Premio Racconti nella Rete 2023 “Ninì” di Giovanni Ierfone
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Una delle porcate più infami che la vita ti può riservare è svegliarsi la mattina presto e scoprire di avere perso un mese di lavoro.
Di una pila di carte, alta pressappoco come la Torre di Pisa, non restava che una mota grigiastra zuppa d’acqua. Una negligenza che mi faceva perdere un mucchio di tempo, e di denaro.
Una schifosissima finestra spalancata tutta la notte, un autunno incerto e maledetto, un dannato temporale e una sfiga planetaria erano gli intrugli di quel minestrone disgustoso.
Ricominciare voleva dire perderci la testa, e il sonno, lasciare tutto come stava una montagna paurosa di guai da far venire i capelli ricci alla buonanima di Yul Brinner.
Dopo avere considerato che una polmonite era il minimo che mi potesse capitare, dopo avere storto gli occhi a forza di starnutire, presi a ramazzare come Papillon nel tentativo assai ottimistico di recuperare il recuperabile prima dell’arrivo di Teresa Grossi, la mia datrice di lavoro.
Sostituto procuratore, nubile e rompiscatole di prim’ordine Teresa, da più di un mese, si dannava a raccogliere prove per incastrare un certo Vito Lacosta, ruffiano per passione e fetente di professione. Sorvolando assai allegramente su alcune norme procedurali, scambiandomi per un archivio blindato, e casa mia per un bunker a prova di bazooka, mi aveva affidato tutto il materiale raccolto che giaceva, ora, fradicio e appallottolato nel cestino della carta straccia.
Avrei dovuto consegnare i documenti qualche tempo dopo! Non sono una carogna, ma sperai capitasse un incidente a Teresa (la vita è sempre così piena di imprevisti!). Rompersi l’osso del collo facendo le scale, o beccarsi una febbre da cavallo tale da bloccarla a letto per un mese.
Tranquillizzato, riuscii a mantenermi calmo perfino quando scoprii di avere esaurito le scorte d’orzo. Era la prima volta da un’infinità di anni che affrontavo una giornata senza berne un goccio. Stentavo a credere che mi potessi sentire così vuoto e insoddisfatto.
Da qualche parte avevo letto che l’uomo è un animale abitudinario. Beh, chiunque l’avesse scritto, aveva sacrosanta ragione. Chi sa, forse anche quello era rimasto senza surrogato di caffè.
Una rampa di scale ripida come l’ingresso a Santa Maria in Aracoeli, una ringhiera che scricchiolava come le ossa di mio nonno in bicicletta, un pianerottolo più infido degli archivi del catasto, ancora scalini e finalmente spuntava in fondo al corridoio l’atrio della redazione. Una mezza porta a vetri opachi sporca di un vecchio “Buon Natale” scrostato conduceva al mio desk.
Avevo pensato più volte di sostituirlo con una scritta
del tipo “Leo Parodi, idraulico” o imbianchino, o con cose di questo genere. Loro (idraulici e imbianchini) non avevano di che preoccuparsi: segreteria telefonica (oppure l’equivalente in carne e ossa), frigo bar e via elencando…
Così almeno diceva la gente. Sennonché mi ricordavo di Ponzi, lo stagnaro, che abitava in un buco a pianterreno con moglie e cinque figli, che tiravano avanti solo perché avevano imparato a campare d’aria, e allora mi accorgevo che la gente dice spesso un gran mucchio di stronzate e mi confortavo.
L’usciolo dell’anticamera, che di solito non chiudevo a chiave, era accostato. Costretto da uno spiffero gelido cigolava piano. Qualcuno mi aspettava. Un potenziale rompiballe temetti entrando.
Mi ero sbagliato. Non un rompiballe voleva vedermi, ma una rompiballe. Una signora.
Sedeva sulla poltroncina davanti alla scrivania dello studiolo. Le gambe accavallate, dondolava con lentezza un piede. Con pigrizia frugava nella borsetta poggiata sul ginocchio della gamba sinistra.
