretta verso quello che mi sembrava l’ufficio accettazione (che da quel giorno in poi sarebbe stato il desk).
«Sono Elisabetta Pànera, è il mio primo giorno…» avevo annunciato con un sorriso a una ragazza con un completo color pesca annaffiato in una boccetta di profumo.
Lei mi aveva squadrato, cercando di nascondere una certa compassione con un tono entusiasta: «Bellissima! Forse cerchi l’ufficio amministrazione… Piano 24, tesoro».
Dietro di lei si era spalancata una porta a vetri ed erano usciti in fila: un tizio in bermuda, un giovane con indosso una camicia con dei cactus, una ragazza con un tailleur fucsia abbinato a scarpe gialle. Poi, un signore di mezza età con un papillon a stelle e strisce aveva urlato, a braccia alzate: «Meeting over».
Io mi ero scossa dalla visione di quella processione circense e avevo ribadito: «Elisabetta Pànera, sono la nuova collega di “Organizzazione eventi”».
«Ah, è vero! Event Organization stava cercando una nuova figura. Benvenuta, Betty! Ti accompagno dal tuo team!»
L’avevo seguita mentre trotterellava, rosa e allegra, attraverso l’open space di 30 metri arredato da Puffo Burlone. Cercavo di prestare attenzione alle sue parole e non ai video motivazionali sparati ininterrottamente (in loop) dagli innumerevoli maxischermi. Il migliore mostrava dei rugbisti sporchi di fango sui cui fisici corpulenti venivano proiettate frasi tipo: “Il protagonista non è l’individuo, ma il gruppo”, “Fatica, lotta, impegno: la palla passa di mano in mano, e si avanza insieme, per arrivare alla meta”, “Remember: you’re a rugbyman”.
«Il tuo capo si chiama Giovanni – mi aveva spiegato con voce cristallina – ma tutti lo chiamiamo John, lui lo preferisce!»
Poi aveva aperto una porta a vetri. Dietro una scrivania cuneiforme c’era un tizio sui 40 anni, portava degli occhiali con una montatura rossa e i capelli ricci sparati sulla testa. Era circondato da miniature di personaggi della Marvel.
«John, lei è la nuova arrivata per Event Organization!»
«Elisabetta, piacere.»
«Ben arrivata Elly» aveva quasi urlato con tono squillante.
La ragazza color pesca era tornata alla sua postazione, ma proprio in quel momento tre persone erano entrate nell’ufficio.
«Beth, lui è Fabio Frugoni, ma lo chiamiamo Fru» aveva spiegato il mio capo, indicandomi un giovane in carne con una t-shirt di Topolino «È il miglior grafico in circolazione!»
«Quella con i capelli blu è Baby, la nostra tuttofare.»
«Baby… perché nessuno può mettermi in un angolo!» si era affrettata a precisare con una risata.
«E infine c’è Dollar, è il nostro best seller, è lui che acquisisce nuovi clienti.»
«Piacere!» aveva detto, alzando un mignolo in stile Padrino.
«Come avrai capito qui avere un nome è fondamentale, significa che sei parte del team, identifica il tuo ruolo e ci fa capire chi sei veramente… Tu come hai detto che ti chiami?»
«Elisabetta.»
«Bene Lily, per oggi la lezione it’s over! Dollar ha appena concluso una vendita: organizzeremo un evento di raccolta fondi per un’associazione che ricerca cure per malattie rare.»
«Sono un botto di soldi!» aveva specificato Dollar, imitando un fuoco d’artificio.
«Per festeggiare… tutti al buffet!»
Avevamo, quindi, passato tutta la tarda mattina e il pomeriggio a sorseggiare prosecco, provando a sfamarci con tartine gourmet grosse come una moneta da un euro. Dopo aver ingurgitato venti “Mini vellutata di zucca mantovana profumata al rosmarino Verbenone con gocce di burrata di Andria I.G.P” e altrettanti “Gazpacho fresco con sentore di spezie, gamberetto marinato al lime e semi di papavero” avevamo la pancia che brontolava, ma in compenso eravamo tutti ubriachi. Saranno state le 19:00 circa, quando John aveva finalmente deciso che era l’ora di mettersi al lavoro.
