Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Il Villaggio” di Mila Papucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

La luce fioca della candela mandava ombre lunghe sul foglio. Nel buio della sala era l’unica luce, ma l’uomo non sembrava preoccuparsene. Chino sul tavolo, una matita in mano, osservava le linee dritte e nere e le tracce tonde delle note, le sue labbra si muovevano in un sussurro appena ritmato, gli occhi due sottili fessure a scrutare oltre quei graffi sul foglio, in una pianura lunga avvolta nella nebbia del mattino, da cui si levava un chiarore irreale di sole.

I camini delle case spuntavano lenti da quel mare grigio, uno qua, uno là, come bambini che svegliandosi allungano le braccia a scacciare le ultime ombre del sonno.

Le note si levarono lente dal clarinetto, si librarono un attimo nell’aria prima di essere sommerse da altre note. Luci cominciavano a farsi strada nella nebbia.

Un cameriere apparve sulla porta della sala, scrutò un attimo dentro, tra le file di tavoli deserti, si accorse di quell’unica luce là in fondo, vicino alla parete a vetri, e si mosse per andarla a spegnere. Era tardi, il suo turno stava per finire, e non vedeva l’ora di andarsene.

Fu un cambiamento nell’ombra che la candela proiettava sulla vetrata a fargli accorgere dell’uomo vestito di scuro, la cui ombra si confondeva con le ombre delle sedie. Rimase un attimo indeciso, poi alzò le spalle e tornò indietro. Era quel musicista straniero, sicuramente non l’avrebbe capito, e poi non aveva voglia di perdere tempo. Forse ci avrebbe pensato lui a spegnere la candela andandosene, e se no si sarebbe spenta da sé, era quasi finita, e se anche… l’albergo era mica suo.

Delle elucubrazioni del cameriere l’uomo chino sul tavolo non avrebbe mai saputo niente: non lo aveva nemmeno sentito entrare. Aveva deposto la matita e stava suonando di là dal foglio col pentagramma, con gli occhi socchiusi, le labbra incollate all’ancia, la testa che si muoveva lieve a seguire il flusso della musica.

Voci di donne risuonavano in mezzo alla nebbia, le finestre si accendevano di giallo, come occhi che si aprono sonnacchiosi sul nuovo giorno.

I bambini scendevano dai letti; un rapido salto nel bagno e poi si avviavano, maglioni infilati a metà e scarpe slacciate, nelle cucine tiepide; i vecchi si portavano lentamente sulla soglia di casa a guardare com’era il giorno che stava spuntando.

Le note ora si erano infilate in una casa, la esploravano con toni ora acuti ora più bassi: sulla stufa un bollitore sobbalzava tra sbuffi di vapore, mentre dalla teiera sulla tavola un caldo aroma si diffondeva per le stanze. Un gatto bianco e nero attraversò il corridoio e si fermò sulla porta della cucina, annusando la pancetta rosolata: restò col naso per aria qualche secondo, prima che lo scalpiccìo dei piedi dietro a lui spezzasse l’incantesimo. Con un balzo si rifugiò nell’angolo vicino alla porta di uscita.

Le note diventarono più affollate, ma ancora il ritmo era disteso, le strofe lasciavano il posto alle strofe, senza pestarsi i piedi.

Alla luce della candela l’uomo si fermò un attimo, posò lo strumento e riprese la matita. Con la mano per aria chiuse del tutto gli occhi e cercò di riportare alla mente l’immagine del piccolo paese finlandese, con le sue case rivestite di legno, le stradine nitide e ordinate come scolaretti in fila, la chiesa piccola e bianca nella piazzetta. Un po’ come certi paesini delle Dolomiti, forse per questo gli era rimasto impresso; nel suo continuo girovagare da un posto all’altro era stato come ritrovare d’improvviso le sue montagne, che gli costavano così tanta fatica ma gli regalavano momenti di assoluto. Proprio come la musica.

Le porte si spalancavano e i bambini correvano fuori, con gli zaini che sbattevano sulla schiena, incontro al grosso autobus giallo che saliva piano verso il paese, suonando il clacson a ogni curva e suscitando ogni volta voli di uccelli dagli alberi. I copriorecchie del berretto di pelo dell’autista andavano su e giù come piccole ali tutte le volte che frenava ad una fermata, e questo divertiva moltissimo i bambini.

L’uomo si permise un sospiro, e socchiuse gli occhi.

I bambini – altri bambini – uscivano dal portone di casa, per mano alla mamma, uno di qua l’altro di là. Gli zaini colorati sui giacconi imbottiti li facevano sembrare due orsetti, uno appena un po’ più grande dell’altro. Da sotto le ciocche di capelli castani che sfuggivano al berretto verde dei New Yorkers gli occhi del più grande luccicavano scuri, pronti a scappare dietro a qualsiasi cosa che passasse davanti. Il più piccolo, berretto uguale ma nero, camminava guardando dritto di fronte a sé, la manina fiduciosamente aggrappata a quella della mamma.

