Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Mia nonna si chiamava Iolanda” di Mila Papucci

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Mia nonna si chiamava Iolanda, un nome che io ho sempre associato alla Nonna del Corsaro nero, un programma radiofonico per ragazzi degli anni ‘60, sbagliando in realtà, perché la nonna del  corsaro nero si chiamava Giovanna, mentre Jolanda (con la J) ne era la figlia, ed era protagonista di un serie televisiva andata in onda trent’anni dopo.

Mia nonna del corsaro non aveva forse lo spirito avventuriero, ma certamente ne aveva la forza e la tenacia, visto che si è tirata su praticamente da sola cinque figli , con il marito che lavorava sempre all’estero, prima in Africa poi in Germania, e che ogni volta che tornava a casa ne metteva in cantiere uno. I figli sono poi rimasti quattro, due maschi e due femmine; l’ultimo, Franco, è stato dilaniato nel 1946 da un ordigno bellico trovato per strada. Ordigno, senti come suona già atroce questa parola? Bellico invece no, potrebbe sembrare derivare da ‘bello’ e non da ‘bellum’, guerra,  strana questa vicinanza di due termini con significati così diversi.

Mia nonna Iolanda era rimasta in Italia, mentre tutto il resto della sua famiglia era andato in America all’inizio del Novecento: i suoi fratelli, Sisto, Attilio, Giovanni, Teresa, e lei no, lei era rimasta in Italia con la mamma, per badare al nonno che era vecchio e per la casa e le bestie. Si sarà sentita abbandonata, no? Quanto avrà pianto a vedere andare via tutti i suoi fratelli, avrà pensato che andavano a fare una vita migliore e la lasciavano lì a faticare, nei campi e in casa, sempre una corbella di legna sulle spalle, pavimenti duri da pulire, bestie da governare e paia su paia di guanti da fare a casa all’uncinetto, quando non si poteva ‘andare a opre’, cioè a lavorare nelle terre dei vicini, per arrotondare. Mia nonna me la ricordo un po’ grassa, sempre vestita di nero, con una gran treccia di capelli grigi che la mattina si raccoglieva in una crocchia dietro la testa, dopo essersi lavata faccia e collo nella bacinella che stava in camera sul trespolo di ferro insieme alla brocca di ceramica fiorita, non c’era il bagno in casa quando io ero piccola.

Quella separazione io me la immagino così.

Sono partiti, sono andati via, non li vedrò più piuù, piuuuuuuuù! Se mi lasciassero stare da sola piangerei tutto il giorno e non m’importa se mamma e nonno hanno bisogno di me e m’hanno detto che sono importante qui, io volevo andare anch’io all’America con loro.. Teresa s’è girata a guardarmi mentre si avviavano alla nave, m’ha fatto ciao con la mano che ci aveva gli occhi tutti lacrimosi e non poteva nemmeno parlare che le parole non ce la facevano ad uscire. E il mio Sisto, piccino, non voleva andare, mi s’è attaccato al collo, e io sentivo il suo odore di bimbo e avrei voluto mangiarlo lì, che non me lo portassero via, così sarebbe restato dentro di me ancora a giocare.

Tutto intorno c’era grigio e umido, pioveva piano, anche il cielo sembrava che piangeva per noi, e anche se la mamma mi teneva stretta la mano io non lo sentivo il caldo, sentivo solo quel bagnato dell’acqua del mare e di quella della pioggia che mi entravano dentro e mi facevano uscire tante lacrime. La mamma mi stringeva forte forte, lo so che anche lei ci aveva pena a vedere andare via i suoi figlioli e anche il babbo, che è un po’ burbero e ogni tanto li sentivo litigare, ma poi lo so che lui gli voleva bene e lei ora pensa che all’America troverà un’altra donna e si dimenticherà di lei. Gliel’ho sentito dire ieri sera mentre erano a letto, e lei piangeva, e lui cercava di farla ridere e diceva no, no, che di te non mi scordo, e poi torniamo, e se è andata bene vi portiamo anche voi.

