Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Un mese in colonia” di Giovanni Aiassa

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Il mare lo vidi la prima volta all’età di otto anni, quando fui spedito in compagnia di

mio fratello gemello nella colonia marina di F* in Liguria per trascorrervi il mese di

agosto di sessanta anni fa : essendo mio padre operaio della Lancia di Torino poteva

fare domanda per iscriverci alle vacanze organizzate dall’azienda (si poteva scegliere

tra mare e montagna) e previa visita medica (che fu superata) il nostro destino fu

segnato: forse non era il mio primo viaggio su un treno ma certo era la prima volta

che sarei stato lontano da casa e lontano dai miei genitori.

La stazione di Porta Nuova a Torino quel mattino d’estate pullulava di bambini

scortati da padri e madri e parenti vari in ghingheri: mia madre ad un certo punto

mi indicò una tipa che indossava un’uniforme sussurrandomi: – Vedi, quella è la

signorina del vostro gruppo: è bella come la vostra maestra!

Io però pensai: – Ma non è affatto vero! Non è bella come la mia maestra!

La mia bella maestra, che si chiamava Gemma, era giovane e di corporatura

slanciata, sempre elegante e invece questa “signorina” era piccoletta, paffutella

e poco avvenente. Non so perché, ma la presi subito in antipatia.

Ci furono gli ultimi saluti, le ultime raccomandazioni (fate i bravi, neh!) e poi

come tanti soldatini fummo smistati nelle varie carrozze e finalmente il treno

sbuffando, fischiando e rumoreggiando abbandonò la stazione di Torino Porta Nuova.

Dopo circa due ore arrivammo a destinazione: venimmo incolonnati e scortati

fino alla colonia. Che poi era un vasto edificio con un vasto cortile non molto

distante dal mare: purtroppo sentivo già la nostalgia di casa e mormorai a mio

fratello: – Mi sì ven pì nen (Io qui non vengo più)

Fummo quindi fatti accomodare in un grande ambiente dove un signore magro,

non molto alto con dei baffetti e tutto vestito di bianco ci fece un discorsetto

elencando tutte le cose belle e divertenti che ci sarebbero capitate in quel mese:

in cambio pretendeva solo un comportamento educato da parte nostra, rispettare gli

orari, non litigare coi compagni e non essere impertinenti con le “signorine” cui

eravamo affidati: quel signore era il “direttore”.

Non rammento bene cosa successe dopo: però ricordo che a pranzo

come antipasto c’era anche l’insalata russa : adesso ne sono ghiotto, ma

allora non sapevo cosa fosse e forse la lasciai sul piatto.

Il giorno dopo noi due iniziammo a frignare; anzi, no: erano veri e propri

pianti dirotti. Mio fratello Beppe sostiene che io fui inconsolabile per due

settimane di fila, sottintendendo che lui era corso ai ripari molto prima.

Sicuramente è vero che ci impiegai più tempo: ad esempio corrisponde alla nuda

verità che versai lacrime amare perfino durante la proiezione di un film comico.

Già, perchè mentre tutti gli altri bambini, compreso il mio gemello, se la ridevano

di gusto (e lo credo!: visto che il film in questione era “Il nipote picchiatello” con

Jerry Lewis) pare che il sottoscritto – anzi lo ammetto perché ne ho un nitido

ricordo – abbia silenziosamente pianto per quasi tutta la durata della pellicola.

Certo, col senno di poi fu un errore non essere andato negli anni seguenti a tra-

scorrere parte delle vacanze estive nelle colonie del signor Agnelli: perché si

imparava a stare in mezzo agli altri, a stare lontano dal nido familiare, insomma a

“crescere”: ma tu vallo a spiegare allora ad un futuro “bamboccione”,

Eppure, i “grandi”, dal direttore in giù, cercavano davvero di rendere il

soggiorno marino il più piacevole possibile: al mattino c’era

l’alzabandiera; a seguire una abbondante colazione con pane burro e marmellata

e dopo si veniva scortati dalle onnipresenti “signorine” fino alla spiaggia riservata:

qui si giocava a fare castelli di sabbia (ma io non ero capace, ahimè) o si prendeva

un po’ di sole finché non arrivava il nostro turno di fare il bagno.

Quasi sempre la mattinata trascorreva così: poi si rientrava per il pranzo,

che era sempre molto gustoso e vario. Purtroppo poi, terminata la fase della

digestione, bisognava fare il riposino pomeridiano: ecco, quello proprio

non mi andava a genio (anche se per me non era una novità, dal momento che

anche a casa mia mamma ce lo faceva fare): ma insomma, anche quella “tortura”

finiva. Il resto del pomeriggio veniva colmato o con giochi di gruppo

nel vasto cortile o andando al cinema o quasi sempre si veniva accompagnati

fuori dalla colonia vera e propria, cioè all’esterno e si facevano delle lunghe

passeggiate nella vicina cittadina di F* o anche negli immediati dintorni,

ovviamente sempre sorvegliati da Cerbero (così avevo soprannominato la

giovane donna che era stata assegnata alle nostre costole per tutto il mese di vacanza).

Appunto durante una di queste sortite avvenne il divertente episodio che ancor

oggi mi strappa delle risate: avevamo fatto sosta su uno spiazzo erboso dopo una

lunga camminata e avevamo appena appena preso fiato quando ci venne dato

l’ordine che bisognava rientrare. Allora un po’ sacramentando ci alzammo

recuperando le nostre cose e iniziammo la via del ritorno. Si era ripeto un po’ stanchi

e dopo un po’ mio fratello si appoggiò ad un muro per recuperare le forze: con la coda

dell’occhio però vide che Cerbero si stava avvicinando di gran carriera e allora

prontamente ritornò al suo posto al mio fianco, sperando di farla franca ed evitare

la temuta rappresaglia. Che infatti ci fu: un ragazzino dietro di noi si beccò un ceffone

accompagnato dalle parole della cara Cerbero: Ecco, così impari a fermarti!

E quello cominciò subito a piagnucolare e a balbettare: – Ma non sono io che mi sono

fermato! E’ stato uno di questi due che sono uguali!

Il momento che attendevo di più alla fine della giornata era quando dopo cena

si andava tutti nel cortile e l’altoparlante trasmetteva le canzoni di Rita Pavone,

Gianni Morandi e Adriano Celentano: anche noi le cantavamo, mentre calavano

le ombre violacee della sera.

Insomma, venne l’ultimo giorno: il trentun agosto millenovecentosessantatré.

Radunammo le nostre cose e in fila indiana ci avviammo alla stazione: l’amico

treno era puntualissimo e tutti noi salimmo a bordo, penso tutti ben contenti di

tornare a casa.

Il viaggio procedette senza intoppi, ma quando fummo in vista della stazione di

Porta Nuova, come ad un segnale convenuto noi sbarbatelli intonammo

una canzoncina dedicata alla nostra accompagnatrice-aguzzina di autore

malizioso ma anonimo: “Signorina che belle gambe / dieci lire per le mutande /

cento lire per tirarle giù /mille lire per far frù frù”. E scoppiammo a ridere, mentre

Cerbero distribuiva sberle a destra e manca ed il il treno sbuffando, fischiando

e rumoreggiando faceva il suo ingresso in stazione, soddisfatto di aver adempiuto

il suo dovere, averci cioè portati sani e salvi a destinazione.

Questa è stata la sola ed unica esperienza coloniale della mai vita!

Loading

Lascia un commento

Devi essere registrato per lasciare un commento.