Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Picco San Michele” di Andrea Fassi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Qui a Picco San Michele, non c’è più via vai neanche d’estate. D’inverno, non ce ne è mai stato. Figli e nipoti andati via rientravano solo quando la neve non bloccava più il passaggio alla montagna, da maggio ad agosto. Ma ormai neanche il caldo è una scusa per tornare.

Ci siamo io e le poche decine di abitanti rimaste. Il Baldo, il giovane del paese ai piedi della montagna a ventidue chilometri di distanza da Picco San Michele, sale ogni mese per le provviste. Il suo camion bascula a ogni curva, “rimpinzato” di viveri, come diciamo qui. A metà autunno, a differenza del resto dell’anno, sale in un solo giorno per quattro volte. Scarica qui nel magazzino dietro la chiesa le provviste per i mesi di gelo. Mi trovo a raccontare questa storia per via della necessità di condividerla per tempo.

Baldo, il mese scorso, non è salito qui a Picco per i quattro scarichi. E la neve ha coperto la via. 

È stato quando i viveri razionati iniziavano a farci avere fame, è in quei giorni lì che l’ho vista. Io per primo, mentre rientravo in chiesa per preparare la funzione della Domenica.

La neve arrivò sopra i due metri. A Picco San Michele le case girano intorno al monte arroccate come gufi sugli alberi. Ogni casa ha comignoli e tegole coperti di neve. Il fumo si arrotola e sale su nella nebbia che avvolge la punta della montagna. È una sola strada coperta di bianco che si snoda su, con intorno le casupole; le vie laterali non sono altro che scale diroccate in pietra piene di muschio sotto la neve.

Il muschio ricorda a tutti noi abitanti quando le stagioni iniziano a cambiare e quanto, in alcuni angoli sempre verdi, il calore non arrivi mai, neanche in agosto. Alla fine dello snodo c’è un piccolo palazzetto senza finestre, o meglio, le finestre sono state murate, la struttura è in pietra e c’è solo un cancello d’entrata in legno e ferro, chiuso da decenni. 

Mi ritrovai questa giovane donna in vestaglia a pochi metri da me. Fuori dalla chiesa. Era di colorito grigio, gli occhi scavati e scuri. A tratti ebbi l’impressione di poter vedere attraverso la sua pelle. Indietreggiai. Notai che la vestaglia aveva una grossa chiazza scura all’altezza del ventre. Lei fece un passo in avanti. Indietreggiai ancora. Non capii perché ma sentivo di non volermi avvicinare. 

Il mio concetto di fede sposa l’azione verso il prossimo, il ritiro dal timore, ma non ho mai avuto a che fare con percezioni simili. Lei fece un altro passo in avanti.

All’ inizio pensai fosse un’amica del Baldo, mandata per aiutarci. Provai a sorriderle, ma rimase impassibile.

Feci un passo avanti, lento.

Anche la donna si fece avanti. 

Il cielo era grigio e la neve scendeva sottile, piccoli cristalli perfetti.

Non mi vergognai a riconoscere che, d’impatto, mi sembrò un fantasma.

Rimasi immobile quando lei, in silenzio, avanzò fino ad attraversarmi. Sì, mi attraversò come un brivido, passò fisicamente attraverso il mio corpo. Sentii prima il sangue freddarsi e poi i peli pizzicarmi. Scomparve lasciandomi un bruciore sulla pelle che svanì di lì a poco.

Da uomo di chiesa, rimasi colpito ed emozionato e mi inginocchiai per un Padre Nostro. Un Padre Nostro intenso, intimo. Una richiesta di chiarificazione, di spiegazione. 

Fui subito in pena per le mie anime care. Siamo sempre stati una piccola comunità chiusa, me ne voglia il Signore se optai per condividere questo accadimento in primis con quelli che sono i miei compagni di viaggio, le mie pecore smarrite. Invece di concentrarmi sulla preghiera. Mi alzai, la donna era svanita e corsi in chiesa.

