Premio Racconti nella Rete 2023 “Il blocco della scrittrice” di Aurora Biagini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Fin da quando ho memoria, ho sempre scritto. Non ricordo come sia iniziato, però ricordo che scrivevo qualsiasi cosa, comunque e dovunque. Ho imparato a leggere e quasi subito dopo ho imparato a scrivere. Questa si è ben presto rivelata una genuina vocazione.
Sì perché, tante fasi della mia vita si sono susseguite, e in un modo o nell’altro mi hanno sempre riportato alla scrittura.
Un giorno di ormai una vita fa, in soffitta a casa dei nonni trovai una macchina da scrivere, di quelle di una volta, con la carta da caricare a mano e i tasti durissimi da battere. Era la Olivetti del nonno. Di lì a poco iniziai a scrivere la mia prima storia. Avevo dodici anni.
L’amore, però, sbocciò molto prima. Alle scuole elementari ero appassionata di storia, arte, misteri, perciò quando studiammo gli egizi rimasi ammaliata dalle loro usanze, le piramidi, il culto delle divinità e molto altro, a tal punto che riscrissi pagine piene di appunti su quella cultura che esercitava su di me tanto fascino. Stessa cosa per gli Etruschi, gli Aztechi, i Maya… Sentivo un particolare interesse per le civiltà perdute e gli enigmi che si celavano dietro di esse. Così mi trascrivevo lunghe relazioni su qualsiasi cosa suscitasse la mia curiosità.
Nel corso degli anni la mia penna ha toccato i generi più disparati. Da piccola tenevo un diario, di quelli a cui le adolescenti confessano ogni segreto, del tipo “Caro Diario, oggi la mia amica è stata proprio cattiva con me”. Decine di anni di scrittura privata su quaderni dove annotavo letteralmente ogni cosa. Una mole inimmaginabile di volumi su cui trascrivevo le (dis)avventure di una pubescente, catalogavo cronache bizzarre e inverosimili, i pensieri più strani e pazzeschi, avvicendamenti romanzati, paure, desideri, sogni. Perché sì, gira tutto attorno ai sogni.
Alle medie e alle superiori presi a scrivere temi di letteratura da record. Erano lunghissimi poemi didascalici, somigliavano a tutti gli effetti a dei lenzuoli con merletti e trine, e mi fruttavano voti altissimi. A dimostrazione del mio amore per la scrittura, ho sempre avuto un rendimento migliore nelle prove scritte rispetto a quelle orali, almeno fino a un certo punto della mia carriera educativa.
Di pari passo, divoravo le mie letture. Estati intere, nella mia stanza o in camera di mia madre, sdraiata sul letto e con un libro sulle gambe. Romanzi storici, d’avventura, fantastici, i miei gusti si diversificavano.
Mi avvicinai in seguito anche alla stesura di poesie. È una forma che mi affascina, amo leggerle. Ecco, come direbbero gli inglesi, “non è la mia tazza di tè”: non riesco a condensare in un componimento poetico ciò che ho da dire, per quanto apprezzi quelli altrui. Un amore breve, ma posso dire di averci provato.
Durante i primi anni di liceo poi aprii un blog in cui vomitavo i miei pensieri, per lo più pieni di rabbia. D’altra parte si sa com’è l’adolescenza, e su quel sito artigianesco scrivevo pezzi, il più delle volte sconnessi e senza senso, ma servivano a ciò per cui erano pensati, ovvero, mi facevano sfogare e stare meglio.
Ho approfondito dunque il genere epistolare, perché questa mia vena creativa mi impone di scrivere, quasi ossessivamente, perfino numerose lettere d’amore. Sono una fan accanita delle lettere. Sempre intorno agli anni del liceo, avevo amici di penna con cui tenevamo una corrispondenza. Ci scrivevamo tra compagni di campeggio e ci spedivamo missive per posta prioritaria. Poi con dei colleghi di college, conosciuti durante una vacanza studio, annovero uno sporadico scambio di email.
