Premio Racconti nella Rete 2011 “Schiavitù” di Marcella Strazzuso
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011<Ludovico Ariosto era un uomo tranquillo e schiavo …> masticando una gomma americana, Manuela mi guarda in cerca di un cenno di approvazione.
<Schiavo di chi?> le chiedo cercando di rimanere impassibile.
Mi guarda di nuovo con occhi interrogativi. Domanda difficile. Qualcuno dal fondo della classe strilla del cardinale Ippolito, qualcun altro del duca Alfonso. Si accende una zuffa. I ragazzi quando sono sicuri di essere nel giusto, non sentono ragioni. Li tranquillizzo dicendo che teoricamente tutte e due le risposte sono giuste, ma è sul concetto di schiavitù che dobbiamo fare chiarezza.
L’idea di approntare un excursus sul’argomento, dagli egiziani ai servi della gleba passando per gli iloti e Spartaco, mi atterrisce perciò propongo di provare con i sinonimi.
Dal primo banco Campanella alza il dito. E’ un tipo educato, gli do la parola e lui propone “servitù”. Mi spiega che le parole hanno anche un significato metaforico, per esempio diciamo “schiavo del potere” o “del denaro” senza per questo avere in mente la frusta o la galera. Lo ringrazio, oltre ad essere educato è anche bravo.
Volendo potrei accontentarmi, ma non ci riesco, dunque insisto. Sul concetto di endiadi, senza palesare che si tratta di questo, potrebbe intimorirli. Faccio semplicemente notare che di solito diciamo “tranquillo e sereno”, “tranquillo e calmo”, anche “tranquillo e taciturno” ma perché mai dovremmo dire “tranquillo e schiavo”? Giusto. Perché mai? Sento che si stanno interrogando, lo capisco dal brusio che sale come un nugolo di mosche. Non trovano la risposta.
Intervengo e spiego che esistono i lapsus, che avvengono quando uno meno se l’aspetta e che in quelli di parola le lettere si confondono. Manuela sicuramente voleva dire “schivo” ma poi la “a” è saltata. Aggiungo che un certo Freud, un po’ di anni fa, su questo ci ha scritto pure un libro. Non so se faccio bene, i loro genitori più che psicanalisti frequentano maghi, comunque sembrano interessati, la cosa li diverte. Ci provano anche loro.
Scavo scovo schianto sciampo …
Si allontanano sempre di più.
All’ultimo banco Castelli e Betti ridacchiano, intuisco la loro operazione, la più semplice, hanno sottratto a schiavo la esse iniziale e il gioco è fatto.
Chiavo.
Sono ossessionati dal sesso, deve essere un problema di ormoni.
Campanella vuole sapere di più, se c’è una logica nella sostituzione. Rispondo di sì, ma che non sempre è facile intuirla. In questo caso, forse, una parola nota ha preso il posto di una più difficile, scritta sul libro, forse mai sentita prima. Ma forse c’è dell’altro, più in profondità, legato al vissuto personale e che ha davvero a che fare con la schiavitù. Rifiuto lo scavo. Per fortuna suona la campana. Mi dispiace Campanella, è suonata la campanella.
Mi guarda disorientato.
<<Omonimi?>.
No, rispondo, omofoni. Stesso suono, significato diverso. E lo caccio via insistendo sulla necessità di fare una pausa. Avrà anche lui una merenda da consumare.
Rimango sola. I pensieri divagano. Mi interrogo sul mio lavoro d’insegnante. Ho appena fornito una bella prova di didattica dell’errore, la chiamano così, si parte dallo sbaglio per arrivare alla soluzione, pare che funzioni. Cerco di essere professionale, ma sento che manca qualcosa.
Manca il cuore. Non so se lo ritroverò, se avverrà facilmente. Quando incontri il Male, quello con la emme maiuscola, saltano tutti i parametri, ti devi riprogrammare.