Suonai le campane cinque volte. La gente di Picco di San Michele sa che tre rintocchi sono l’arrivo del cibo, quattro dei medicinali, cinque di un’emergenza. Al quinto rintocco lasciai la corda e corsi fuori. Lei era di nuovo lì. Guardava su per la strada verso il palazzetto abbandonato e vi si diresse.

La sua “salita”, mi sento di chiamarla così perché notai che non muoveva i piedi, ma si muoveva come se fosse spinta dal vento, iniziò nel momento in cui i compaesani iniziarono a rovesciarsi in strada attirati dal suono delle campane che poc’anzi rimbombarono nel paese. E la videro.

Donne e uomini anziani, di montagna, gente tra chiesa e terra. Iniziarono a gridare, a girarle intorno. La donna, esile, evanescente, si fermò.

E gli uomini si placarono e le donne smisero di battersi il petto terrorizzate. E la osservarono.

Io rimasi dietro, in disparte, come se volessi tenere una via di fuga verso la chiesa dove, di certo, la donna non sarebbe entrata. O forse sì.

In quel momento soffiò, soffiò ed emise un grido acuto, alto quanto il grido addolorato di un animale morente. Il suo soffio, notai subito, sciolse la neve intorno ai suoi piedi. Cata Piccolomini, la più vecchia tra di noi, notò, e gridò, che il fantasma o chiunque fosse, indicava il palazzetto abbandonato. Ma prima che potesse parlare, Giano Rosati, il macellaio, si scagliò contro la grigia figura portatrice di tanto scompiglio. Al grido di:

– morte al demonio, il demonio è femmina. –  

Il bastone colpì all’altezza della testa la giovane donna, la attraversò per il cranio, il collo e parte della spalla, non lasciando altro che una scia di pulviscolo.

Giano, dapprima iracondo, si inginocchiò incredulo. 

Ogni miracolo o accadimento fuori dal normale suscita nell’essere umano paura e rabbia. La nostra razza, per chi aspira alla vita eterna, si prostra al volere divino, che ci si creda o meno. 

In ginocchio Giano pianse lacrime di terrore e riverenza. E tutti lo seguirono. Io rimasi in piedi.

Sentivo che la donna non fosse lì per volere divino. Percepivo l’inganno di quella trasparenza nel vuoto degli occhi. Io che Dio lo colgo in ogni angolo. Indietreggiai, indeciso sul dafarsi. 

La donna avanzò verso il palazzetto. Una volta in cima, scorsi il suo soffiare sciogliere il ghiaccio intorno al catenaccio del cancello serrato da decenni e vi entrò. Senza aprirlo, passò attraverso. Sparì dentro l’edificio tra le grida di paura dei miei compaesani.

Mi avvicinai a Sebastiano, il carpentiere dell’ultima viuzza prima del palazzetto,era ancora in ginocchio. Smise di piangere, si alzò e mi abbracciò. Mi disse che la donna assomigliava a Rosalina. Ripetè il nome singhiozzando. Le lacrime scendevano tra le sue rughe fitte. Si sapeva solo che Rosalina sarebbe dovuta essere morta. Che rimase orfana nel ricco palazzetto di Picco San Michele per qualche anno, per poi sparire. Come i genitori morti ammazzati durante un inverno rigido.

Me lo confidò sussurrando, stringendomi le mani e chiedendomi perdono per averla aggredita. Era in stato confusionale. Lo eravamo tutti.

Gli diedi la benedizione e procedetti verso il palazzetto. Chiuso. Bussai. Bussai due volte. Poi tre. Gridai in nome di Dio. Fin quando non mi stancai e decisi di rientrare in chiesa per riposare e riflettere. 

Al tramonto, la gente si radunò tutta intorno alla parrocchia. Potei scorgere i brividi di paura che percorrevano i loro sguardi. Mi chiesero spiegazioni. Mi chiesero aiuto. Mi chiesero di Dio. Dissi loro, e oggi me ne pento, che Dio avrebbe di certo avuto un piano. 

