Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Viaggio sull’altopiano” di Mariangela Giusti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Nella Piana di Bettelmatt, in Val Formazza, sopra Domodossola, c’èil passo del Gries. Nei secoli vi hanno transitato pastori, cacciatori, mercanti, contrabbandieri, artigiani, artisti itineranti chiamati dalla gente a dipingere le facciate delle case e dai preti delle valli ad abbellire gli interni delle chiese.  

Avevo ricevuto un invito, che volli accettare come esperienza di formazione. Cercavo una nuova conoscenza delle cose e di me stessa, per superare la scissione fra il prima e il dopo, per staccarmi dalla condizione di figlia, che non esisteva più, dopo la scomparsa di mia madre.  L’invito, rivolto a un gruppo ristretto di persone da un professore anziano, era per un raduno a metà fra il sacro e il profano, che prevedeva di ritrovarsi fra vecchi amici quasi ottantenni e persone più giovani per una commemorazione. La complessità dell’invito era come una sfida per me perché l’altopiano era un luogo sconosciuto e a grandissima lontananza.

Il mio viaggio era durato tutta la notte. Avevo viaggiato da sola, ponendo attenzione agli orari e ai cambi di treno nelle stazioni che attraversavo. La notte come apertura, come avvio, come possibilità per affrontare una nuova esistenza sconosciuta.  In treno, il corpo aveva ceduto al sonno mentre la vita continuava a scorrere. Procedevo nella notte, sperimentavo l’esperienza fisica della perdita di senso, di una possibile rinascita, di una ricostruzione graduale.

Il treno mi aveva consentito tempi dilatati, adatti alla scoperta, alla memoria, al riconoscimento di luoghi; aveva lasciato tempo per l’osservare, per il sonno, per la sorpresa; mi aveva obbligato ad attraversare fisicamente diverse regioni. Erano stati necessari quattro treni e poi un autobus. Per l’ultimo tratto – una trentina di chilometri- avevo dovuto cercare un’auto con autista, che, poco dopo esser partiti, forse per cortesia o per ospitalità, mi chiese il motivo del mio viaggio. Aveva creduto che mi trovassi lassù per villeggiatura; gli spiegai, invece, che ero stata invitata per una commemorazione. Si stupì molto. La conversazione, così come si era avviata dal nulla, s’interruppe perché non c’era altro da dire. Invece, dopo un po’, l’autista riprese a parlare. Ricordava con precisione quella tragedia perché era stato proprio lui, con altri, a portare i primi soccorsi ai tre ragazzi finiti nel crepaccio di ghiaccio: un tentativo inutile.  Era la fine di dicembre di cinquant’anni prima: quei ragazzi facevano parte di un gruppo scout. L’autista conservava una memoria molto viva degli accadimenti di quel giorno. Nei trenta chilometri di strada a curve e in salita, guidando, raccontò molti particolari, come se parlasse a se stesso, come se sul sedile posteriore non ci fosse nessuno ad ascoltarlo. Parlava della bufera di neve improvvisa, non segnalata da nessuna previsione metereologica. Parlava del recupero dei corpi, con dettagli molto precisi, come se fossero avvenimenti accaduti pochi giorni prima.  

Il tratto di strada percorso con l’auto a noleggio si concluse in un’ampia spianata. Intorno c’era un bar e una stube accogliente, con pareti in legno, soffitti a volta e una stufa. Anche da fuori e da una certa distanza dava l’idea di un luogo caldo e confortevole dove una ventina di uomini e donne stavano insieme per trascorrere un po’ di tempo, mangiare, chiacchierare, rilassarsi. Notai anche una locanda e un parcheggio dove diverse persone stavano in attesa, alcune in piedi riunite a gruppetti, altre sedute dentro le macchine.

L’autista, prima di ripartire, mi salutò con una stratta di mano, come se ci conoscessimo da chissà quanto tempo. Avrei dovuto portare il suo ricordo sulla cima dell’altopiano, mi disse. Eravamo già a una notevole altitudine, infatti, ma il viaggio non era ancora terminato.

Quando scesi dalla macchina a noleggio, mi trovai in piedi ad aspettare non sapevo cosa. Il professore mi vide da lontano, mi fece un cenno di saluto, si indirizzò verso di me, con una camminata energica e decisa. Mi accolse con un abbraccio, mi chiese come avevo fatto ad arrivare, dicendosi meravigliato di vedermi. Era un abbraccio di benvenuto, il suo, ma lo intesi come un gesto dell’aver cura di me.

Nell’ultimo tratto di strada, la salita per giungere alla cima diventava ripidissima: una jeep da montagna faceva la spola di continuo fra il livello di altitudine del parcheggio e la cima dell’altopiano.

