Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Saikou” di Marco Sgroi

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

“Saikou, alzati, dai … Girano gli sbirri. Dobbiamo andare”.

Saikou fissa il ragazzo che, di peso, tenta di sollevarlo. La bocca è semiaperta, gli occhi spenti. Non capisce. È rannicchiato; la testa, un istante prima, era abbandonata fra le ginocchia. Ha appena goduto. Una botta dritta, frontale, arrivata all’improvviso. Un piacere mai provato, un orgasmo dolce e violento che, però, è stato troppo breve. Ne vuole ancora. Questo è l’unico pensiero: ancora. Quella roba è una ragione buona per vivere. Deve rifarlo. Ha bisogno di … come si chiama? Said, l’arabo con cui ha tirato. Vuole di nuovo quel salto nel buio e l’orgia di sensazioni onnipotenti, mai provate prima, e vuole tutta la merda attorno lontana anni luce. Questo vuole. Il sapore della felicità che entra dal naso, cammina sulle labbra e viaggia nelle vene.

“Saikou, cazzo, ci sei?”, il ragazzo davanti a lui fa partire un colpo secco, con il palmo della mano, senza dita. Non è uno schiaffo a far male, ma l’impatto, fra guancia e tempia sinistra, si fa sentire. E l’effetto è raggiunto.

Saikou finalmente si scuote. Chiude e apre gli occhi due-tre volte; si alza. Barcolla. Poi, un piede appresso all’altro, comincia a camminare. Spinge giù il giubbotto e tira su i jeans, perché l’umidità della notte entra nelle ossa. È meglio muoversi.

Senza fare domande, Saikou segue Ousmane. È gambiano come lui. È più di un amico, è un fratello. Si sono conosciuti durante il Grande Viaggio e ad entrambi è bastato poco per capire che, assieme, forse potevano sopravvivere. Per due mesi, prima di trovare soldi, gancio e coraggio per l’Europa, hanno fatto i muratori a Tripoli. Poi sono partiti. E alla fine ce l’hanno fatta. Il mare, lo sbarco a Lampedusa e tutto il resto, che non è stato bello. Per niente.

Poi, sempre assieme, Saikou e Ousmane sono arrivati a Genova, da clandestini. Sono passate già un paio di settimane. E ora girano vorticosamente sotto i portici, a pochi metri dal mare. Giri nervosi, ripetuti, avanti e indietro, fra luce e penombra, in mezzo a molte altre anime smarrite, al tempo stesso diverse e uguali a loro. Non tutte amiche e nemmeno benevole. L’amicizia, quando sei per strada, è un lusso per pochi. I nigeriani, ad esempio, li guardano male. Ogni volta che passano davanti, Saikou ha l’impressione, anzi la certezza, che uno, in particolare, voglia spaccargli la faccia. È basso e grosso. Anche adesso è così. Sono occhi negli occhi per un istante e avverte l’odio. Non ne comprende il motivo, ma sa che chiederselo è inutile.

Girano, lui e Ousmane, e sono impegnati a rincorrere il nulla, come due criceti nella ruota. Da quando sono a Genova, la notte il portico antico, marinaro e decadente, è casa loro.

A un certo punto, all’ennesimo giro, Ousmane si pianta: legge un messaggio sul cellulare. Lo schermo accesso gli illumina il viso nero. La sclera, la parte bianca degli occhi, lancia lampi di luce intensa. Si volta e chiede qualcosa a un tipo che gli risponde senza parlare, muovendo solo il mento per dire “più in là”. Poi riparte veloce, con il passo di chi adesso ha una direzione e una méta.

Pochi istanti e sono di fronte a uno che Saikou non ha mai visto. È enorme. Nero anche lui, come loro. Ousmane lo conosce: “Questo è Oumar, fratello del Senegal”. A Saikou scappa un sorriso amaro. Pensa: se siamo tutti fratelli, nostra madre e nostro padre dove cazzo sono? Perché cazzo siamo soli, sempre? Ousmane va al punto. Si gira verso l’amico e dice: “Facciamo un lavoro per Oumar”.

Il senegalese tira fuori un sacchetto di plastica, lo apre e mostra il contenuto a Ousmane: piccoli oggetti di forma irregolare. Li chiama “sassi”. Alcuni sono chiari come perle. Non c’è bisogno di chiedere cosa sia.

“Trenta euro al pezzo”, dice Oumar in francese e poi, guardando Ousmane: “non fate cazzate con i miei sassi e portami i soldi”.

Appena il senegalese s’allontana, risucchiato da un vicolo buio, Saikou chiede all’amico: “Quanto pagherà?”.

