Premio Racconti nella Rete 2023 “L’eredità” di Gloria Casati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Non ero adatta alla vita nei campi.
C’era miseria e la guerra era appena finita, le cose non andavano bene.
Mia madre, su consiglio di una vicina, si era presentata a Peccioli dalla Gentili.
Anche lei vedova.
Forse per solidarietà o forse per pietà, aveva acconsentito a darle degli oggetti della sua merceria, da vendere girando per le campagne limitrofe. C’erano contadini nelle campagne di Santo Pietro, di Soiana, ma anche di Scannicci o Scanniccino andando verso La Sterza.
I contadini che abitavano in quei casolari sperduti compravano volentieri calzini, mutande e maglie da mia mamma.
Lei, che sapeva appena far di conto, divideva quei soldini: la parte del suo guadagno da cucire nel materasso, l’altra parte da riportare alla Gentili.
Mi piacerebbe sapere se i suoi figli son sempre vivi, oppure i suoi nipoti. Se qualcuno di loro abitasse ancora a Peccioli vorrei poterli ringraziare.
Dar credito ad una vedova senza soldi fu un atto di grande solidarietà e mi permise di mangiare del pane quando altri nelle mie condizioni pativano la fame.
Già, come i Giuggioli. Non so se questo era il cognome vero oppure un soprannome come usavano dare a quei tempi.
Scendevano da Peccioli quei fratellini disgraziati. Bussavano alle porte chiedendo “Un pezzettino… un pezzettino di pane”. Sudici e con il moccolo al naso, presi in giro dagli atri ragazzetti del paese. Che pena. Ma non potevo, non potevo dargli neppure un pezzettino di pane. Mia madre si sarebbe arrabbiata molto con me, con tutto il sacrificio fatto per poterlo comprare e sfamare me e mio fratello.
Mia madre aveva poco più di quarant’anni e a me sembrava vecchissima. Non lo era. E andare da sola per le campagne per vendere due oggetti della Gentili, ho capito solo dopo, quanto fosse pericoloso.
L’ho capito solo dopo qualche anno, quando vidi nascosto nel cesto, sotto maglie e calzini, un falcetto affilato da usare nel caso qualcuno l’avesse importunata.
Insomma, passata la guerra, a settembre, c’era la speranza di guadagnare qualcosa facendo la vendemmia.
Avevo quindici anni, ero carina ma un po’ gracile e mi proponevo per andare a incassettare l’uva. C’erano delle donne di paese che organizzavano un gruppetto di manovali per andare alla vendemmia a Peccioli.
Cattive e invidiose, si sceglievano le più brutte del paese per non sfigurare e a me dicevano sempre che non avevano bisogno.
Un giorno presi coraggio, andai con un’amica a Peccioli e mi proferii al fattore che organizzava il lavoro: – Voglio lavorare, avete bisogno?
– Vieni ragazza, mi mancavano le donne! Vai e prendi le cassette. Tra cinque minuti si parte e si va a Montecchio.
Si saliva per via della Greta, ma tutti la chiamavano lo scorcio, poi direzione Montecchio.
Sul lato che guardava il fiume, le vigne dove lavorare. Prima delle Ripe nelle terre di Gastigo, o alle Ripe nelle terre del Neri.
Le donne si dividevano in gruppi: le addette alla vendemmia, le addette alla pulitura e poi quelle che incassettavano come me.
Le cassette erano quelle fatte nella segheria del Socci, anche lui di Montecchio.
Si incassettava l’uva. La più bella sopra, i raspi più brutti sotto.
Si tornava a casa stanche e passando sul ponte sull’Era, sguardo dritto e niente distrazioni.
Avevo gli zoccoli. Volevo sembrare più grande.
Mia madre, sempre a brontolare, ma io andavo con gli zoccoli. E le gambe dritte e ben fatte si notavano di più.
Le donne più forti e agili a volte saltavano sul camioncino insieme alle cassette dell’uva, io non avevo coraggio e la strada me la facevo sempre tutta a piedi.
C’erano ancora dei soldati americani accampati lì sotto. La guerra era finita ma c’erano ancora.
E salutavano le ragazze che passavano, qualcuno sapeva qualche parola d’italiano, qualcuno fischiava soltanto.
Avrei voluto voltarmi e contraccambiare il saluto. Ma cosa avrebbero detto di me quelle vecchie arpie che neppure mi volevano far lavorare? E sicché filavo dritto senza girarmi.
Ce n’era uno in particolare. Era mulatto e aveva un bel sorriso. Quando passavo sentivo gridare a gran voce: “Wanda! Wanda!”. Ma non c’era nessuna Wanda nel gruppo delle donne.