«Sarà una notte di brainstorming!» aveva sbiascicato, aprendo la meeting room «portate una bottiglia, e chiudete la porta!»
Il giorno dopo avevo buttato il tailleur in un cassonetto: l’unica speranza di utilizzare quell’abito era sbagliare un lavaggio o lanciarlo nella candeggina. Per adeguarmi allo stile dell’office avevo preso dall’armadio, letteralmente a casaccio, una maglia rossa e l’avevo abbinata a un pantalone senape. Sembravo un tubetto di maionese, ma mi sentivo più adeguata all’ambiente. Avevo tutta l’intenzione di sentirmi accettata e diventare parte integrante del mio gruppo di colleghi. Anche io volevo un nome perché era il mio, primo, vero lavoro. E dovevo tenermelo.
Arrivata in ufficio alle sette e mezza, mi aveva accolta Baby con una svapata di sigaretta elettronica.
«Da dove posso iniziare? Mi occupo dell’evento di cui parlava John ieri? Quello per la raccolta fondi per le malattie rare.»
«Ma no! Tu sei nuova. Fatti qualche corso di formazione sulla intranet.»
«Davvero?»
«Certo. Inizia da quello di mindfulness.»
John era arrivato alle 11.30, dopo la sua corsetta mattutina e la lezione di yoga. Non si era nemmeno seduto alla scrivania che già mi aveva chiesto di prendere un caffè.
«Davvero è necessario rilassarsi con la mindfulness per fare questo lavoro?» avevo chiesto, sorseggiando un ginseng lungo macchiato al latte di soia (come quello del mio capo).
«Bettina… la gente non ha idea di quanto sia stressante quello che facciamo qui. È un continuo lavoro mentale farsi venire idee per creare una brand communication convincente, una grafica smart, un evento super cool. Questa è la tua prima esperienza, non puoi capire la fatica. Cos’è che facevi prima?»
Cosa facevo prima? Mi ero laureata con 110 e lode in Lettere, avevo conseguito un master in Comunicazione Aziendale, lavorato 12 ore al giorno nella redazione di un giornale (lottando per essere pagata 6 euro ad articolo), avevo fatto volantinaggio per un’agenzia immobiliare, animazione alle feste per bambini vestita da pinguino, la badante a una vicina di casa novantenne e consegnato cibo cinese da asporto in sella a una bicicletta (senza pedalata assistita).
«Niente di così importante…» avevo risposto, cercando di dimenticare. I miei lavori, e quel ginseng.
Eravamo rientrati in ufficio alle quattro di pomeriggio, perché la colazione si era allungata in un lunch meeting. Ma solo due ore dopo avevamo finalmente iniziato a lavorare. Lavorare…
Ci eravamo sistemati nella stanzetta del brainstorming. C’erano una lavagna luminosa, uno di quei pouf a fungo e un tavolo a forma di nuvola. Dollar si era piazzato sul cumulonembo a gambe penzolanti, Baby in un angolo, in terra, a prendere appunti; Fru aveva deciso di camminare avanti e indietro. Non mi restava che poggiare il sedere su quell’assurdo oggetto di pseudo design.
John aveva preso una penna speciale e iniziato a fare schizzi del tutto casuali: Malattie rare = animali rari. «Lo slogan potrebbe essere “Se tieni a un panda, perché non aiuti anche lui?”. Poi, ci piazziamo la foto di qualche bambino un po’ storpio. Non troppo eh, sennò la gente s’impressiona e non sgancia. Osservazioni?»
Baby prendeva appunti forsennatamente.
Fru aveva annuito: «Sto già pensando alla grafica…»
«Il buffet a chi lo facciamo fare?» aveva chiesto Dollar, sgranocchiando l’unghia del mignolo.
«John…»
«Chi ha parlato?»
Io avevo alzato la mano.
«Ah, Lilli! Dicci cosa ne pensi!»
«Ecco, non credi che qualcuno di quei malati potrebbe offendersi vedendosi accostato a un panda?»
«Il panda è un animale figo. Piace a tutti».
«Ma è un animale e le persone che saranno in sala saranno soprattutto bambini malati…»
«Ah, dici che può essere offensivo? Interessante osservazione…» aveva annuito, grattandosi i riccioli «Sentite, per oggi ci siamo sforzati abbastanza. Scrivo qui il compito per domani: “Pensare a una comunicazione ad ok”.»
