Premio Racconti nella Rete 2023 “L’uomo delle viti” di Valentina Rosati
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Pomeriggio tardo del quindici agosto. Piazzale del Verano è nel sole e gli autobus sono balene arenate su una spiaggia d’asfalto. Brillano, luccicano tristemente come trenini rotti, giocattoli anni Sessanta abbandonati in un giardino dimenticato. I conducenti in maniche di camicia fumano lentamente e il sudore bagna le barbe lunghe, le facce stanche. Fermo sul marciapiede, lui aspetta. Indossa la giacca nera, la cravatta ben annodata al collo, le scarpe lucide. Tra le gambe la valigetta, nera anch’essa. Aspetta l’ultimo della giornata. O l’ultima forse. Dopo tanti anni non fa più differenza. La camera ardente chiude alle diciassette e trenta. Cinque minuti prima entrerà, mormorando parole di condoglianze ai parenti. Sistemerà il coperchio sulla bara aiutato da un collega. Poi lui, l’uomo delle viti, avviterà con cura una vite dopo l’altra e tutto sarà finito.
Capitava, a volte, che qualche parente gli si appendesse al braccio e cercasse disperatamente di fermarlo mentre lui gli portava via le ultimi immagini di un volto amato. I più rimanevano in disparte con le mani sugli occhi gonfi, o si allontanavano a testa bassa o più semplicemente non c’erano. Di fronte alle bare lasciate sole aveva imparato la solitudine della vita e quella della morte insieme.
Agli inizi, si era sentito spesso in colpa. Fissato, accusato dai suoi morti. A causa sua, non sarebbe più stata luce o aria o suono. E anche se la morte aveva tolto loro tutto ben in anticipo sul suo arrivo, la prima vite gli rivoltava lo stomaco come una condanna. Poi, vite dopo vite, il peso diventava più leggero. Il tempo doloroso tornava a fluire. E dopo l’ultima vite lui si sarebbe allontanato compostamente e fuori, nel mondo dei vivi, ci sarebbero stati luce e aria e suoni.
Per il primo anno di lavoro erano stati i suoi morti, li ricordava tutti. Le smorfie, le rughe, le bocche, le mani, la pelle. La morte che si declinava sui corpi infinite volte al suo passaggio. Per ogni età, per ogni sesso.
Poi un giorno di primavera aveva smesso di notare quelle tracce impietose. Si trovava in un paese fuori Roma, costruito nel tufo, a guardia di una valle rigogliosa, una campagna dolce e inoffensiva. Una paesana di novant’anni o forse più, nella sua bara, lo aspettava in una camera ardente dai mobili di legno squadrati, solidi, il pavimento in cotto, nudo come anche le pareti. Ovunque fiori di stagione emanavano un profumo intenso. Fermo sulla porta, lui pensava che quel pomeriggio a Roma sarebbe stato bello andare a villa Borghese con una bottiglia di birra e un libro, di fumetti magari perché a lui le cose troppo scritte non è che piacessero molto. Capì che era il suo turno quando i parenti iniziarono a lasciare il salotto. Raccolse la valigetta ed entrò. Dentro c’era ancora qualcuno. E il suo sguardo non sfiorò nemmeno la defunta. A lato della bara, leggermente china, stava una ragazza bionda. Gli occhi scuri si intravedevano appena sotto le palpebre semichiuse, rivolte con affetto alla persona cara. Non fu la bellezza a colpirlo, non fu la figura snella stretta nel tailleur nero. Lei sorrideva. E continuò a sorridere in piedi accanto a lui che avvitava con precisione. Prima dell’ultima vite lei silenziosamente si voltò e uscì e lui quella volta, quell’unica volta, avvitò una vite in meno e le andò dietro.
Da quel giorno il suo lavoro divenne un’abitudine come un’altra. Nessuna colpa, nessuna condanna. Avvitava con velocità e lasciava il mondo dei morti e tornava da lei, Laura, che era diventata sua moglie e che ogni volta che rientrava non chiedeva nemmeno del lavoro ma parlava, parlava della casa, dei negozi che aveva visto, spettegolava sulle sue amiche e riempiva così tutti i suoi silenzi. Riempiva le sue giornate libere, i suoi fine settimana, di passeggiate lunghe in riva al mare, di cinema bui, di commedie divertenti, di vetrine, di musei, di viaggi. Laura era il mondo dei vivi ed era tutto il suo mondo.