E un piano, Dio, qui a Picco San Michele sembrò non averne.

E allora uscimmo di nuovo. Insieme con le ultime luci del sole. Un’tramonto lattiginosa e innevato. Furono i pianti dal palazzetto a guidarci. La gente, le persone, le mie pecore smarrite insistettero di fare qualcosa. Mi decisi, Dio me ne voglia, di non dire loro della sensazione spiacevole nei riguardi della donna, lo feci per proteggere Picco San Michele dalle conseguenze di una simile notizia. Eravamo bloccati e affamati. Presi un ulivo, recitai diversi Ave Maria e Padre Nostro e mi avvicinai. A debita distanza uomini e donne mi seguirono silenziosi. Si sentiva null’altro che la neve scrocchiare sotto i nostri piedi. Misi una mano sul portone. Caldo.

– È caldo. – Dissi.

– Il Diavolo porta calore dove c’è freddo, serve per illudere noi uomini. – Strillò una Cata Remigi, la sartina di Picco San Michele.

Salì un vociare che scaldò gli animi. E tutti si scagliarono contro l’entrata. Volevano vedere la donna, capire, silenziare questa nota stonata nella quiete di Picco San Michele.

Ma il cancello non si aprì.

Non ci fu verso. Si udivano soltanto i lamenti della giovane.

Pregai lì, in ginocchio. Pregai con cuore e testa. Pregai come mai nella mia vita fin quando, il pianto cessò.  

Sentii il vociare delle persone, di nuovo, il vociare che  la Domenica mi accompagnava fino alla messa. 

Aprii gli occhi. Lei era lì. Immobile. Intorno le donne del paese provarono a toccarla. Ad afferrarla. Lei rimase impassibile. Emise un grido, la porta del palazzetto si aprì e lei vi sparì di nuovo all’interno.

La gente iniziò a entrare. E io, per ultimo, con loro.

Entrai e spalancai bocca e occhi. L’interno era ordinato, curato. Un grosso tavolo di legno con le zampe spesse era imbandito di pietanze, frutta, carne e vino. La sala si riempì subito degli abitanti, tutti guardavano la donna con la coda degli occhi, orientati però sul cibo. 

Su una poltrona rossa di velluto, pulita, ornata di fili d’orati l’esile figura sedeva sotto un quadro che la raffigurava, uguale, insieme a due persone. I suoi genitori, con buone probabilità.

La donna invitò gli abitanti, con gesti chiari, a banchettare. Alcuni provarono a prendere del cibo e mangiarono, si guardarono negli occhi, sorrisero. Io non potei far altro che osservare, attonito. La casa abbandonata era in perfetto stato e del cibo era pronto per noi affamati dall’inverno. Provai a gridare. Gridai di smetterla. Che i doni di questo genere nascondono il demonio. Persino Cata che gridò del diavolo poco prima, era perduta, intenta ad azzannare un cosciotto di pollo.

Io non toccai vino o cibo, non toccai nulla e il mio Signore sa il desiderio che percorse il mio corpo. Provai ad avvicinarmi a lei. Le scarpe scivolavano sul legno lucido, le candele tutte intorno si mossero al mio passaggio.

Una volta vicino, lei risultò ancora più orrenda.

La macchia nera nello stomaco era chiaramente un buco contornato da sangue raffermo da cui vedevo strisciare piccoli animali opachi. La pelle grigia, su tutto il corpo era navigata da sottili vene ben in vista. Provai a toccarla. Avvicinai la mano a quel buco nero, scuro, mossi la mano indeciso ma non mi fermai. 

Vidi le mie dita dentro di lei opacizzarsi, poi il palmo, vidi tutta la mano annerirsi mentre crebbe l’appetito dentro di me fino a divenire una fame atavica. Una necessità ancestrale di sfamarmi esplose dentro di me, fu come se ricevessi da quel buco orrendo un bisogno caotico e animalesco. 

