Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Prossima fermata” di Tommaso Morbiato

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Cloppete,

Cloppete,

Stunf.

Cloppete,

Stunf,

Stunf.

Plunft.

Non si aspettava di sgretolarsi, e al cadere dei suoi pezzi dopo i cloppete sarebbe stato lecito attendersi uno stack, tò uno sdeng, o al limite uno sciaff, ma uno stunf e poi quel plunft finale no! Rumori del genere proprio no.

Da uno stack o uno sdeng avrebbe riconosciuto tocchetti di pietra che rimbalzavano sulla pavimentazione di sotto; sentendo uno sciaff d’altronde quello sarebbe stato il segno della piazza normalmente allagata da qualche centimetro d’acqua… ma perché plunft? Come se laggiù ci fossero acque profonde.

Intanto, novità assoluta, poteva articolare il collo, guardarsi intorno: gli altri angeli erano ancora tutti e cinque lì pietrificati rivolti con il naso all’insù verso la statua di San Marco, ma lui o lei – è un vero peccato che in questa lingua neolatina si sia perso l’uso del genere neutro che sarebbe assai utile nel riferirsi ad un angelo – ora si muoveva, il guscio di pietra che aveva perdurato per centinaia di anni ad avvolgerlo era caduto lasciandogli addosso più di una manciata di polvere come se fosse infarinato pronto per essere impanato.

E le ali? Seh magari; come fece per girarsi scoprì suo malgrado che rimanevano attaccate con un’armatura al piedistallo messo in opera da chi lo aveva rappresentato così, e improvvisamente allora si ricordò tutto con un tuffo al cuore: che sebbene io sia l’angelo necessario della Terra, io sono come gli esseri umani, e ciò che sono e so – così per me come per loro – è la stessa cosa.

Il sogno finì del tutto oppure tutto cominciò quando si calò con fatica giù fino al livello dell’acqua e dovette ammettere che la terra non c’era più o quantomeno giaceva più sotto oltre l’altezza di una comune piscina, e adesso non gli veniva spontaneo di saper nuotare in quel mare che sconfinava a perdita d’occhio.

Si aggrappò al relitto di un cassone metallico giallo che passava galleggiando per di là su di un angolo del quale erano stampigliate quattro lettere MO.S.E., e gli venne spontaneo di sorridere una volta che ci salì sopra, pensando a quello che con quel nome un tempo era riuscito a separare delle acque. MO.S.E. lo condusse navigando fino a uno specchio d’acqua da cui emergevano uno in fila all’altro dei pannelli rettangolari blu che dicevano tutti la stessa cosa: “Venezia S. Lucia”.

Un gabbiano che si era appollaiato anch’esso sul cassone a quel punto intonando una serie di “cocài” gli suggerì di ormeggiarsi lì, allungando un braccio a cingere l’ultimo cartello prima di continuare alla deriva. Tra i garriti disse di aspettare lì che sarebbe sicuro arrivato un trasporto per la città più straordinaria che avesse mai visto, lui stesso vi era giunto pesce senza ali e poi la magia della metamorfosi: tra canali e rii all’ombra di quelle corti e palazzi meravigliosi era tornato uccello. Altrimenti cosa farai qui in mezzo alla laguna senza le tue ali angelo bello? disse infine prima di volarsene altrove. Non più di una cinquantina di giorni più tardi in effetti all’orizzonte all’alba parve all’angelo di scorgere come una nave lunga lunga ma stretta e non più alta di due o tre metri sul mare che si avvicinava piano alla zona dei cartelli di Santa Lucia.

In verità non sembrava trattarsi di un’imbarcazione: dal profondo risuonavano sempre più distinti stridori di metallo su metallo, come di organi cigolanti rotanti senza più alcun bagno d’olio sott’acqua ma sopra un binario, e non appena all’angelo venne da pensare ad un magico convoglio che col suo locomotore aerodinamico fendesse per la metà inferiore l’acqua, fluido ottocento volte più pesante dell’aria, ecco un altoparlante non lontano che emergendo dai flutti parlò così:

– Il treno Frecciadorata numero 222 proveniente da Perinzia e diretto a Marozia delle ore 6:59 è in arrivo al binario 1; carrozze settore business in coda.

All’apertura delle porte inevitabilmente un po’ d’acqua fluì attraverso i vagoni, ma nel bilancio dei vasi comunicanti gli fu possibile salire e perché non c’era nessuno a bordo fu costretto a scegliere un posto qualsiasi. In quell’abbandono sentiva nel complesso un sapore residuo di freddo che all’improvviso non poteva sopportare oltre, ma la prima luce dal giallo levante dell’Est non tardò ad arrivare penetrando all’unisono tutti i finestrini di un fianco, e a quel punto ritrovò nel calore propagato il potere del suo conoscere che si determina in un istante, la felicità completarsi appagata in un niente e finanche finalmente dormire.

A svegliarlo con il pretesto di mostrare lo spettacolo dei confini del Mare di Perinzia fu questo tale essere umano sulla sessantina che disse di chiamarsi Italo e di essere il capotreno:

– Arrivando da Perinzia può sembrare che tutti i calcoli su cui facevamo più affidamento siano sbagliati, e prova ne sarebbe che le città più basse come Venezia sono state sommerse, ma poi ecco il motivo per cui continuo nonostante tutto a fare questo lavoro: si arriva qui dove le onde si placano in rivoletti che scompaiono percolando nel sottosuolo e le terre riemergono dall’acqua come per dirci che il mondo non avrà fine.

L’angelo spalmò il naso contro il finestrino che complice la stagione invernale iniziò ad appannarsi nell’intorno:

– Questo sarebbe ciò che resta del mondo? Non dirmi che sono caduto fin quaggiù solo per questo, che ho aspettato questo treno per cinquanta giorni e cinquanta notti per finire in una landa desolata e acquitrinosa dove non c’è più traccia di vita intelligente.

Italo per tutta risposta gli fece cenno di attendere e poi corse a fare un annuncio:

– Si avvisano i signori viaggiatori che siamo in arrivo alla stazione di Eusapia Porta Superiore; next stop Eusapia Upper Gate station.

– Ma che senso ha fare gli annunci? Ci siamo solo io e te!

– Zitto zitto, che Eusapia è una città di milioni e milioni di abitanti: tanti milioni nella città di sopra dove arriveremo noi, e altrettanti milioni nella città di sotto.

Nonostante nella mega-struttura della stazione Porta Superiore il numero delle arcate di copertura non si contasse, e il Frecciadorata fosse ormeggiato al binario numero 490 che non era nemmeno tra gli ultimi, nel corso di tutta la fermata non si vide però anima viva, eccezion fatta per un unico viaggiatore che – dopo essersi spogliato dei suoi dispositivi di realtà aumentata – salì a bordo.

Questi ebbe il coraggio di perlustrare tutto il treno vuoto con il suo trolley a 4 ruote sterzanti per fermarsi solo nel vagone dove sedeva l’angelo, il quale spariva dalla sua vista come smaterializzandosi ogni volta che il capotreno entrasse nel suo campo visivo.

– Non mi sembri particolarmente turbato da questa anomalia della realtà – disse l’angelo al viaggiatore per rompere il ghiaccio.

– Lavoro nella realtà aumentata, passo il tempo a togliere le persone dagli affanni del mondo della Eusapia di sopra per farle vivere in universi paralleli nella Eusapia di sotto: il fatto che tua appaia e scompaia di fronte ai miei occhi non mi fa alcun effetto.

– Io sono un angelo, e quando vedi me sei libero dai vincoli delle menti, per questo posso apparire solo ad un essere umano alla volta… ma tu invece come hai fatto a far scomparire tutti dalla tua città?

– Ho usato l’indeterminazione, sottoprodotto dell’età dell’informazione: per il non sapere più dove si trovano e allo stesso tempo dove sono dirette, le persone si prestano a viaggiare in quanti di vite virtuali, riempiono di essi i social media delle città di sotto, e la città dei vivi qui sopra si svuota e muore come una stupida esperienza umana normale non medicata dalla rete di informazioni.

– E allora perché tu sei ancora qui? Perché non sei anche tu negli universi quantistici dove hai portato tutti quanti?

– Perchè pur essendo il cittadino più ricco della Eusapia di sotto io lì mi sento morire: sono circondato dalle interazioni automatiche, affogo nei nuovi contatti di uomini e di donne che vogliono solo il mio denaro, il mio tempo scorre gonfiandosi di così tanti contenuti che dentro di me non rimane più nulla… affogo nelle notifiche e non riesco a provare più amore per nessuno – e mentre diceva così la terra che scivolava via attorno al treno raccontava di periferie dove di abitanti non ce n’erano più o – che è lo stesso – se ne stavano chiusi nei loro gusci di realtà aumentata lasciando che la vegetazione infestante riprendesse possesso del territorio.

– Si avvisano i signori viaggiatori che siamo in arrivo alla stazione di Armilla; next stop Armilla station.

Tra le varie formazioni urbane Armilla si caratterizza per essere una distesa di tubazioni idrauliche ordite a cielo aperto, niente muri né finestre né tetti, come se fosse venuto un tempo in cui gli involucri edilizi non erano più serviti agli abitanti per proteggerli dalle intemperie, perché la pioggia di informazioni li penetrava ancor peggio nell’intimo strabordando dai dispositivi di telecomunicazione. In un modo o nell’altro allora la popolazione doveva essere fuggita via da Armilla, forse diretti anche loro in qualche universo parallelo, ma sopra una di queste tubazioni metalliche che usciva a cavalletto dal terreno qualcuno prima di andarsene aveva fatto passare una corda per un motivo infantile di gioco – era l’idea coltivata dal viaggiatore che l’aveva notata dal treno tutte le volte che era passato per Armilla.

Quel giorno ne aveva avuto la certezza: c’era lì proprio adesso una ragazza che si dondolava usando quel cavalletto e la fune doppia come un’altalena, e a lui la memoria era immediatamente corsa indietro a non più di sette-otto anni prima quando in una Eusapia non ancora svuotata passeggiava il cane attraverso i parchi cittadini e una ragazza sull’altalena era stato allora motivo sufficiente per dire che sì, nonostante io faccia di tutto per rovinarla questa realtà umana della vita di sopra, lei spero resisterà.

La ragazza all’approssimarsi del sibilo del Frecciadorata frenato si era tolta le cuffie interrompendo una musica che l’angelo avrebbe voluto ascoltare, ed era corsa verso la piccola stazione – in verità non più di una manciata di pensiline – per poi salire sul treno proprio nel vagone da cui era osservata. Come si svelò la bellezza della sua giovane persona nel riflesso degli occhi languidi del viaggiatore, l’angelo non più visto dai due si alzò in uno scatto quasi epilettico e corse in cerca di Italo per vomitare sul poveruomo una esile paura ingombrante che unire due anime così mal assortite non potesse fare il bene del mondo: lui un essere che ha passato già metà della propria vita a distruggere le relazioni umane con la tecnologia informatica facendosi beffe delle conseguenze, lei ancora in quell’età di mezzo per cui rappresentava forse l’ultimo essere rimasto nel mondo di sopra a potersi porre quelle domande che mandano in crisi gli adulti, osservazioni capaci di demolire con la sola forza dell’ingenuità residua equilibri economici tanto stabili nel tempo umano quanto insostenibili in quello generale.

Il capotreno non rispose nulla, eccetto un paio di sospiri che avrebbero voluto rappresentare la preghiera di non proseguire oltre in questa arte propria dell’angelo, per via di un effetto collaterale di demolizione delle speranze.

Proseguì il Frecciadorata per altri cinquanta giorni e cinquanta notti avanti per terre secche e umide, verdi e inaridite, innevate di bianchezza e gialle di brullezza, fino a che l’angelo si alzò dal suo sedile da cui nessuna interazione poteva avere coi due viaggiatori i quali avevano iniziato ad orbitare nello spazio di attrazione gravitazionale reciproca, e si rivolse al capotreno:

– Non ne posso più di viaggiare così, continuare a vedere terra e terra senza mai un villaggio un segno della vostra vita: voglio arrivare al capolinea Marozia, mi hanno detto che è la città magica dove le cose si possono cambiare, i pesci cominciano a volare, gli uccelli a nuotare e così via. Tra quanto arriveremo Italo?

Quello di nuovo non parlò, e si limitò a guardare intensamente in direzione del viaggiatore salito ad Eusapia. Quindi passarono ancora cinquanta giorni e cinquanta notti durante i quali i due viaggiatori si erano conosciuti. La magia del viaggio aveva per loro quel retrogusto di immoralità che percepisce chi ha in mano un biglietto di sola andata, quasi che andare via sottendesse la rinuncia a voler essere responsabili dei fatti iniqui occorsi nei propri paesi d’origine. D’altronde quali diverse responsabilità in capo a ciascuno dei due, come aveva ben sentito l’angelo nella sua visione.

Arrivò infine una lingua di terra dopo la quale il treno tornò per una superficie acquitrinosa e il livello dell’acqua da quel punto in poi continuava ad alzarsi tanto che il convoglio fendeva ormai le onde con la sua metà inferiore come a Venezia. Allora il capotreno si premurò di svegliare l’angelo dicendogli:

– Volevo farti vedere questa regione dove comincia il Mare delle Informazioni…

– Sì ma: tra quanto arriveremo a Marozia? – sbottò l’angelo.

Italo per tutta risposta non disse nulla di nuovo, ma guardò intensamente questa volta in direzione della passeggera salita ad Armilla, mentre il mare si estendeva totale all’orizzonte.

Proprio in quell’attimo allora l’angelo trasalì come colpito dalla scarica di un fulmine, e capì che per arrivare a Marozia non mancavano un tempo o una distanza certi. Per Marozia tempio del cambiamento potevano mancare milioni di chilometri, forse qualche decina di anni. Oppure si sarebbe materializzata all’improvviso, se e soltanto se uno dei due passeggeri avesse iniziato a dire o a fare qualcosa per il solo piacere di fare o dire qualcosa che mentre si compie diventi il piacere puramente dell’altro, e trasfigurando dunque qualsiasi tornaconto personale, piacere dei sensi, della carne, ovvero gloria, fama, moda.

Doveva succedere proprio tra quelle due anime rimaste attive nel mondo di sopra, che si erano incontrate per caso nel viaggio, bene o male assortite che fossero. E doveva succedere così, di punto in bianco, in mezzo a quel disastro socio-ambientale in cui si trovavano immersi vuoi per poca o tanta responsabilità di uno di loro.

Nell’aver capito ciò soffriva di non poter svelare più oltre come far avvenire una realtà di salvezza tanto semplice quanto aleatoria da un così piccolo incipit, soffriva che tale minuscolo sconvolgimento vitale poiché non svelato non fosse più riconosciuto in mezzo al rumore, e corresse dunque il rischio di non accadere mai, come la più piccola increspatura di un’onda si perdeva ora per sempre in quel Mare delle Informazioni perdute che iniziava ad agitarsi minaccioso attorno a loro.

E nel soffrire vedeva con gioia e insieme con terrore il suo viaggio finire di nuovo da un momento all’altro, aspettando che quella ragazza dopo averlo intravisto da sola un istante gli volgesse le spalle, così da dover presto – forse anzitempo, prima della prossima fermata – sparire aprendo le sue ali nuove.

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