Indossava un completo di velluto scuro, lustro e grossolano. La camicetta, sbottonata con disinvoltura, rivelava un seno floscio, vizzo, picchiettato di leggere chiazze scure. Un paio di calze nere in nylon smagliate al polpaccio coprivano gambe tozze e grassocce, insaccate in scarpe di vernice coi tacchi a spillo consumati. Doveva essersi truccata senza specchiarsi perché il rossetto, a tratti, non seguiva la linea delle labbra. Le borse sotto gli occhi, poi, erano state celate da uno spesso strato di ombretto chiaro. Per quanto mi sforzassi non riuscivo ad approssimarne l’età.
“La porta era aperta e ho pensato che sarebbe stato meglio aspettare qui” si giustificò facendo spallucce e osservandomi fisso fisso negli occhi.
Aveva il viso contratto, la fronte corrucciata. Era tesa, e non ne immaginavo la ragione.
“Non ha paura dei ladri?” domandò, sforzandosi di apparire più ingenua di quello che non fosse.
“Le uniche cose da portar via, qui dentro, sono la noia e la polvere accumulata sui mobili. Come vede…”.
Restò per un attimo sopra pensiero, ritoccò col mignolo della mano destra il trucco all’angolo della bocca e cominciò a vagare con lo sguardo per la stanza. Infine, mi chiese, apprensiva:
“E’ Leo Parodi… vero?”.
Risposi di sì, che ero proprio io.
Alzai la tapparella, mi tolsi il soprabito, che appesi a un indecente attaccapanni a muro, e presi posto sulla mia bella poltrona di pelle finta: l’unico mobile della stanza a non essere infagottato dalla polvere.
La donna rovistò di nuovo nella borsetta. Si sporse attraverso lo scrittoio e mi consegnò un biglietto da visita. Stampato in corsivo inglese e con sobria eleganza si leggeva: “Teresa Grossi, sostituto procuratore”, seguivano indirizzo e numero di telefono.
“E’ lei che mi ha detto di venire” chiarì “voleva che fossi io stessa a spiegare la situazione”.
“Come ha conosciuto Teresa?”.
“Mi ha tirata fuori dei guai, una volta”.
“Che genere di guai?” le chiesi. Lo supponevo, ma lo feci più che altro per sbloccare la conversazione.
“Ero stata accusata di adescamento e truffa. Io…” e portò la mano al petto “che non so nemmeno che cosa significa adescamento! E siccome non mi potevo permettere un avvocato, Teresa mi venne assegnata d’ufficio. Vuole sapere altro?”.
“Per adesso no. Solo, cosa c’entro io in tutta questa storia”.
“Dunque”, cominciò sistemandosi meglio sulla poltrona e assumendo la posizione di chi spiega qualcosa a un deficiente. “Le cose stanno pressappoco così. Tempo fa Teresa mi contattò. Mi disse che stava raccogliendo informazioni su Vito Lacosta. Pensava fossi stata una delle sue ragazze e voleva convincermi a deporre. Ma, io, non ho mai avuto a che fare con tipi come quello. Avrei potuto raccontarle solo che tra gli esseri a due zampe è il più fetente. Questo, però, è risaputo e comunque non le era di nessun aiuto. Così l’ho indirizzata da un’altra ragazza. Un tipo strano, particolare. Sta con tutti e con nessuno. Non ha una zona sua. Per quello che ne so, può anche aver fatto parte della scuderia di Lacosta. Se pagata bene, e con una protezione adeguata, potreste riuscire a cavarle qualcosa. Ma non ci giurerei sopra. Gliel’ho detto, è strana”.
“In che senso?”.
“Bah, dice sempre che la sua è una missione, una vocazione, e cavolate simili. Spesso, se qualcuno le piace, non si fa nemmeno pagare. E capita il più delle volte”.
Sottolineò la frase “… non si fa nemmeno pagare” con un ghigno che mi parve cattivo, risentito. Ma, forse, fu soltanto la mia fantasia suggestionata dalla linea sghemba del rossetto sulle labbra della donna, e non potrei giurarlo.