Forse sono rientrata a scuola troppo presto, avrei dovuto prendere un altro mese, nessuno mi avrebbe detto niente. Neanche il preside. Al telefono la sua voce era incerta, lo capisco, come si fa ad essere naturali in certe circostanze? Mi ha detto che ho tutta la sua stima e solidarietà. Mi chiedo che cosa me ne faccio …
Mi alzo ed esco dalla stanza, ho bisogno di un caffè. Mi avvicino al distributore automatico che hanno installato durante la mia assenza. Dispensa di tutto: cappuccino, tè, orzo, latte macchiato, espresso. Infilo le monete e mentre aspetto, mi accorgo che ci sono altre due macchine, gigantesche, una piena di bibite fredde e l’altra di wafer, barrette di cioccolato e snack. Non ho un odio particolare nei confronti del consumismo, ma non mi piace nemmeno che si strafaccia, a scuola abbiamo già un bar. Mi sembra che così, oltre ad assicurare il benessere dei nostri studenti, diamo pure una mano al diffondersi dell’obesità, piaga del terzo millennio.
Si avvicina Marisa la collega di sostegno. Lei è autorizzata a trattare con me, lavora con i soggetti in difficoltà. Avrà le sue strategie. Vediamo quale utilizzerà. Mi dice che ha incontrato i genitori di Marino, il suo alunno disabile e le hanno detto che non c’è niente da fare, che la malattia progredisce velocemente, che tra un po’ non riuscirà nemmeno a stare sulla sedia a rotelle e smetterà di venire a scuola. Piangevano. E’ terribile. Ma terribile è anche la sua strategia. Al peggio non c’è fine. Ci saranno altri modi di consolarmi, ma dubito che lei li conosca.
Pensavo che il divorzio fosse la cosa peggiore che mi potesse accadere nella vita. Un marito amato perduto per sempre, trafugato da una rivale più giovane e bella, la solitudine, i cambiamenti forzati, il danno economico… E invece no, c’è di peggio.
Uno stupro è peggio. Mille volte peggio.
Leggo la parola impronunciabile sulle labbra dei colleghi. La donne si sforzano di far finta che non sia accaduto niente. Ruotano intorno ai discorsi di sempre, i compiti da correggere, i programmi, le supplenze, la gita scolastica. Ieri la collega di scienze, mi ha fatto una relazione dettagliata sulla visita all’orto botanico elencandomi tutte le varietà floristiche presenti. Ho tentato di tenerle dietro, ma facevo fatica, la mia mente era lontana perché invece qualcosa è accaduto, e di molto grave. Ma come si fa a parlare di uno stupro? Mancano le parole
Gli uomini mi evitano, c’è imbarazzo. Forse pensano che i panni sporchi si lavino a casa e io invece questo bucato l’ho steso sotto gli occhi di tutti. Magari hanno ragione. A volte quando ripenso alla fatica di quei giorni quasi mi pento. L’ospedale, i poliziotti, il magistrato, la denuncia. Tutte quelle domande. Che ci facevo da sola a quell’ora in quel posto sperduto? Io ci abito in quel posto sperduto, e vivo sola perché mio marito mi ha lasciata e a volte la sera, se decido di andare al cinema o a teatro rincaso tardi. E’ la mia vita. Non credo di fare niente di male.
Ma certo, il male è fuori di noi, è in questa società bacata, in queste nuove generazioni che hanno perduto la bussola, infranto le regole, calpestato i valori morali, ma …
E senti che mentre ti difendono ti accusano.
Solo Filippo si è avvicinato. Il giorno che sono rientrata, mi aspettava con una rosa nelle mani, non ha detto niente neanche lui, non ce n’era bisogno. L’ho presa e mi sono messa a piangere. Lui mi ha dato un bacio sulla guancia ed è andato via. Ho messo la rosa in un bicchiere di carta che ho riempito d’acqua nel bagno e l’ho posata sul davanzale della finestra della mia classe. L’ho osservata appassire a poco a poco. E’ ancora lì, la bidella ha smesso di chiedermi se deve buttarla.