Mi misi in fila ad aspettare, in mezzo a tanti altri. Quando arrivò il mio turno salii sulla jeep, con altre otto persone. Arrivammo al livello superiore dell’altopiano, ma non era ancora la parte più alta. Le ultime centinaia di metri dovevano essere percorse a piedi. Il sentiero era stretto e diventava sempre più ripido. M’incamminai nella fila, in mezzo a donne e uomini che non conoscevo, tutti più anziani di me. Compresi che quelle persone, un tempo, erano state amiche e amici, compagni di classe, parenti dei ragazzi della commemorazione. Anche quei tre ragazzi caduti nel crepaccio avrebbero avuto all’incirca ottant’anni se non fosse accaduta quella tragedia.  

La salita a piedi verso l’altopiano aveva preso un procedere lento per via dell’altitudine che toglieva il respiro; era come un pellegrinaggio verso il luogo della lapide messa a ricordo di quanto tragicamente era avvenuto.

Mi chiedevo cosa mi avesse spinta ad arrivare fin lassù. Essere lì mi dava il senso di trovarmi dentro a una storia più vasta della mia, potermi avvicinare alla realtà di altri, poterla conoscere, dimenticando per un po’ la mia realtà, senza considerarmi al centro di una storia unica ed esclusiva. Ero entrata a far parte di una memoria collettiva, fatta di segni lasciati da eventi che, anni addietro, avevano interessato i presenti. La mia memoria s’inseriva in un momento d’incontro di storie che riguardavano altri, non me. 

Fu celebrata la messa al campo. Un sacerdote dal volto anziano, dai gesti vigorosi e pieni di spirito sistemò i pochi oggetti del rito su una larga roccia piatta, accanto alla lapide commemorativa, come fosse un altare, rendendola sacra. I presenti, circa un centinaio, si sistemarono in piedi, creando in pochi istanti la forma di un cerchio vastissimo, come rispondendo a un invito. Gesti minuti, rapidi, che coinvolgevano i corpi di tutti, ma avevano a che fare anche con la prossimità dei corpi delle persone vicine, a destra e a sinistra di ciascuno. Sollecitata da altri, con pochi movimenti anch’io entrai a far parte del cerchio. Per molto tempo nessuno disse nulla. Il sacerdote taceva, lasciando che ciascuno sperimentasse l’esperienza del silenzio, l’esperienza dell’essere che scorre senza interferenze, senza frastuoni, senza voci, senza azioni, senza pensieri.

Dal silenzio il sacerdote avviò la celebrazione con la lettura di brani tratti dalle Scritture, cui aggiungeva parole che univano passato e presente, storia ed esistenza e parlavano a tutti.

Con due persone che gli stavano a fianco, intonava dei canti, che mischiavano melodie della montagna a parole del rito. Mi parvero canti antichi e commoventi, che non potevo cantare perché non li avevo mai sentiti prima. Quasi tutti i presenti li conoscevano a memoria e li cantavano. Di tanto in tanto tutti si prendevano per mano, il cerchio diventava un tutt’uno, senza soluzione di continuità. Anche le mie mani, a destra e a sinistra, erano prese dalle mani di altri che non conoscevo e tenute strette in un gesto d’unione.

Anche nei canti, nelle tonalità musicali e nell’energia che trasmettevano, c’era qualcosa di sacro e di profano: anima e corpo, spirito e materia mischiati e filtrati attraverso una memoria collettiva che apparteneva alla maggior parte delle persone riunite.

Al termine della celebrazione il grande cerchio si sciolse. Il sacerdote ripose nella borsa i pochi paramenti sacri. Gradatamente si formarono gruppetti di conversazione vivaci e poi, un po’ per volta, fu fatto da tutti a ritroso il percorso per scendere dall’altopiano: un tratto a piedi e il trasbordo con la jeep. Era previsto un pranzo nella stube sulla spianata del parcheggio delle macchine. Diverse persone m’invitarono a restare, nonostante la mia estraneità al gruppo. Per il professore era ovvio che restassi: sarei rimasta con loro e poi mi avrebbero accompagnato in macchina fino alla prima località dov’era la stazione ferroviaria. Non accolsi l’invito. Accennai ai tempi, agli orari, alle coincidenze dell’autobus e del treno, motivi più che validi per non poter proprio restare.

Per me la commemorazione era contenuta nel tempo del viaggio, del racconto, dei canti.

La giornata era conclusa: l’ascolto del silenzio, le preghiere, la memoria viva dei fatti che, nel suo passaggio da mente a mente attraverso la parola, era divenuta memoria comune. Avevo fatto un’esperienza di partecipazione, di rispetto per la vita e per la morte. Avevo sperimentato il significato dell’ospitalità: ero stata accolta come un’amica in un gruppo dove le relazioni e i rapporti fra le persone erano profondi e stretti da tempi immemorabili.

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