Finché, come dicevo all’inizio, non successe qualcosa che cambiò per sempre il mio modo di scrivere, e rivoluzionò in un certo qual modo tutta la mia vita: la macchina da scrivere.
Fu amore a prima vista, seppur molto scomoda. Mi dava un’aria importante, da vera scrittrice; odorava di vecchio, mi sporcava le mani d’inchiostro. Era divertente quando si inceppava un tasto. O quando una lettera bucava il foglio. Oppure se pasticciavo tutto e non potevo cancellare. Insomma, un’esperienza davvero indimenticabile. Dopo un paio di pagine, rimisi tutto in soffitta e tornai a carta e penna, la mia passione.
Da quel momento iniziai a lavorare alla mia storia, aggiungendo personaggi, inserendo plot twist, complicando la trama e tessendo abilmente l’intreccio. Ci lavoravo nei momenti liberi, cercando ispirazioni diverse, compiendo ricerche, affinando le mie tecniche narrative.
Quaderni pieni di parole. Oltre al compiacimento nell’osservare quelle pagine scritte in bella calligrafia, redigere a mano la mia storia costituiva un vero e proprio esercizio catartico.
Potrei condensare in numerosi volumetti tanti aneddoti riguardo la mia carriera di scrittrice. Per esempio, i luoghi in cui ho scritto: a scuola, in camera, a mano e poi al computer. Ho scritto alla scrivania, ma la cosa che ancora oggi trovo più piacevole è scrivere sul letto, nelle posizioni più astruse. Distesa e appoggiata su un gomito, oppure con le gambe incrociate e accartocciata su me stessa.
Ricordo le nottate infinite passate a scrivere durante gli anni del liceo. L’ho sempre amato, perché di notte la mia creatività sembra sprigionarsi a un livello superiore. L’unico inconveniente è lo sfasarsi dei ritmi. A riprova di ciò, c’è chi consiglia di scrivere la mattina, in modo che quanto scritto possa sedimentare nel pomeriggio, e il giorno dopo si possa rileggere e revisionare. Per quanto riguarda la mia storia, ho sempre scritto dal pomeriggio in poi. E soprattutto, io odio editare.
In base al pezzo che sto scrivendo, a volte ascolto la musica. Mi aiuta a trovare l’ispirazione e le parole. Solo ogni tanto però: potrei distrarmi facilmente e ho bisogno di silenzio per non volare troppo con la mente e rimanere lì, ancorata alle pagine e alle parole che ho sotto le dita. Fantasticare. Anche questo è molto importante per il processo di scrittura. Sì, direi, fantasticare, ma non troppo.
Scrivere è liberatorio. A volte faticoso. È strapparsi un pezzo di carne per depositarlo su carta.
Col tempo, ho iniziato ad affezionarmi ai miei personaggi. Poter governare il piccolo mondo che creo suscita nella sottoscritta un certo compiacimento. I miei personaggi amano, a volte soffrono, altre volte muoiono. Non ne ammazzo troppi però. D’altronde questa è la vita, anche nell’universo in miniatura creato da me medesima.
Ho sviluppato diversi “capitoli” della storia che ho scritto, intendo che il materiale è tanto che un solo libro non è sufficiente. Ho affrontato diversi generi nel corso della mia esperienza di autrice, ma la mia autentica predilezione è il fantasy. Come mai? Non c’è un perché vero e proprio. Le cose che ci piacciono, ci piacciono e basta. Forse perché è più facile raccontare di fatti impossibili piuttosto che parlare di “cose normali”. O forse perché la vita di tutti i giorni fa già abbastanza paura, allora è bello immaginare l’esistenza di creature fantastiche e poteri magici, che aggiungano un tocco speciale in più.
Certo, mi sono cimentata anche nel non-fantasy. Ritengo però che non lasci abbastanza spazio alla mia creatività. Potrei scrivere migliaia di pezzi; tantissimi monologhi, di ogni tipo. Sul rumore della pioggia, sull’amore (ormai banale), sull’amicizia, sulla morte… ma il fantasy non si batte. Forse è solo una questione di comfort zone e di uscirne.