Poi Laura iniziò a parlare di figli. Quei figli che non venivano, che aspettarono per anni, che non sarebbero mai arrivati.
Poi iniziò a parlare dei silenzi. Dei suoi silenzi che non riusciva più a riempire, che avrebbe voluto violentare, invadere, lacerare. Cosa c’era dietro i suoi silenzi? Glielo urlava dietro con rabbia alcune sere. Cosa vedeva nelle bare, cosa vedeva nei volti afflitti che gli tagliava così la lingua, che sembrava asciugargli così ogni pensiero? Ma lui non vedeva niente. Era routine. Entrava, avvitava, usciva. Non correva più da lei. Andava al bar con i colleghi e parlava di auto, poco di sport, che non gli era mai interessato, a volte di fumetti. La vita era così flebile che faceva fatica a sentirla pulsare tra fuori e dentro la camera ardente. Viveva di notte. Nei sogni.
Sognava spesso di quando era bambino ed era sua mamma a volte a svegliarlo. E a lui sembrava davvero di alzarsi dal suo piccolo letto e strascicarsi in cucina. Di assaporare davvero la dolcezza della marmellata di marroni che sua mamma sorridendo spalmava su un pezzo di pane con un bicchiere di latte. Sognava di correre in bicicletta, con il vento sul viso e la pelle tesa, sognava la fionda con cui giocava a tirar giù le bottiglie dal muretto. Mirava con l’impazienza di diventare grande e vivere le sue avventure. Sognava Laura, di baciarla nel sole di febbraio, sognava il suo sorriso al risveglio, sognava la sua voce.
Sognava un uomo migliore, era un uomo comune. Che si svegliava accanto a una donna comune, astiosa, invecchiata, dura. Al risveglio vedeva solo la sua schiena, si alzava nel buio, si vestiva con cura, la valigetta già pronta all’ingresso. Faceva colazione solo, con la luce elettrica, la tv spenta. E mangiava solo una fetta biscottata, perché aveva il colesterolo alto e la marmellata di marroni non se la poteva permettere.
Così lui, Giovanni, l’uomo delle viti, alle diciassette e venticinque minuti del quindici agosto si alza dalla panchina, prende la valigetta e si avvia verso l’ingresso dell’obitorio comunale, convinto che ogni noiosissima parola della propria silenziosa vita comune sia già stata scritta, che ogni immagine sia un fumetto muto. Ma non sa che Marco è in macchina, al telefono, perché sua moglie sta partorendo al Policlinico di Roma. Ed è pazzo di gioia e ha tutta la vita davanti e non guarda dietro di sé mentre fa retromarcia. Così non vede Giovanni, un triste uomo di mezza età, che attraversa la strada. La valigetta vola, sbatte sull’asfalto duro, si apre. Le viti brillano alla luce del sole. Giovanni ha il capo riverso all’indietro e sente il dolore sordo dietro la nuca. E sente l’odore acre della strada bruciata dall’estate e l’umido di una macchia d’olio sotto le dita della mano destra. E la cravatta che gli stringe il collo, e i peli della barba che gli prudono per il caldo, e la luce sugli occhi ancora aperti. Vuole parlare ora ma lui, l’uomo delle viti, è destinato al silenzio. Un pensiero vola via e cerca una donna comune, triste, di mezza età che, affondata in un divano, si ripara dalla calura d’agosto. Dalla finestra appena socchiusa, di soppiatto, inaspettato, si arrampica un odore di asfalto bagnato e di fiori schiusi e di terra scura che le accarezza il viso e il collo. E subito scivola via.
Un racconto nel quale la parabola di una vita è rappresentata efficacemente, come un cerchio che si chiude. Complimenti!
Sembra di leggere un racconto di altri tempi ed è un complimento naturalmente.