Filippo insegna francese ed è gay. Ha un animo gentile. A suo modo è candido. La sua omosessualità è discreta, non interferisce con il suo lavoro. A scuola non se ne parla, a me l’hanno detto i ragazzi, a volte sanno essere crudeli, ma forse era il loro modo di volermi bene, hanno capito che mi stavo innamorando di lui e volevano evitarmi una delusione. E’ stato due anni fa, dopo il divorzio e il trasferimento in questa scuola, c’incontravamo a ricreazione e chiacchieravamo di letteratura. Proust, Baudelaire, Rimbaud …
Pazienza. Non sono stata fortunata. A scuola nascono tanti amori. Quando insegnavo in provincia, il preside e la vicepreside avevano una relazione e spesso sparivano entrambi lasciando la scuola scoperta. Qui il collega di matematica sta con la collega d’inglese e tutti e due sono sempre alla ricerca di qualcuno che li sostituisca. E l’anno scorso, prima che le lezioni finissero, una befana in blusa maculata è piombata in palestra schiaffeggiando l’istruttore di educazione fisica, suo legittimo consorte, che la tradiva con la madre di un’alunna.
Violenza domestica? No. La violenza è un’altra cosa. Ripenso a tutte le volte che con i miei alunni ho parlato di violenza, dei maltrattamenti subiti dalle donne, fuori e dentro le mura di casa, in ogni parte del mondo …
Non è che la donna nasca schiava per natura, si tratta di un’aberrazione culturale contro cui bisogna lottare.
Quando una mattina ho raccontato la storia di Yasmina, accoltellata dal padre e dal fratello per essersi rifiuta di interrompere un fidanzamento indesiderato, Federica Vitali è scoppiata in singhiozzi, non riusciva a trattenersi. Non è necessario essere musulmane per vivere da carcerate, basta un padre analfabeta e bigotto. Alessia Bucolo le ha passato un clinex facendo tintinnare i ciondoli del suo braccialetto e finalmente si è calmata.
Credo che la prevenzione si debba fare sui banchi, che gli insegnanti abbiano il dovere di sollevare i problemi, credo …
Ma forse credevo, adesso non lo so più in che cosa credo. Non so più niente. Stiamo precipitando in una nuova barbarie e quello che mi è accaduto lo testimonia. Il mio era solo fiato sprecato.
Entro in sala insegnanti è trovo tutti in fibrillazione. Tra un’ora ci sarà una riunione in aula magna, ci hanno convocato per discutere di un episodio, accaduto in mia assenza, che vede coinvolti alcuni alunni e che necessita provvedimenti disciplinari.
<<Un’altra porcata>> commenta la Fiorentino sfogliando il registro dei verbali. E’un ex sessantottina, porta ancora le gonne a fiori, per fortuna ha abbandonato gli zoccoli. Si esprime sempre così, però questa volta il tono è duro. Deve essere qualcosa di più grave che buttare zaini dalla finestra o fumare spinelli in bagno. Nessuno mi dice niente e io non chiedo. Staremo a vedere.
Il preside sembra più buio del solito, lo staff dei collaboratori è al completo. Sul fondo è stato sistemato un proiettore e dunque incominciamo subito con la visione di un filmato che pare circoli in rete e che in qualche modo coinvolga la scuola.
Si spengono le luci. Sullo schermo Daniela Vinci di quarta A in slip e reggiseno si muove sinuosa. La conosco perché all’inizio dell’anno ha partecipato ad un progetto sulla legalità. Ogni parte del suo corpo è messa a fuoco dall’obbiettivo impietoso. Mi sento a disagio, vorrei uscire, ma non riesco ad alzarmi, sono incollata alla sedia. Improvvisamente nell’inquadratura entrano due mani, poi altre due e altre ancora che scivolano sulla ragazza. Chiudo gli occhi, quando li riapro, hanno interrotto la proiezione ed acceso la luce. Mi scollo ed esco fuori, nessuno dice niente. Entro di corsa in bagno e vomito.
Ho chiesto due giorni di permesso che ho trascorso in compagnia dei miei fantasmi. Sento che c’è qualcosa che devo sapere ma non riesco a capire cosa. A volte le sensazioni si impadroniscono di me, mi fanno credere che ci siano significati che sono lì ad un passo dalla rivelazione, che mi salveranno.