Continuava a chiamare, all’inizio con la voce squillante e allegra, infine con voce arrabbiata.
Le donne più grandi complottavano fra loro facendo varie ipotesi. Che fosse matto? Ubriaco forse? Che avesse scambiato qualcuna di noi ragazze per la sua fidanzata americana? Che fosse in preda al delirio causato da qualche trauma?
In una sera d’estate il soldatino americano era venuto in paese con due commilitoni. Sedute su un muretto scalcinato al limitare dell’abitato, io e le mie amiche a frascheggiare. Si erano fermati e con quelle poche parole d’italiano stentato, c’eravamo conosciuti. Qualcuno di loro ci avevano mostrato foto stropicciate delle loro famiglie, ma lui no. Avevamo giocato con il loro cappello indossandoli e facendo smorfie, infine da una casa lontana dove c’era una radio, erano arrivate le note di una canzone molto in voga.
“Ti parlerò d’amor…” la cantava Wanda Osiris. Provai a spiegarlo ai giovani americani ma tra una risata e l’altra ne uscì fuori un equivoco. I militari capirono che Wanda era il mio nome. Joseph era il suo nome.
Joseph stava chiamando proprio me.
Così accadde al rientro dopo la prima giornata di vendemmia e così pure la seconda.
Le donne a chiedersi cosa aveva da urlare il soldatino, io a capo basso e un lieve pudico rossore sulle gote che passava inosservato dopo la giornata all’aria aperta cui non ero avvezza.
La sera, a lume spento, presi un pezzo di carta gialla, di quella usata per avvolgere il pane e con un mozzicone di matita, scrissi: Caro Joseph non posso fermarmi, mi dispiace. Lo arrotolai e me lo infilai in seno.
La terza sera di vendemmia rimasi in coda al corteo delle donne.
Lo sentii chiamare, senza voltarmi presi il messaggio e lesta lesta lo gettai appallottolato, sotto l’argine.
Ecco, Joseph adesso sapeva che lo pensavo.
Eccome se lo pensavo. La sera mi addormentavo con la sua voce nella testa ed io diventavo Wanda. Cantavo una canzone d’amore silenziosamente, ballavo senza neppure scendere dal letto, infine mi addormentavo.
La quarta sera, camminando all’altezza dell’accampamento, non sentii la sua voce che mi chiamava. Allora lo cercai con lo sguardo, era lì che mi sorrideva e mi fece cenno con la mano di guardare sul ciglio del fosso. Sullo stesso pezzo di carta gialla che avevo utilizzato io, fermato a terra con una pietra di fiume, aveva scritto: Wanda, sei bellissima, vieni via con me.
Con gesto furtivo lo presi. Il cuore mi batteva così forte che me lo sentivo nello stomaco e nelle orecchie. Quella notte non chiusi occhio.
Il quinto giorno di vendemmia, passando sull’Era al mattino presto, si vedevano i militari intenti a smontare le tende e a caricare le camionette. Io mi sentii mancare, inciampai cadendo sulle ginocchia rialzandomi di scatto scuotendo quel vestitino, stinto e ricucito, dalla polvere della strada.
La giornata di vendemmia pareva non finire mai.
Quando mi misi in cammino per il tornare a casa pensai alle vecchie arpie che camminavano poco più avanti, pensai alla miseria della mia famiglia. Pensai a mia madre e ai suoi rimproveri, pensai ai miei zoccoli. Infine pensai a mio fratello.
Ma a casa non ci tornai.
Ecco quello che c’era scritto in quelle pagine contenute nella cassetta di sicurezza.
Sapete come funziona l’apertura di una cassetta di sicurezza?
Devono essere presenti gli eredi o i cointestatari, se ce ne sono. Poi il notaio, un funzionario dell’agenzia delle Entrate, un valutatore dei beni.
Io ero presente in qualità di unica erede.
Ero presente all’apertura della cassetta di sicurezza di una persona, di cui fino a quel momento, ignoravo totalmente l’esistenza.
Sapete com’è fatto un albero genealogico?
Si presenta come un foglio lungo con righe tipo pentagrammi. Sulle righe ci son segnati i nomi, le date di nascita e di morte e le unioni matrimoniali.
Il genealogista successorio ha fatto l’albero genealogico di Wanda Connor scoprendo che in realtà si chiamava Alba Casati. Deceduta apparentemente senza eredi. Poi due mesi fa, ho ricevuto una telefonata.