“Pagherà”, taglia corto Ousmane.

Il tono deciso sottolinea: “il lavoro l’ho trovato io, non scordarlo”. Ma Saikou questo lo sa; come sa bene che qualsiasi cosa uscirà quella notte verrà divisa a metà. D’altra parte, loro sono davvero fratelli e questa, tra fratelli, è la regola sacra.

Riprendono i giri dei portici, ma ora è un lavoro. Le piccole pietre sono spartite. Saikou ha infilato le sue in tasca.

Devono fare attenzione a chi li avvicina. Il senegalese ha detto che tira aria di retate.

Adesso c’è un bianco che cammina appena dietro Saikou. È poco più di un ragazzo, è magro, biondo e non sembra italiano. Il viso è scavato, consumato in modo precoce. I jeans sono strappati e la camicia è aperta su un petto ossuto e tatuato. I disegni, però, non si vedono bene.

Ousmane è avanti. Sono sganciati perché il piano è questo: fare corse separate. Così, all’improvviso, Saikou si ferma per capire le intenzioni del biondo. Quello lo supera, ma subito si blocca. Fa per accendere una sigaretta che non ha, torna indietro e con accento straniero dice: “Amico…”.

Sono affiancati, ma voci e occhi non si incrociano. Entrambi guardano oltre le spalle dell’altro per non dare nell’occhio. Per quanto si sforzino, la scena però è troppo chiara e l’unico dubbio, per chi li osservi in modo anche distratto, può riguardare che roba passi fra le loro mani.

Saikou fugge dal riverbero arancione della luce artificiale e scambia cinque pezzi per tre carte da cinquanta. Il biondo ossuto ficca tutto in tasca, tranne una pietra che, quasi istantaneamente, butta su un cucchiaio. Due colpi di accendino e il sasso evapora veloce. Il fumo, tirato con avidità da un tubetto di vetro, gli dipinge sul volto un’espressione finalmente distesa, che sa di liberazione e di trappola, di vita e di morte.

Da quel momento in poi, altri si avvicinano a Saikou, che, nemmeno un’ora dopo, invia un messaggio al cellulare di Ousmane: “Finito. Tu?” “Anche”, è la risposta immediata. Così, in poco tempo, sono entrambi di nuovo davanti al gigante senegalese che, però, stavolta non è solo. Assieme a lui ci sono il nigeriano basso e grosso che vuole spaccare la faccia a Saikou, più altri due.

Ricevuto l’incasso, il “fratello” del Senegal si ritira in un angolo poco illuminato e conta. Ogni tanto lancia occhiate diffidenti a Saikou. Quando ha finito, sfila due fogli da cinquanta e li dà a Ousmane. Poi va via e fine della storia. Non una parola viene detta.

“Dammi la mia parte”, chiede subito Saikou.

Ousmane gli mette in mano una banconota da cinquanta. Saikou non saluta nemmeno. Sta pensando solo a una cosa. Scappare via dal proprio corpo e da tutta la merda, almeno per una manciata di minuti. Godere un po’ e poi, se gli riesce, dormire da qualche parte.

Mentre cammina controcorrente, un forte odore di mare gli entra nelle narici e, improvvisamente, lo spinge con violenza dentro un gommone. È notte. C’è solo mare attorno a Saikou. In cielo una luna meravigliosa e maledetta che non fa nulla, osserva e basta. Le onde lunghe si alzano, nere e gommose alla vista. Poi le urla, l’acqua gelata dappertutto, i vestiti zuppi, il freddo, i giubbotti di salvataggio. Le mani del bambino che non riesce a trattenere e deve mollare per non morire anche lui. Rivede gli occhi senza futuro del ragazzino sommersi dall’acqua, mentre – con quei pochi che rimangono a galla, compreso Ousmane – cerca appoggio sulla carcassa del gommone alla deriva.

Respinge il ricordo con tutto sé stesso e infila una mano in tasca. Tocca due sassi del senegalese che non ha venduto. Li ha tenuti di proposito, pensando a Said: forse può convincerlo a uno scambio con la sua roba. Non vuole pagare, perché i soldi che ha fatto servono per mangiare.

Cammina sotto ai portici, ma dell’arabo nemmeno l’ombra e non sa a chi chiedere. Raccoglie da terra un cucchiaio lurido e un tubo di vetro, piccolo e crepato. Ficca tutto nella giacca e prosegue ma, mentre si avvia all’ennesimo giro, si ritrova davanti il tipo basso e grosso che stava con i nigeriani prima e con il senegalese poi. Saikou si ferma, fa un passo indietro e, mentre si muove, capisce che quel passo indietro è peggio di una confessione. L’altro in un attimo gli è addosso, lo strattona e lo spinge in una stradina semibuia e laterale. Picchia in modo feroce. Il setto nasale e la mandibola si frantumano subito. Saikou non sa difendersi perché non ha mai fatto a botte per davvero. Può solo subire e, quindi, prova come può a proteggere la testa con mani e braccia da pugni e calci. È a terra, completamente inerme. Sputa sangue e respira a fatica.

