Premio Racconti nella Rete 2023 “La magia solidificata” di Barbara Marchetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Da quando era piccola Leda si era esercitata per controllare i suoi poteri. I poteri crescono via via dentro il corpo ma bisogna stimolarli ad uscire. Bisogna convincerli. Non fanno tutto da soli. E così mentre la sera la madre urlava in salone al padre dandogli dell’ometto insignificante, lei concentrava tutte le sue energie sul pavimento della stanza per farlo sollevare. Immaginava una grossa bolla, che lo inglobasse insieme ai due personaggi che vi si insultavano sopra e portasse lontano dalla casa il piccolo teatrino.
All’età di quattordici anni, quando seduta alla cattedra la professoressa le chiedeva per la terza volta di parlarle dell’unificazione italiana, lei muoveva di nascosto le dita sotto il banco, le faceva oscillare piano e in ordine alternato coi palmi delle mani rivolti all’insù, affinché la donna si gonfiasse per poi esplodere in un trionfo di eyeliner colorati.
Al termine della festa per i suoi diciotto anni, giornata in cui aveva avuto voglia di perdere la verginità, stesa sul letto al termine dell’amplesso deludente, strizzava gli occhi a fessura per appendere l’amante a testa in giù, attirando un vortice di vibratori elettrici impazziti nella stanza.
Nessuno di questi tentativi aveva funzionato, ma Leda non si scoraggiava.
Il suo primo giorno di lavoro alla posta si era rimessa all’opera. Schioccava le dita dopo un cliente maleducato affinché una secchiata d’acqua salata e polipetti, proveniente da un secchio volante, si rovesciasse sulla testa dei malcapitati, costringendoli ad una fradicia ritirata. Faceva cliccare in alto la spalla destra cosicché uno strato sottile di catrame scivolasse sotto i tacchi dell’inespressiva direttrice di filiale, obbligandola ad un’imprevista scivolata emozionata.
Tutti i tentativi continuavano a fallire. Era pur vero che a Leda pareva di aver fiutato nell’aria un leggero aumento dell’umidità in corrispondenza della sua visualizzazione delle secchiate. Così come il pavimento sotto la direttrice si era forse un poco lucidato nel corso della sua esercitazione. Comunque niente che i presenti nella stanza avessero notato.
Una sera Leda tornava a casa dopo lavoro. Era inverno e il sole era calato presto. Camminava per le strade buie della periferia concentrandosi sulla sua invisibilità. Il marciapiede odorava di rancido, il rumore dei suoi tacchi di legno si mischiava alla musica ovattata di un paio di locali rumorosi e dismessi. Il solito gruppetto di barboni ubriachi stazionava davanti alle scale d’ingresso della fermata della metro. Leda li superò notando soddisfatta che nessuno faceva caso a lei. Proseguì a piedi lungo il marciapiede sopraelevato che fiancheggiava il fiume verso casa. Alla sua sinistra l’argine del fiume nascondeva il suo fianco buio in silenzioso contatto con l’acqua. Leda non riusciva ad abituarsi a quelle tenebre, non riusciva a concentrarsi sulla via illuminata verso casa, al contrario qualche brivido sul collo la costringeva spesso a voltarsi e ad accertarsi che l’odore e la forma dell’oscurità del fiume fossero gli stessi di sempre. Quella sera fiutava però qualcosa di diverso nell’aria, come un’euforia maligna in attesa. L’odore dell’euforia sa di sudore mischiato all’erba. Quella maligna risuona come un respiro accelerato. Leda si concentrava sui suoi piedi invisibili che lasciavano comunque impronte nei tratti di marciapiede coperti dal fango.
Fu quasi alla fine del lungofiume che si sentì afferrare alle spalle da due braccia violente. Una mano le bloccò la bocca da destra, l’altra le catturò la pancia da sinistra, forzandola a muoversi giù verso il fiume.
Leda era invisibile. Era invisibile. Era invisibile ma il maledetto assalitore la vedeva. E le sue mani schifose erano aggrappate alla sua pelle sotto la giacca a vento troppo corta. Leda era invisibile. Era invisibile
ma il lurido uomo le sussurrava all’orecchio frasi sconce. La barba incolta e appiccicosa le graffiava la guancia da dietro. Leda era invisibile. Era invisibile ma questa ridicola invisibilità non funzionava ed ora l’uomo la afferrava sul davanti e si faceva strada tra i suoi vestiti. E insieme al suo corpo Leda sentì per la prima volta la sua paura venire forzatamente a nudo, così impotente e asfissiante da farla impazzire. E si sentì improvvisamente arrabbiata. Si sentì arrabbiata per sua madre che insultava suo padre, per gli insegnanti e gli amanti che non la vedevano, che non la capivano, per la scortesia che regna sovrana, per quel vecchio che si trovava addosso. Ma più di tutto si sentì furiosa perché i suoi poteri non funzionavano.
Un secondo prima che un ricordo incancellabile potesse essere marcato sul suo corpo, accadde che il mondo rallentò.
La paura e la rabbia nella testa di Leda presero a solidificarsi a causa dell’alta pressione nel suo cranio. Si addensarono in un liquido viscoso, che cercò sinuosamente vie d’uscita attraverso la mandibola e i condotti nasali. L’ ammasso appiccicoso prese la vita di un fungo mucillaginoso. Le decine di migliaia di cellule gialle che costituivano il fungo, presero a moltiplicarsi allargandosi su tutta la superficie corporea della ragazza come un guscio molliccio vivente, un’armatura organica. Leda, al buio, non riusciva a distinguere cosa stesse succedendo, eppure si sentiva improvvisamente calma e serena. Nascosto dal buio, l’aggressore di Leda si piegava su di lei a rallentatore ma le cellule del fungo, in tutta tranquillità e con movimento ameboide lasciavano il corpo di Leda per allargarsi sull’assalitore e inglobarlo nella massa molliccia.
Leda si accorse di essere libera e prese a fuggire verso la strada e poi verso casa. A casa si accorse dei suoi vestiti, sporchi e strappati.
L’indomani, con la luce del giorno tornò nel luogo della sua aggressione. Non trovò nulla. Non riconobbe i segni della colluttazione, che pure erano rimasti su di lei e sui suoi vestiti. Dell’uomo non c’era traccia. In un angolo quello che restava del fungo mucillaginoso, giallo acceso, riposava placido. Leda prese un fazzoletto di carta dalla tasca, lo raccolse e se lo portò via. A casa gli costruì un ecosistema adatto in un vecchio acquario vuoto, sistemandovi dentro qualche pezzo di corteccia d’albero. Convisse con il fungo per tutta la vita, amandolo e osservandolo da spettatrice. I suoi poteri non si fecero mai più vivi, né lei si sforzò di usarli, abituandosi a sentirsi al sicuro.
Davvero un bel racconto, incisivo, mi è piaciuto molto!
Grazie mille per il tuo commento Aurora!