Premio Racconti nella Rete 2023 “Pianura” di Alessandra Baraldi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Ho bisogno della pianura e della sua vista senza fine senza ostacoli. Ho bisogno di un orizzonte infinito.
Tra le strette stradine di campagna tutte curve a seguire il cammino di fossi e canali ritrovo me stessa scevra da storture quotidiane e oppressioni che tolgono il fiato.
Il mio respiro fa pace con il volo degli uccelli. Il battito del mio cuore segue le regole delle stagioni per poi impennarsi improvvisamente alla vista di una lepre e dei suoi piccoli intenti a giochi preziosi. O di un cespuglio fiorito di piccole gemme prelibate. O del volo a planare di un cinerino in cerca di ristoro. E il gomitolo arruffato dei miei pensieri si fa cubetto di ghiaccio tra le labbra, lasciandomi in uno stato di trance che è pace è piacere è nostalgia. Nostalgia di un passato fatto di persone che mi hanno lasciato troppo presto. Ben prima che io potessi indagare la loro anima e trovare il loro posto nel mondo. Nostalgia di momenti a presa diretta come il Ciao che avevo da ragazza e che non aveva bisogno di marce e strategie per lasciarsi andare a scorribande nel vento. Nostalgia dei silenzi delle serate a pescare lungo i canali con mio padre, in uno scintillare di lucciole intente ad illuminare grilli insonni e gufi guardinghi. Nostalgia di quando il tempo non aveva impegni pressanti e il suo scorrere era fluido come l’incedere di una stilografica su un foglio bianco. E sparo il mio sguardo all’infinito dove l’infinito è a trecentosessanta gradi attorno a me. In cerca di risposte. In ascolto di nuove domande. O semplicemente di un gesto accogliente di ciò che la mia vita mi offre. Di ciò che nella vita ho affrontato. E di ciò che la vita mi ha dato. Tiro una riga. È un’estasi naturale dei sensi. Poi da qui si riparte e come un grande puzzle tra l’erba incolta a bordo fossi e i campi fioriti di colza cerco tasselli del mio viaggio e compongo la mia storia. Non ho bisogno di riferimenti per non perdermi perché quella è la mia casa. È fatta della mia sostanza. Delle mie idee. Dei sogni e delle fatiche. È sapore di miele e risate fanciullesche. Potrei perdermi per ore nei cunicoli dei miei pensieri, guidando meccanicamente come se l’auto avesse il pilota automatico. Come se sapesse già dove dirigersi. Come se non fosse importante la meta ma la strada che mi separa dal raggiungerla. Potrei perdermi ritrovarmi perdermi e ritrovarmi milioni di volte in una manciata di minuti. Il tempo di mettere la freccia a destra e accostare davanti al cancello di entrata di una corte colonica ormai abbandonata dagli umani ma quieta dimora di alberi affamati che come fiere fameliche si appropriano di ogni centimetro di muro ancora eretto. Un piccolo ponte mostra fiero i segni dell’età che non gli impediscono di offrirmi il passaggio verso il cancello. Forse un cartello che ne vieta l’accesso potrebbe ostacolare la mia curiosità. Ma non c’è. Nessun avvertimento. Nessuno all’orizzonte. Non ho cattive intenzioni. Voglio solo indagare le assenze di chi un tempo riempiva quelle stanze ormai foreste inespugnabili. Sento ancora il profumo del caffè provenire dalla cucina. La moka sbuffa. Ci si affretta per la colazione. La nonna ha fatto una ciambella con l’uva e il latte appena munto bolle sulla stufa. Dieci minuti e poi tutti pronti per salire sul carretto di Pino diventato l’autobus per la scuola. L’alternativa è andare a piedi fino al paese che dista una quindicina di chilometri verso nord. Sento i bambini correre con gli zoccoli sulla ghiaia polverosa. Un cenno verso la madre. Fate i bravi. Sì, mamma. A dopo. I bambini scendono dal carretto di Pino prima dell’ultima curva all’entrata del paese. Sanno di essere bersaglio di prese in giro da parte dei compagni cittadini e il carretto non è proprio il mezzo più idoneo per darsi lustro. Dalla stalla arrivano i muggiti delle mucche liberate ormai dal fardello della prima mungitura e intente a concedersi la colazione mattutina. Gli uomini rientrano in casa. Lasciano gli zoccoli infangati fuori sul pianerottolo e a piedi scalzi, protetti da spesse calze fatte a maglia, caricano la stufa di legna e si siedono per la seconda colazione. Polenta e baccalà. Un bicchiere di lambrusco. Una sigaretta. E così per trecentosessantacinque giorni l’anno, trecentosessantasei ogni quattro anni. Perché le mucche mangiano ogni giorno e ogni giorno vanno munte. Per l’esattezza due volte al giorno. Così ricordo mi diceva mio nonno. Non c’era orario per il contadino. Non c’era festa per l’allevatore. E forse è anche per questo motivo che progressivamente le campagne si sono spopolate, lasciando che la natura facesse il suo corso e che sbranasse quello che tanto faticosamente i nostri nonni e bisnonni avevano costruito. Sento ancora le voci tra quei ruderi umidi e pericolanti. Voci di donne che rincorrono bambini rivoltosi. Voci di padri che, cintura alla mano, minacciano i figli di punizioni esemplari. Pianti di donne tradite e lasciate senza soldi senza casa senza onore. Urla di uomini violenti. E silenzi. Silenzi che non lasciano spazio a possibili soluzioni. Un giorno hanno deciso di cambiare vita. Hanno abbattuto il bestiame. Non rende più. Hanno venduto la terra oppure l’hanno lasciata incolta a perire di inedia. Hanno scelto la fabbrica. Le otto ore. Bello o brutto tempo che sia, il raccolto è affare altrui. Pochi e maledetti i soldi dell’operaio. Ma la terra è madre e matrigna. Ti dona e ti toglie. Ti svela meraviglie e ti lascia con un pugno di mosche. E così le case crollano sotto i colpi sferrati dall’incuria come crollano le speranze di chi credeva di ritrovare nel progresso e nell’industria la soluzione alla precarietà.
All’improvviso il clacson di un trattore mi riporta qui e ora. E’ tempo di rientrare. Il cielo all’orizzonte si è vestito di scuro e un vento dispettoso spettina gli alberi da frutto già fioriti. Inverto la rotta. Non so esattamente dove mi trovo ma quel che è certo è che ritroverò presto la direzione. Nulla ostacola la mia vista e la bussola che batte nel mio petto sa sempre dove sia il Nord. Tra poco la pioggia laverà i cattivi pensieri e con essi le strade le auto in sosta i marciapiedi le donne in bici senza ombrello e le coscienze impolverate.
E a chi mi chiede “Chi sei?” rispondo:
Sono un libro scritto per chi sa leggere.
Sono un libro scritto per chi vuole leggermi.
Sono un libro scritto per chi vuole sapere anche la mia versione.
Sono un libro scritto per chi non ha paura di toccare l’altrui sofferenza.
Sono un libro scritto per chi vuole annegare tra le emozioni.
Sono un libro scritto per chi crede di conoscere la verità ma non ha mai guardato oltre l’ovvietà.
Sono un libro scritto per chi si interroga.
Per chi si mette in discussione.
Per chi sbaglia ma ci riprova.
Per chi non si vergogna di aver sbagliato.
E di chiedere scusa.
Sono un libro scritto e uno ancora da scrivere.
Alessandra Baraldi
20/05/23