Ma intanto qui loro non ci sono più, e a me mi fa strano svegliarmi quando la luce da fuori mi arriva in faccia dalla finestra di camera, e non sentire il babbo che chiama Attilio e Giovanni per andare a lavorare e si arrabbia perché non si vogliono alzare, e lui urla più forte, e allora mamma lo chiama dalla cucina di sotto e gli dice vieni a prendere il caffè, che li sveglio io. Lei poi gli mette sempre davanti la tazza col caffè e il latte della Rossa, che è la nostra vacca, e sale le scale fino al camerone sotto al tetto dove dormono i miei fratelli, e li fa scendere, ma senza picchiarli, che la mamma non l’ha mai alzate le mani su di noi.  Questo era prima, però.

Poi quando si sentiva che gli uomini erano usciti ci si alzava anche io e Teresa, ci si lavava alla svelta la faccia nel catino, io anche il collo, Teresa no perché è freddolosa e dice che gli vengono le penne d’oca, come le chiama lei, si scendeva di sotto e la mamma ci preparava le tazze anche a noi e tagliava le fette di pane per inzupparle nel latte. A me m’è sempre piaciuto tanto inzuppare, e ce le lasciavo tanto che il pane se era un po’ fresco si sfaceva e poi dovevo raccattarlo col cucchiaio: mamma però se ci mettevo troppo a mangiare mi brontolava perché gli facevo far tardi e mi guardava con gli occhi scuri scuri.

Anche ora io e mamma si va a opre la mattina, però prima veniva anche Teresa e a me mi piaceva di più perché per la strada ci si rincorreva e s’era sempre allegre, anche mamma rideva a vedere noi che si faceva i versi con la faccia. Ora invece siamo tutte e due serie, mentre si cammina lei mi tiene per mano che prima non lo faceva mai, forse ha paura che gli scappo anch’io per andare all’America. A me non mi garba andare per mano perché ormai ho dieci anni e sono grande e se mi vedono gli altri ragazzi poi mi pigliano in giro, però la lascio fare perché lo so che è triste triste e non gli voglio dare una tristezza di più.                      

A opre si va dallo zoppo, che lo chiamano così perché ha una gamba più corta dell’altra e cammina tutto storto per via che ci ha avuto una malattia da bambino. Di nome vero si chiama Rino e mamma m’ha detto che non lo devo chiamare ‘zoppo’, ma a me ogni tanto mi scappa detto, però lui non si arrabbia se mi sente. Quando ho cominciato ad andare da lui ero più piccina e mi faceva un po’ paura, ma ora lo so che anche se è un po’ brutto è buono di cuore, perché quando s’è finito di tirare via l’erba nel suo frutteto o di segare il grano d’estate ci regala sempre un cestino con le ciliege o le pesche. Il cestino poi glielo riportiamo, se no poi mica ce le ridà.

A opre si va solo la mattina, poi noi si torna a casa perché mamma deve fare mangiare anche per nonno Alberto che cià l’artrosi che è una malattia degli ossi e lui dice che l’ha presa a forza di stare nell’acqua in padule a raccogliere la stiancia per impagliare i fiaschi, che era il lavoro che faceva da giovane, sicché cammina piano piano e non ce la fa salire e scendere le scale. La nonna io non ce l’ho, perché è morta prima che nascessi, così quando è rimasto solo è venuto a stare con la mia mamma, che è la sua figliola più grande. Il babbo ha torto un po’ la bocca, che con lui non ci si dice tanto, ma poi gli ha portato il letto nella stanza dove si posa il latte appena munto, dove c’è anche la madia grande di legno con il pane della settimana. 

Al nonno all’inizio non gli garbava tanto, diceva che era come stare in un magazzino, però lì c’è più caldo, perché il muro è a parete con la stalla, e poi quando non sta a letto può andare dove gli pare, e difatti d’inverno sta sempre in cucina che c’è la cucina a legna accesa e quand’è estate sull’aia davanti casa. Per lavarsi la mattina ha un catino come noi, e se deve fare il bagno la mamma gli riempie d’acqua calda il mastello grande di ferro, che è lo stesso che usiamo anche noi; poi col sapone a pezzi lo aiuta a lavarsi la schiena e lo asciuga con un telo grande, quello di lino che l’ha fatto al telaio la sua mamma, cioè la mia nonna. E’ un telo un po’ ruvidino, e per farlo più bello la mia nonna, che si chiamava Amabile, in cima e in fondo ci ha fatto una fila di colonnine col punto a giorno; quello lo so fare anch’io e la mamma m’ha detto che quando trovo il damo, che sarebbe il fidanzato, faremo insieme il corredo. A me mi piacerebbe fare le colonnine colorate, invece che tutte bianche, ma pare che il filo colorato costa tanto di più e poi ‘non si usa’ fare le righine a colori: ma, dico io, che male c’è se a me mi piacciono di più? Quando sono più grande vado a fare i servizi alla villa, così posso tenermi un po’ di soldi e mi compro tutto il filo colorato che voglio.