Prima di perdere i sensi lo vidi con chiarezza, vidi con chiarezza la donna, giovane, insieme ai due genitori, tenere in braccio un bambino senza vita con il corpo martoriato da morsi affamati, sentii come se, in preda alle allucinazioni della fame, ne avessero banchettato scambiandolo per un piccolo animale da macello per poi destarsi.

Iniziai a sudare, a tremare ora di nuovo dinanzi a quell’orrenda e triste figura.

Sentii la sua fame addolorata e non ressi, le braccia mi caddero lungo il corpo e poi svenni. 

La temperatura si alzò, la neve a Picco San Michele scese il sei aprile dell’anno corrente, riaprendo il sentiero per Picco San Michele. Baldo ne approfittò. Prese il suo carro tenendo strette le briglie, guidò senza sosta, spronando i cavalli per via dell’urgenza con forti calci sui fianchi. Il basculare gli causava un giramento di testa, ma non poteva fermarsi. 

Quella mattina il paese aveva la neve sotto i venti centimetri. 

La strada in pietra saliva spigolosa per la montagna, piccoli ciuffi verdi costellati di boccioli ancora serrati spuntavano tra le pietre. Le porte delle case erano tutte chiuse. La piccola chiesa, grigia, aveva intorno ciuffi di erba selvaggi. Baldo fermò il carro. Scese al volo e bussò alla porta della chiesa. Due volte. Tre volte. 

Guardandosi intorno notò che la porta del palazzetto alla fine della via, era aperta. Salì di corsa, inciampando tra le pietre e chiedendosi come fosse possibile. Chiamò i nomi degli abitanti, del parroco ma nessuno rispose. Bussò a qualche porta. Lo sguardo sempre orientato verso il palazzetto e la sua entrata aperta. 

Fin da bambino, quando con il papà saliva su a Picco San Michele per portare viveri, il palazzetto celava il senso del brivido alimentato dai racconti del papà. Gli raccontava storie di carestie, di fantasmi e sui segreti della famiglia che lo possedeva. Baldo ne rimaneva terrorizzato ed elettrizzato allo stesso tempo. 

Nessuno gli rispondeva, il villaggio sembrava abbandonato. Così riprese a salire. Arrivato alla soglia, entrò, fermandosi pochi passi dopo l’uscio.

L’odore che assalì le sue narici strappò al giovane uomo un conato di vomito. Il marcio, sanguinolento, con note di zolfo lo fece indietreggiare. Intravide candele bianche contornate da cera arricciata, socchiuse gli occhi dal tanfo. Sulla tavola carne marcia e frutta putrida fermentavano tra vermi e rimasugli di uccelli. Grossi topi si allontanarono squittendo.

 L’occhio di Baldo evitò di soffermarsi a lungo sui corpi in via di putrefazione riversi a terra, martoriati come pasti non completati. Fece il segno della croce tre volte e uscì, indietreggiò inciampando sui suoi stessi piedi fino a ritrovarsi di nuovo davanti alla chiesa.

Sussurrò un Padre Nostro. Spinse la porta, la spinse con forza fino a buttarla giù.

La chiesa era silenziosa, una grande croce in legno con un Gesù in porcellana pendeva dal soffitto. Baldo entrò nella piccola Canonica. Vide il parroco di profilo, riverso sulla scrivania, con parte del volto consumata da far vedere le ossa. Si avvicinò sussurrando un Ave Maria, piangendo e sfilò il diario in pelle sotto la mano rinsecchita del parroco. Uscì dalla chiesa, spolverò il libello e alzando gli occhi la vide, in piedi, una donna magra, lattiginosa con gli occhi scavati e un buco all’altezza dello stomaco che indicava il palazzetto. Dopo un grido acuto, a Picco San Michele, scese di nuovo il silenzio.

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