Ho letto centinaia di libri su migliaia di treni diversi nei miei lunghi anni da pendolare. Ho scritto nel mio giardino preferito dell’Università, quello del dipartimento di Filosofia. Ho scritto due tesi, una di cui vado particolarmente orgogliosa. Perché poi uno ci tiene sempre molto alle proprie creature, come se fossero davvero dei figli.
In quel giardino mi sedevo sulle panchine, quando c’era il sole, o quando era nuvoloso, e il più delle volte leggevo. Avevo una panchina per studiare, una per leggere e il muretto dove scrivevo la tesi. Quando pioveva scrivevo nelle aule del Dipartimento.
Ma la mia creatura… potrei proseguire con l’elenco dei miei scritti, ancora e ancora… non potrei, invece, parlare di come si conclude un romanzo. Non so scrivere delle buone chiusure per i pezzi, e non mi riferisco solo agli explicit.
Non so terminare un racconto. Oltre al mio “romanzo”, ho iniziato molte storie. Ho delle buone idee, tantissime buone idee, che poi si infrangono lì, nella marea della mia immaginazione, travolte da tsunami che le inabissano nei meandri più remoti dell’inconscio. Tutti quei racconti sono lì, racchiusi nella mia testa, imprigionati, in attesa di liberazione.
Anche la mia storia è lì… Io devo solo metterla nero su bianco.
Il fatto è che, a un certo punto di tutto questo mio scrivere, ho sperimentato la cosa più disastrosa che possa accadere a un autore. Succede a molti; a me è capitato più di quanto meritassi.
Mi sono imbattuta nel famigerato e terrificante blocco dello scrittore.
Già, sono sprofondata nelle sabbie mobili del blocco in questione per tanto di quel tempo da non saper andare avanti nel più corto dei pezzi.
La sensazione che questo fenomeno lascia è la paura, l’orrore di non riuscire mai più a scrivere neanche un’insignificante lista della spesa.
Ore e ore ipnotizzata da quel cursore lampeggiante sulla pagina digitale. Minuti interminabili a fissare i fogli bianchi sulla scrivania. Provavo a rileggere quanto già scritto per sbloccare il tutto, per trovare nuove idee e stimolare la fantasia.
Niente. Quella storia proprio non ne voleva sapere.
In molti suggeriscono, quando proprio non si riesce a sciogliere la trama, di staccare completamente per qualche ora. Andare a fare una camminata. Fare due passi, osservare le persone. Sì, le persone… Amo cercare di immaginarne i pensieri, osservarne le emozioni. Ascoltare i discorsi, inventare le loro storie. Rubo i loro dettagli, i loro profumi… Le persone sono tra le mie più grandi fonti di ispirazione. Senza sconfinare nell’invadenza. Anche se, ammetto, il rischio c’è. A volte mi ritrovo a fissare qualcuno senza rendermene conto, quasi da sembrare insistente. La mia è pura curiosità. Una deformazione professionale.
Ma la mente conosce modi a noi ignoti per trovare idee nuove e stimolanti.
Quindi adesso per sbrogliare la mia storia andrò a fare una passeggiata. Osserverò le persone che mi passano accanto, che mi superano in bici, che si fermano a prendere un caffè al bar, forse una brioche… e lascerò che la mente vaghi. Che i pensieri fluiscano, che le idee mi inebrino. Come un sempiterno flusso di coscienza.
***
Ecco, adesso devo rientrare e andare subito a scrivere, ho avuto un’idea per chiudere il romanzo che non può assolutamente aspettare.
A Paolo e Laura,
è così che è cominciata.
E alle mie stelline,
E ai sogni.
Storia di una passione. Solo chi ce l’ha può capire davvero cosa vuol dire “…strapparsi un pezzo di carne per depositarlo su carta.” Efficacissimo!
Grazie Caterina!