La mamma è stata contenta che è venuto il nonno da noi, soprattutto ora che sono andati via babbo e i miei fratelli, perché anche se cià i dolori ci aiuta come può, per esempio dà da mangiare alle galline e le ammazza anche, perché a mamma tirare il collo alle galline gli fa impressione, difatti lo faceva sempre babbo. I fiaschi non li impaglia più il nonno perché le mani ce l’ha con le dita tutte storte, però quella volta che Attilio è saltato su una sedia dal tavolo e l’ha sfondata, se l’è portata nel ‘magazzino’ e piano piano l’ha rifatta. Quella volta Attilio ha preso un mucchio di botte dal babbo, che io pensavo che lo ammazzava e mi sono messa a piangere forte. Mamma dice che è stato per quello che babbo s’è fermato, perché per me ci vedeva tanto, cioè ero la sua cocca, dice mamma. Però se ero la sua cocca davvero non mi lasciava qui!

Dei miei fratelli quello che gli voglio più bene è Sisto, che è più piccino di me, e ha gli occhi chiari chiari e i capelli biondi come me e il babbo. Gli altri fratelli e Teresa invece ce l’hanno scuri come la mamma. Io non capivo perché portavano via anche lui, che è troppo piccolo per lavorare, ed ho detto che non era giusto perché semmai doveva portare me che sono più grande e lui lasciarlo a casa che ha ancora bisogno della mamma,  ma il babbo ha detto che se lo lasciava a casa io e mamma non si poteva andare a opre, e i soldi ci servono perché quelli dell’America non arriveranno subito e il nonno non è in condizioni di lavorare, e poi Teresa, che l’ha cresciuto un po’ lei Sisto perché è la più grande, se ne poteva occupare lei, che la casa dove andavano a stare subito era una casa dove c’erano altri italiani come noi e lei avrebbe aiutato la padrona con i lavori di casa e così poteva guardare anche lui.

Io gli ho risposto che se lo lasciavano qui noi ci si arrangiava lo stesso: si portava nei campi con noi e sarei stata attenta che non si faceva male, poi poteva aiutare anche un pochino perché certi lavori facili come pedalare sulle ruote dei canali, come si faceva io e Teresa per mandare l’acqua nei campi, lo poteva fare anche lui e magari ci si divertiva anche!  Ma forse non ci arrivava ai pedali, però al babbo questo non gliel’ho detto.

Secondo me è Teresa che l’ha convinto perché ha paura a stare in una casa con tanti uomini e col fatto che c’è Sisto da guardare si sente più protetta, anche se è buffo che sia un fratellino di sette anni a proteggere la sorella di tredici. Però io ci ho pensato: è un po’ com’è successo per Attilio quando il babbo l’ha picchiato per la storia della sedia, perché così se uno vuole farle male Sisto si mette a piangere e quello smette.

A proposito di piangere, anche la mamma piange la notte, nel lettone, la sento che si gira e si gira perché le foglie del granturco scricchiolano quando ti muovi; allora scendo dal mio materasso e vado da lei e lei mi abbraccia e allora ci addormentiamo così vicine vicine e piano piano lei smette di piangere, e anch’io. La casa prima era piccola e sempre piena di gente, ci si urtava tutti i minuti, e io litigavo con Teresa che prendeva tutto il letto e le davo i calci, ma ora vorrei che fosse qui e non glieli darei più i calci, e le farei anche tenere la bambola di pezza che m’ha dato zio Fernando quando ho fatto gli anni che lei ci moriva dietro. Ora chissà quante gliene daranno di bambole, all’America.

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