Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “La verità della sfiga” di Paola Taboga

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Non credo agli ufo.

Non credo all’oroscopo, anche quando dice qualcosa di positivo.  

Non credo nemmeno in Dio, quel Dio che si affaccia alla finestra e intima cosa fare per salvarsi l’anima.

Però, da quella mattina di febbraio, credo al sortilegio misterioso che fa accadere e interagire eventi disparati tutti insieme, nello stesso momento. Qualcuno mi ha detto che questa congiunzione straordinaria viene definita fenomenologia dell’applauso.

Detto con parole mie: sfiga.

Ho capito che la sfiga possiede poteri occulti assoluti. So che può scatenarsi nelle tre unità aristoteliche. Vaga nello spazio, si appropria del tempo e sguazza nelle azioni più impensate. Perché la sfiga sa cose che nessuno conosce e sovrasta l’umana comprensione come una divinità oscura e spietata.

Quella mattina di febbraio mi ero svegliata con il labbro che tirava a destra.
Alle 9 del mattino il PS era già pieno.  All’accettazione mi avevano classificata codice verde, anche se avevo provato subito a spiegare che, in qualche ora, la mia faccia si sarebbe bloccata del tutto. E mi ero messa a implorare: era urgente che il medico mi valutasse, perché se mi avesse fatto subito una flebo di cortisone forse gli effetti sarebbero stati meno deturpanti… 

L’infermiera mi aveva rivolto uno sguardo di rimprovero, amplificato da lenti spesse orlate di nero.

“Signorina, se è sicura di avere i…”

“Prodromi, ho detto prodromi,” avevo ribattuto desolata, sapendo di emettere in quel momento le mie ultime labiali.

“Ecco, se ha quei “cosi” della paralisi facciale, mica guarisce se passa davanti a tutti.” 

La prima verità della sfiga.

Non fare la furba, è inutile.

Paresi di Bell, si chiama. O a frigore. Nessuno sa la causa precisa: un colpo di freddo, o un virus. Nel mio caso: sfiga al quadrato.

Perché l’avevo già avuta anni prima e la faccia, cascata a sinistra quella volta, si era trasformata in un’opera cubista. Senza poter chiudere le palpebre, l’occhio era diventato un uovo sodo. La bocca non gestiva più le labiali e le parole annegavano in un farfugliare confuso con possibile perdita di bavetta.

Mi ero accasciata sull’ultima sedia rimasta. 

La bocca si stava bloccando sempre di più. Sentivo l’artiglio di ghiaccio che avanzava anche nell’occhio. Non era stata così veloce l’altra volta. Adesso sembrava molto più grave.   

Il cicalino del cellulare aveva trillato. Il litigio della sera prima rendeva la speranza di sentire il mio fidanzato una necessità impellente. Avevo bisogno di essere sostenuta, coccolata. Volevo che mi tranquillizzasse e fa niente se doveva mentire. Volevo che mi accarezzasse mentre mi rassicurava dicendo che tutto si sarebbe risolto.

La seconda verità della sfiga.

Non provare a negare i fatti, è inutile. Perché, forse, te li meriti.  

Quel cicalino segnalava un pagamento di 1.453 euro effettuato a Panama City.

Eravamo stati a Panama durante le vacanze di Natale. Ricordavo bene l’ottusa disinvoltura con cui avevo lasciato la carta di credito nelle mani di un cameriere deferente, subito scomparso in un retro. Un gesto da turista gonza che adesso tornava indietro con uno schiaffone ripetuto 1.453 volte. Così, la mia faccia semi-paralizzata aveva oscillato per ogni singolo euro, esaurendo ogni autonomia di movimento. Poi, si era bloccata del tutto.

Mi girava la testa. Ero uscita di casa di corsa e a digiuno ma adesso, mentre la faccia andava chiudendosi nel cemento, quella sala d’attesa si era trasformata in una navicella orbitante. Non potevo nemmeno andare a prendere l’acqua alle macchinette: dovevo presidiare la sedia che, altrimenti, sarebbe stata subito occupata da una delle tante persone in piedi. 

Il telefono aveva squillato. Eccolo, il fidanzato testone e litigioso, finalmente!

Invece. 

Un cliente lamentava la stampa di una brochure che riportava un errore marchiano, ripetuto in tutte le pagine. Una sciatteria inaccettabile, aveva concluso.

La sfiga stava ostentando la sua abilità tentacolare.

Giocava su più tavoli, appropriandosi anche della mia autostima professionale. Biascicando delle scuse avevo promesso di fornire la versione corretta in tempo utile e a mie spese, ovvio. Stavo per chiamare una tipografia di fiducia ma, d’improvviso, il telefono era ammutolito. Non c’era più segnale.

La sfiga era riuscita a sequestrare persino le onde elettromagnetiche.

E quindi, ecco la terza verità della sfiga.

Non riuscirai mai a opporti, è inutile. Rassegnati.

Ma io avevo esaurito l’auto-controllo. Piangevo sul lato sinistro perché il destro, fresco di paresi, esibiva trionfale la sua fissità definitiva. Ma, forse, quella parte di me era l’unica a conservare un minimo di dignità.

Poi qualcuno aveva fatto il mio nome, io mi ero alzata di scatto e tutto era diventato nero. Mi avevano presa per un braccio, facendomi male. E mi ero ritrovata sul lettino col neurologo che mi fissava.  Anche lui, come l’infermiera dell’accettazione, portava occhiali neri e minacciosi.  Con tutta evidenza quell’uomo doveva essere l’emissario o forse il sacerdote, anzi, l’ambasciatore eletto della sfiga e l’infermiera la sua devota ancella.

Cecati entrambi sì, ma grazie agli occhiali neri che correggevano i rispettivi deficit visivi si confermava il famoso assunto che la sfiga ci vede benissimo.

Infatti, lo sguardo cerchiato di nero del neurologo mandava lampi maligni mentre recitava con tono piatto che dovevo fare almeno una risonanza e una TAC perché era strano che queste paresi si ripetessero, mai vista una cosa simile, doveva esserci un problema neurologico molto serio. E poi. Perché quello svenimento? Ero diabetica? La scheda parlava di familiarità da parte di madre. Consigliava di non mettersi a guidare.  

Sottotesto: ce l’avevo uno straccio di fidanzato da chiamare per venire a prendere quella me stessa trasformata in poche ore in un rottame sfigurato?

No, non avevo più neanche l’uso del telefono.

Senza che avessi chiesto niente un’infermiera pietosa mi aveva procurato una bustina di zucchero che mi aveva consentito di rimettermi in piedi e avviarmi fuori dall’ospedale senza traballare. Camminavo piano, quasi temessi di cadere, stringendo quel Verbale del Pronto Soccorso che convalidava lo stigma di irriducibile sfigata.

Fuori di lì, un vento teso aveva spazzato tutte le nuvole installandosi a forza in una giornata divenuta gelata e accecante. Il vento, il freddo e la luce sono la combinazione peggiore per una faccia paralizzata. Oltre alle fitte nel cranio, l’occhio, che rimane spalancato, si riempie di spilli.

E piange. Piange. Piange.

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