So che non è vero, ma devo rivedere i filmato. Rientro a scuola e vado da Ettore, il tecnico di laboratorio. E’ un uomo giovane e gentile, lo trovo alle prese con un computer che è stato sabotato e gli faccio la mia richiesta. Dice che non è possibile, che ci vuole l’autorizzazione e che in ogni caso non mi farebbe bene. Lo prego e alla fine lo convinco, mi siedo accanto a lui e trattengo il respiro.
Lo rivedo due, tre, quattro volte, Ettore non si spazientisce e rimane in silenzio.
Le mani. So che sono le mani, hanno qualcosa di familiare. Quelle che appaiono per ultime, sono robuste e al dito medio della sinistra sfoggiano un anello, come oggi si usa tra i ragazzi, una fascia alta di metallo lavorata, con un piccolo teschio in rilievo …. Lo risento, quel teschio, sui miei occhi, sul naso, sui denti, che mi riempie il viso di lividi nel tentativo di tenermi ferma.
Basta così, grazie Ettore, puoi spegnere. Vado via tranquilla, è come se il fuoco che mi bruciava dentro si fosse spento. So che troverò il possessore di quell’orribile monile, e insieme a lui, gli altri che erano con lui quella sera. Sarà Daniela Vinci a fornirmi il nome o il preside o i colleghi. Farò il giro delle classi e lo stanerò.
Non è un desiderio di vendetta che mi spinge ma un bisogno di giustizia, il continuare a credere, forse stupidamente, che il mondo possa diventare migliore.
E’ una storia molto forte, scritta molto bene. Sono un’insegnante anch’io e leggendola, mi sono ritrovata in un mondo molto mio, che conosco, che amo e che a volte temo allo stesso tempo…Io resto convinta che i ragazzi di oggi vadano formati anche sui banchi di scuola, che certi argomenti scottanti vadano comunque e sempre affrontati, seppur con la giusta dose di delicatezza e buonsenso, e che oggi la scuola debba sempre più spesso sopperire ad una mancanza assoluta di regole e di valori che la famiglia, come istituzione, non è ormai quasi più in grado di dare…E’ una dura battaglia e una sfida continua, che vale comunque la pena di portare avanti per la costruzione di un mondo migliore.
Le dolorose tematiche presenti in questo racconto, non possono non trascinare significativamente dentro la sua trama. La storia trasuda dolore e ciò, visti i contenuti, non può che essere ovvio, ma l’autrice ci comunica anche tutta la sua amarezza. Tale dolore è così grande che avrà bisogno di tempi adeguati per essere metabolizzato. Come spero sempre, quando mi avvicino a narrazioni così drammatiche, il primo pensiero che mi viene è: “ speriamo che sia una storia di fantasia”, ma poi mi dico che è indifferente che lo sia o meno, è un mio artifizio per allontanare l’angoscia, perché se anche non fosse vera questa storia mi si è in ogni caso potentemente imposta rimandando alla mia memoria tanti flash che stampandosi nella mente mi dicono: “ accade, accade spesso”. Grazie a Marcella anche per le modalità descrittive con le quali hai saputo dare voce a questa vicenda.
Lo sguardo addolorato e ferito della protagonista del racconto ci descrive una realtà spigolosa, dura in cui le forme di sopraffazione sulle donne sono ancora troppe, molteplici e subdole.
Poi l’obbiettivo si stringe, fino a mettere a fuoco il dolore e l’angoscia di una donna profondamente ferita nella propria intimità.
Ha ragione Filippo, a volte davvero mancano le parole, ma, con la sola presenza e con quel rispettoso silenzio lui ha saputo usare quelle più giuste.
Quel bacio e quella rosa parlavano senza bisogno di parole: “io ti sono vicino, ci sono e conta su di me”.
Quelle della violenza, della sopraffazione e dell’ignoranza sono davvero delle catene.
E devono essere spezzate con l’educazione al rispetto, fin da quando si è bambini.
E’ un racconto delicato e intenso.
Molto brava l’autrice, che ha saputo trattare un argomento difficile da tradurre in narrativa.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova