Premio Racconti nella Rete 2023 “Un mese in colonia” di Giovanni Aiassa
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Il mare lo vidi la prima volta all’età di otto anni, quando fui spedito in compagnia di
mio fratello gemello nella colonia marina di F* in Liguria per trascorrervi il mese di
agosto di sessanta anni fa : essendo mio padre operaio della Lancia di Torino poteva
fare domanda per iscriverci alle vacanze organizzate dall’azienda (si poteva scegliere
tra mare e montagna) e previa visita medica (che fu superata) il nostro destino fu
segnato: forse non era il mio primo viaggio su un treno ma certo era la prima volta
che sarei stato lontano da casa e lontano dai miei genitori.
La stazione di Porta Nuova a Torino quel mattino d’estate pullulava di bambini
scortati da padri e madri e parenti vari in ghingheri: mia madre ad un certo punto
mi indicò una tipa che indossava un’uniforme sussurrandomi: – Vedi, quella è la
signorina del vostro gruppo: è bella come la vostra maestra!
Io però pensai: – Ma non è affatto vero! Non è bella come la mia maestra!
La mia bella maestra, che si chiamava Gemma, era giovane e di corporatura
slanciata, sempre elegante e invece questa “signorina” era piccoletta, paffutella
e poco avvenente. Non so perché, ma la presi subito in antipatia.
Ci furono gli ultimi saluti, le ultime raccomandazioni (fate i bravi, neh!) e poi
come tanti soldatini fummo smistati nelle varie carrozze e finalmente il treno
sbuffando, fischiando e rumoreggiando abbandonò la stazione di Torino Porta Nuova.
Dopo circa due ore arrivammo a destinazione: venimmo incolonnati e scortati
fino alla colonia. Che poi era un vasto edificio con un vasto cortile non molto
distante dal mare: purtroppo sentivo già la nostalgia di casa e mormorai a mio
fratello: – Mi sì ven pì nen (Io qui non vengo più)
Fummo quindi fatti accomodare in un grande ambiente dove un signore magro,
non molto alto con dei baffetti e tutto vestito di bianco ci fece un discorsetto
elencando tutte le cose belle e divertenti che ci sarebbero capitate in quel mese:
in cambio pretendeva solo un comportamento educato da parte nostra, rispettare gli
orari, non litigare coi compagni e non essere impertinenti con le “signorine” cui
eravamo affidati: quel signore era il “direttore”.
Non rammento bene cosa successe dopo: però ricordo che a pranzo
come antipasto c’era anche l’insalata russa : adesso ne sono ghiotto, ma
allora non sapevo cosa fosse e forse la lasciai sul piatto.
Il giorno dopo noi due iniziammo a frignare; anzi, no: erano veri e propri
pianti dirotti. Mio fratello Beppe sostiene che io fui inconsolabile per due
settimane di fila, sottintendendo che lui era corso ai ripari molto prima.
Sicuramente è vero che ci impiegai più tempo: ad esempio corrisponde alla nuda
verità che versai lacrime amare perfino durante la proiezione di un film comico.
Già, perchè mentre tutti gli altri bambini, compreso il mio gemello, se la ridevano
di gusto (e lo credo!: visto che il film in questione era “Il nipote picchiatello” con
Jerry Lewis) pare che il sottoscritto – anzi lo ammetto perché ne ho un nitido
ricordo – abbia silenziosamente pianto per quasi tutta la durata della pellicola.
Certo, col senno di poi fu un errore non essere andato negli anni seguenti a tra-
scorrere parte delle vacanze estive nelle colonie del signor Agnelli: perché si
imparava a stare in mezzo agli altri, a stare lontano dal nido familiare, insomma a
“crescere”: ma tu vallo a spiegare allora ad un futuro “bamboccione”,
Eppure, i “grandi”, dal direttore in giù, cercavano davvero di rendere il
soggiorno marino il più piacevole possibile: al mattino c’era
l’alzabandiera; a seguire una abbondante colazione con pane burro e marmellata
e dopo si veniva scortati dalle onnipresenti “signorine” fino alla spiaggia riservata:
qui si giocava a fare castelli di sabbia (ma io non ero capace, ahimè) o si prendeva
un po’ di sole finché non arrivava il nostro turno di fare il bagno.
Quasi sempre la mattinata trascorreva così: poi si rientrava per il pranzo,
che era sempre molto gustoso e vario. Purtroppo poi, terminata la fase della
digestione, bisognava fare il riposino pomeridiano: ecco, quello proprio
non mi andava a genio (anche se per me non era una novità, dal momento che
anche a casa mia mamma ce lo faceva fare): ma insomma, anche quella “tortura”
finiva. Il resto del pomeriggio veniva colmato o con giochi di gruppo
nel vasto cortile o andando al cinema o quasi sempre si veniva accompagnati
fuori dalla colonia vera e propria, cioè all’esterno e si facevano delle lunghe
passeggiate nella vicina cittadina di F* o anche negli immediati dintorni,
ovviamente sempre sorvegliati da Cerbero (così avevo soprannominato la
giovane donna che era stata assegnata alle nostre costole per tutto il mese di vacanza).
Appunto durante una di queste sortite avvenne il divertente episodio che ancor
oggi mi strappa delle risate: avevamo fatto sosta su uno spiazzo erboso dopo una
lunga camminata e avevamo appena appena preso fiato quando ci venne dato
l’ordine che bisognava rientrare. Allora un po’ sacramentando ci alzammo
recuperando le nostre cose e iniziammo la via del ritorno. Si era ripeto un po’ stanchi
e dopo un po’ mio fratello si appoggiò ad un muro per recuperare le forze: con la coda
dell’occhio però vide che Cerbero si stava avvicinando di gran carriera e allora
prontamente ritornò al suo posto al mio fianco, sperando di farla franca ed evitare
la temuta rappresaglia. Che infatti ci fu: un ragazzino dietro di noi si beccò un ceffone
accompagnato dalle parole della cara Cerbero: Ecco, così impari a fermarti!
E quello cominciò subito a piagnucolare e a balbettare: – Ma non sono io che mi sono
fermato! E’ stato uno di questi due che sono uguali!
Il momento che attendevo di più alla fine della giornata era quando dopo cena
si andava tutti nel cortile e l’altoparlante trasmetteva le canzoni di Rita Pavone,
Gianni Morandi e Adriano Celentano: anche noi le cantavamo, mentre calavano
le ombre violacee della sera.
Insomma, venne l’ultimo giorno: il trentun agosto millenovecentosessantatré.
Radunammo le nostre cose e in fila indiana ci avviammo alla stazione: l’amico
treno era puntualissimo e tutti noi salimmo a bordo, penso tutti ben contenti di
tornare a casa.
Il viaggio procedette senza intoppi, ma quando fummo in vista della stazione di
Porta Nuova, come ad un segnale convenuto noi sbarbatelli intonammo
una canzoncina dedicata alla nostra accompagnatrice-aguzzina di autore
malizioso ma anonimo: “Signorina che belle gambe / dieci lire per le mutande /
cento lire per tirarle giù /mille lire per far frù frù”. E scoppiammo a ridere, mentre
Cerbero distribuiva sberle a destra e manca ed il il treno sbuffando, fischiando
e rumoreggiando faceva il suo ingresso in stazione, soddisfatto di aver adempiuto
il suo dovere, averci cioè portati sani e salvi a destinazione.
Questa è stata la sola ed unica esperienza coloniale della mai vita!