L’uomo li guardava da una distanza senza tempo. Alzò una mano verso gli occhi a chiudere quella finestra, ma gli orsetti erano ancora lì dietro le palpebre, percorrevano le vie affollate della grande città, la madre in mezzo a loro, attenta a trattenere le dita del più grande che cercavano di sfuggire. Davanti alla scuola il bambino si divincolò con furia, gridò un veloce “ciao, mamma!” e piombò in mezzo ad un gruppo di ragazzetti davanti all’entrata; il fratellino alzò gli occhi su sua madre che si chinò a baciarlo, lasciò con un sorriso la calda presa della sua mano e si avviò tranquillo verso i gradini. Lei rimase a guardarli entrare, poi si voltò piano.

L’uomo azionò il comando che alzava il vetro del finestrino e l’auto si staccò con uno scatto dal marciapiede; la valigia sul sedile dietro barcollò un attimo indecisa, poi tornò a posto.

La matita calò di nuovo sul foglio, ma ora le note sembravano non avere più forza, formavano un groviglio nerastro e appiccicoso da cui non usciva nessun suono.

L’uomo cercò di ritornare nel villaggio, di seguire la corsa dei bambini verso il grosso pullman giallo, di disperdere nelle loro grida, nell’abbaiare dei cani, negli stridii degli uccelli, le voci dei suoi bambini. Graffiò sul foglio l’alzarsi e abbassarsi degli zaini in corsa, le raccomandazioni delle mamme, il pesticciare delle scarpe, le nuvolette di fiato, l’ansimare dello scuolabus fermo ad aspettarli a motore acceso, l’arrembaggio ai posti migliori – quelli dietro – tra strilli e proteste.

Riportò alla bocca il suo strumento: le dita corsero a chiudere le chiavi, veloci, sempre più veloci. Il fiato sembrava non farcela a chiudere la strofa, le guance erano gonfie, l’aria l’aria l’aria, sembrava inghiottita tutta. Fino all’ultima nota.

Fino a che il pesante scuolabus imboccò la strada che usciva dal paese, i cani andarono a cercarsi altrove qualche gatto da inseguire, gli uccelli tornarono a posarsi sugli alberi della piazza e il musicista vide che i finestrini erano ormai tutti decorati di faccine arrossate; nel finestrone posteriore le faccette si volsero a salutare, occhi scuri seri sotto i berretti colorati, i berretti dei New Yorkers.

C’era una pausa qui, certo che c’era. L’uomo riprese la matita e volse lo sguardo verso la gelida sera di inizio dicembre che premeva sul vetro. Nella via su cui si affacciava la finestra della grande sala, nessuno per strada. Lenti fiocchi di neve cadevano sui lampioni intirizziti, danzando per un breve attimo nella loro luce prima di sciogliersi a terra. Rare macchine passavano dirette ai ristoranti o ai locali notturni, fantasmi scuri dietro al volante: se solo avesse potuto fermarne uno, uno solo, per parlare del più e del meno, sentirsi un uomo qualunque in un reale mondo qualunque.

Di là dalla strada le luci che filtravano dalle case spandevano un tepore intimo, di affetti raccolti dal chiasso del giorno, riuniti intorno ad una tavola, sdraiati su soffici tappeti, accoccolati su comodi divani, davanti al fuoco di un camino.

Il musicista distolse lo sguardo dalla finestra, si passò una mano stanca sugli occhi, spostò nella parte più remota della sua mente le stanze della sua casa lontana, con i giochi dei bambini, il pianoforte, il tavolo coperto della sua musica che doveva spostare per far posto ai libri dei figli, lo sguardo corrucciato di sua moglie ad ogni partenza e ad ogni ritorno, chiuse via il senso di colpa nella più piccola delle stanze e si appoggiò con la schiena alla porta: davanti a lui c’era pubblico, sopra di lui luci, e tutto dentro di lui, musica.

Ora il villaggio era in piena luce; l’autobus della scuola si era portato via insieme ai bambini gli ultimi avanzi di nebbia ed un sole freddo nel cielo sgombro sfidava la gente ad uscire. Le vie si riempirono di donne con le borse della spesa, avvolte in pesanti giacche colorate di lana; le ragazze più giovani si accalcarono in giacconi di pelle e jeans intorno alla fermata dell’autobus che portava in città, chiacchierando animatamente per scaldarsi.

Qualche vecchia saliva piano i gradini della chiesa, mentre gli uomini più anziani cercavano un diverso calore nell’unico bar del villaggio.

Il ritmo era disteso ora, e la musica scivolava tra gli stivali delle massaie, si aggrappava agli scialli scuri delle vecchie e si tirava su, fino alle spalle curve, per poi lasciarsi cadere intimorita – lenta e quasi solenne – sugli inginocchiatoi della chiesa e riscappare fuori, in quell’aria tersa e gelida – in crescendo ora – intrufolandosi tra le chiacchiere delle ragazze – veloce, più veloce – ridendo delle loro risa, seguendo i vecchi nel locale fumoso e caldo, e poi uscendone tossendo per inseguire un bimbo che si gettava con lo slittino giù per una discesa. L’ultimo accordo sfumò nel mucchio di neve in cui si era fermato lo slittino, e ne seguì un lungo silenzio.

L’uomo posò la matita, si stropicciò gli occhi, ripassò mentalmente le ultime note, sentì quell’ultimo accordo vibrargli in gola, e si permise un breve sorriso.

Domattina – pensò mentre raccoglieva i suoi fogli e lasciava la sala, senza spegnere la candela.

Domattina presto, prima che vadano a scuola, li chiamo.

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