Al telefono una signora con accento americano si è presentata come agente della Coutot-Roehrig, un’agenzia specializzata in ricerche genealogiche che ha molte sedi in Italia.
Mi stavano informando che ero l’erede di una persona deceduta a Miami nell’estate del 2021 all’età di novantadue anni.
Potevo prendermi del tempo per rifletterci su e nel caso avessi voluto sapere di chi si trattava e qual era l’entità dell’eredità, avrei dovuto ricontattarli e firmare un contratto per il pagamento, ovvio, della loro percentuale di guadagno.
Lì per lì pensai ad uno scherzo.
Di lì a tre giorni, li ricontattai per la firma, assistita dal mio avvocato.
L’eredità consisteva in una villa a Miami dal valore stimato in circa 800.000 €, un patrimonio tra titoli e conti correnti bancari di circa 500.000,00 dollari e una cassetta di sicurezza di cui dovevamo verificare il contenuto. La casa era vuota da anni perché Wanda, sola e non più autosufficiente, si trovava in una casa di cura alla periferia di Miami.
I dati oggettivi erano questi. Da lasciare senza fiato un impiegato part time con mutuo sulla casa come me. Ma quello che mi turbava di più in realtà, era sapere chi era Wanda Connor.
L’incaricato dell’agenzia, documenti alla mano, mi ha riassunto in poco più di due ore, la storia più incredibile che avessi mai sentito. Gli americani, di sicuro, ci avrebbero fatto subito un film.
Ma solo all’apertura della cassetta di sicurezza, alla lettura di quelle parole scritte in bella calligrafica, la storia ha preso una forma.
La cassetta conteneva quelle pagine di cui vi ho riportato il testo.
Alcuni gioielli per un valore di circa 60.000,00 €.
Un album di fotografie: Joseph militare in Italia, Wanda sulla camionetta in partenza con vestitino stinto e gli zoccoli ai piedi, Wanda e Joseph davanti ad una torta nuziale e decine di altre immagini di vita insieme. Una vita felice insieme. Nessuna foto di bambini.
Infine un vecchio biglietto scritto su carta gialla tutta sgualcita “Wanda sei bellissima, vieni via con me”.
Mi chiamo Giada Casati, figlia di Moreno Casati, figlio di Saverio Casati, figlio di Cesare Casati, figlio di Pergentino Casati nato a Peccioli nel 1862 e ieri sono andata al cimitero di Peccioli.
Prima di entrare mi son seduta sulla panchina in pietra che sta davanti al cancello del Campo Santo.
Sulla mia destra le colline dell’alta Valdera e in lontananza, verso il mare, alcune pale eoliche a far da sentinella.
Poi, dopo un respiro profondo, sono entrata.
Ero da sola ma il luogo non mi metteva per niente soggezione. Il rumore della campagna: c’era il cinguettio di uccellini alternato al rumore di trattori lontani e poi tutte quelle storie intorno a me. E’ incredibile come in un luogo di morte ci sia tanta vita.
Merlini, Ferretti, Montagnani, Passerotti… scorro velocemente i cognomi sulle lapidi. I cognomi più comuni a Peccioli si ripetono tra le tombe e si fanno eco rimbalzando come una palla invisibile in un gioco di squadra immaginario.
Mi commuovo un po’ di fronte ad una fila di piccole sepolture. Qualcuna veramente vecchia eppure ci sono fiori freschi. Su alcune, per un destino ingrato, è riportata la stessa data di nascita e di morte.
Decido di percorrere il vialetto che costeggia il muro perimetrale lungo via del Molino, è lì che scorgo le lapidi più vecchie.
Qualcuna è così consumata dal passare del tempo e dalle intemperie, che si riescono a leggere solo poche sillabe.
La maggioranza di queste non ha una foto.
Soldati deceduti in Albania, una giovane madre sconfitta da breve malattia, coniugi ricongiunti nella sepoltura.
Infine la vedo: è una lapide bianca dalle forme gotiche, piccola e armoniosa nelle linee. I caratteri dell’epitaffio sono ancora ben leggibili: “ Alba Casati – di anni 15 – docile e affettuosa fanciulla, ci abbandonò nel pieno della sua giovinezza. La mamma e il fratello a perenne memoria. Una Prece.”
Sono veramente felice di averla trovata, appoggio una rosa ai piedi della lapide, di riflesso mi faccio il segno della croce e butto un bacio nel vento.
Non posso rimanere però per molto tempo ancora, tra poche ore ho il volo per Miami.
Adesso sono pronta per andare a conoscere la seconda vita di Wanda Connor, mia zia.