Mi ero morsa la lingua, ma non era bastato: «Si scrive con la “c”».
«Come?»
«Ad hoc, con la c non con la k.»
«Mmm, sicura? Così?» aveva chiesto, cancellando la “k” e aggiungendo la “c”.
OC.
«E poi ci vuole un’acca.»
«Ah…»
OCH.
Avrei voluto continuare, ma non me la ero sentita. Lui aveva guardato soddisfatto la lavagna: «Bene, ora tutti fuori di qui. È l’ora dello spritzino!»
Poi, mi aveva messo un braccio attorno alle spalle: «Sai, tesoro? Mi hai stupita oggi! Sei molto intraprendente… E ti sei appena guadagnata un nome.»
Io mi ero voltata verso il suo viso con le lacrime agli occhi. Se fosse emozione o terrore, non saprei dire.
«Guarda che non è da tutti… E il secondo giorno è molto raro!»
«Sono onorata…»
«Sarai la “Signorina d’Och”. Per gli amici, solo “Och”. Così ci ricorderemo del tuo primo contributo…»
Io avevo distolto lo sguardo: «Sai… ora avrei proprio bisogno di quello spritzino.»
Oggi ho indossato una gonna a tubino fucsia e una blusa verde. La cosa grave è, che dopo cinque anni, mi sembra d’essere vestita bene. Attraverso tranquilla l’atrio del grattacielo: le scarpe da ginnastica fashion non temono il pavimento lucido. Al piano 25 scende anche una ragazza in tailleur blu. Porta occhiali da topo di biblioteca e una borsa a cartella da insegnante di sostengo. Mi segue verso la porta dell’A&M Communication.
«Carissima, forse cerchi l’ufficio amministrazione… Piano 24!» dico, voltandomi verso di lei.
«Sono Tiziana Queirolo, è il mio primo giorno…»
Il primo giorno del tuo primo, vero, lavoro, penso, squadrandola. Forse dovrei avvisarla che d’ora in poi dovrà dimenticare i suoi studi (classici, con tutta probabilità). Che pronuncerà frasi come: “Printami la presentazione!”, “Boldiamo questo concetto”, “Forwardami l’email”. Che dovrà abituarsi al nuovo lessico aziendale, insomma.
Ma non mi sembra il caso di spaventarla il primo giorno del suo primo, vero, lavoro.
Quindi, le sorrido: «Io per gli amici sono d’Och. Vieni con me, Titti» le stringo la mano e spalanco la porta verso il villaggio dei Puffi. «Ti presento il team!»
Una descrizione ad hoc! …ops, och!!!
Grazie Viviana!
Molto brava Chiara!
Scegliere un commento secondo i gusti:
A) Una short story davvero cool, con un mood 100% spot on e un mastering del plot davvero smart, la cui fine texture mostra uno skilled blending di self-consciousness e fake (ma molto smoothly, senza cadere nel trash).
B) Bella sorè, c’è piaciuta ‘na cifra!
Ahahahahah… scelgo l’opzione B!
Fantastico il gergo da lavoro! Mi sono piaciuti anche i dialoghi, tutti tesi verso il fulcro della narrazione. Complimenti!
Direi spumeggiante come un prosecco e croccante come una tartina gourmet… 😀
Grazie per i vostri commenti!
compiimenti! Molto ironico e spassoso, e fa entrare in questo mondo che sembra fintamente dorato. Brava!
un bel racconto circolare, da Betti a Titti. prosa gradevole, fluida, movimentata da dialoghi credibili e dinamici. degno di nota l’abbigliamento avant-pop a “tubetto di maionese”, che strappa un sorriso. e devo dire che lo stupore/smarrimento del “neo-classico” marziano catapultato in una sit-com tipo camera cafè è incarnato perfettamente dall’och (termine che in inglese colloquiale esprimerebbe per l’appunto sorpresa). resta il timore (almeno a me) che più che il villaggio dei puffi, quello descritto sia un mondo orwelliano (con tanto di neolingua/bislingua) dove si “rieduca” la cultura al mercato.
Grazie Elisa e Malos per le vostre osservazioni azzeccatissime!