A pochi metri, il traffico di persone continua a ruotare sotto il porticato, come nulla fosse. Nessuno si accorge di niente. Poi, nonostante gli occhi tumefatti, Saikou capisce di avere una pistola puntata contro, pronta a sparare. Invece dei proiettili, ad esplodere, però, sono i sibili bitonali di sirene che squillano all’impazzata, squarciando la notte. È la polizia. All’improvviso c’è gran rumore di fuga. Nell’orecchio di Saikou s’infilano parole indistinte, urla stracciate e lo stridore delle frenate secche di automobili. Saikou intravede in lontananza il tipo che stava per ucciderlo. Non corre, cammina a passo veloce verso il buio.

Prova a tirarsi su, ma non ce la fa per il dolore. Si trascina per qualche metro e alla fine crolla dietro un furgone parcheggiato, in una zona scura, più vicina al mare. Prega che nessuno lo trovi. Si assopisce o, più probabilmente, perde i sensi. La coscienza riaffiora mentre è ancora steso sull’asfalto, penetrata dall’odore acre del porto che gli violenta le narici scassate. Non riesce a vedere bene, ma sente, ogni volta che chiude gli occhi, la mano e lo sguardo disperati del bambino che scivola giù sotto di lui, ingoiato dall’acqua nera.

Adesso e più di prima, Saikou vuole quel maledetto orgasmo chimico, ha bisogno di perdersi. A fatica, si rimette in piedi e riprende a camminare, la testa bassa, il viso ficcato nel giubbotto chiuso per evitare che si veda il sangue.

Ma in giro non c’è più nessuno. Nemmeno Ousmane. Le luci arancioni del porto sono l’unica compagnia al rumore dei suoi passi trascinati. Non una voce attorno, solo il silenzio dell’aria notturna, mossa da singhiozzi di vento freddo e, di tanto in tanto, trafitta dal garrito asincrono dei gabbiani.

Ora gli è impossibile ritrovare l’arabo e proporre scambi. Esausto, decide di rannicchiarsi in un angolo. Deve riposare.

Una volta a terra, Saikou mette le mani in tasca. Le dita toccano i sassi del senegalese che sono sicuramente il motivo per cui lo hanno pestato di botte. Porta le pietre vicino agli occhi. Hanno riflessi perlacei. Ne fa scivolare una sopra il cucchiaio storto e lurido che aveva trovato a terra. Si sistema meglio, dà due colpi all’accendino e comincia a tirare attraverso il piccolo tubo crepato, avidamente, come prima aveva visto fare al biondo. Trattiene il vapore fin quasi a soffocare.

Il sapore del sangue gli impasta la bocca.

Non è la roba dell’arabo, ma sente qualcosa. Butta sul cucchiaio anche l’altro sasso. È di nuovo nel vortice di una gioia che sta tutta al di fuori di lui e che nel mondo reale gli è preclusa. Non avverte più dolore; anche la mandibola smette di far male. Tutto svanisce, perde peso. Ora sta scivolando di schiena, su un piano inclinato. Comincia a rotolare all’indietro. Mentre cade, con il movimento irregolare di una foglia staccata dall’albero, arriva la prima botta e poi, passati pochi secondi, un’altra, improvvisa, che gli dà vibrazioni di piacere fino alla tachicardia.

Fra l’una e l’altra, sente distintamente il tonfo sordo della sua testa sull’asfalto. Lui però è ormai fuori dal proprio corpo. È lì, osserva, e non può far nulla.

Sulla sua spalla gli sembra di vedere l’impronta di una piccola mano che preme. Saikou vorrebbe posare la sua sopra. Vorrebbe dire: “Scusami”. Vorrebbe piangere, ma le lacrime, dagli occhi gonfi, chiusi e tumefatti, proprio non escono.

Lentamente, torna in sé. L’odore del mare, intenso come mai, ancora una volta gli invade la mente. Come se venissero dal cielo, dall’alto, calano le mani di Ousmane. E, dal nulla più lontano, la sua voce di fratello che gli dice: “Saikou, alzati… dai”.

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3 commenti »

  1. Bravo, molto efficace, complimenti

  2. Grazie Donatella

  3. Davvero molto bello e toccante, complimenti!

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