“Per me è matta” continuò. “Se Teresa però vuol tentare… Fatti suoi. E’ tutto”.
“Come posso rintracciarla”.
“Questo è compito suo, mi pare, e a essere sincera non saprei proprio. In ogni modo nell’ambiente è conosciuta come Ninì” e sputò con buona creanza una ciocca di capelli giallo muffa finitale tra le labbra.
“Posso andare?” domandò poco dopo afferrando la borsetta.
“Sicuro” risposi non del tutto convinto.
Ci alzammo e l’accompagnai alla porta. Sul pianerottolo fu sul punto di dire qualcosa, ma vi rinunciò subito limitandosi a sorridere con intenzione. Feci finta di nulla e lei, senza perdere altro tempo in infruttuosi tentativi di ammaliamento, si girò e si allontanò ondeggiando sui tacchi a spillo.
La faccenda cominciava ad assumere connotati interessanti. Se fossi riuscito a scovare la ragazza e convincerla a deporre contro Lacosta, le probabilità di sbatterlo al fresco aumentavano, e di parecchio. Di conseguenza, le scartoffie accumulate da Teresa servivano meno, e questo mi risollevava da un mare di guai.
Ero perso in questi pensieri quando squillò il telefono.
“Leo Parodi…”.
“Sono Teresa, Leo. Hai visto Mastice?”.
“Chi?”.
“Mastice, la ragazza”.
“Se per ragazza intendi quell’impasto di rughe e belletto che era qui un momento fa, è già alla porta da qualche minuto”.
“Che pensi di questa storia?”.
“Che se le cose filano per il verso giusto può funzionare”.
“E della donna?”.
“Mi ha convinto poco, credo sapesse molte più cose di quelle che mi ha raccontato”.
“Che cosa te lo fa credere?” domandò interessata.
“Il suo comportamento, teso, agitato. Sembrava spaventata”.
“Spaventata?” ripeté divertita.
“Come un gatto a mollo. Non riesco a capire…”.
“C’è poco da capire” m’interruppe. “La colpa e mia. Per evitare che ti raccontasse fandonie le ho fatto credere che collabori con l’ispettore Macrì. Lo conosce solo di fama e credo le basti. E’ probabile che dapprincipio ti abbia scambiato per lui” e rise.
“Allora, deve aver preso la più grossa cantonata della sua vita. No, non credo sia questo il motivo”.
“Ascolta” continuò “ho importanti informazioni su Ninì. Scrivi. Il suo vero nome è Anna Bessi”, poi continuò con un rosario infinito di informazioni, non tutte capitali.
Al solito, dettò in modo veloce e precipitoso, come se le frasi fossero un’unica parola. La mia mano correva sul foglio con la stessa velocità di un ragioniere tallonato da un cinghiale.
“Un momento” gridai infine stiracchiando la mano. “Rilassati e spiegami come diavolo hai fatto a procurarti queste notizie”.
“Non farmici pensare” esclamò “un lavoro d’inferno. Ho letto e riletto da cima a fondo le schede di tutte le prostitute che circolano in città”.
“Su quali dati” ribattei incredulo.
“Sull’unico che conoscevo, il nome d’arte della ragazza. Un agente pignolo nello stilare il rapporto ha riportato anche quello. Ho trascorso tre notti insonni, ma ne è valsa la pena. E ora, vecchio mio, è giunto il tuo turno. Non dovrebbe esserti difficile rintracciarla con gli elementi che hai a disposizione”.
“Mica tanto” osservai “è un maledetto casino questa città, mica un parco giochi”.
“Va bene, va bene” mugugnò “muoviti, comunque. Ah, quasi dimenticavo. Che ne diresti se mi portassi a cena, stasera?”.
“Ecco… in un certo senso…”.
“Allora ci vediamo a casa mia verso le nove. Ti aspetto” e riattaccò.
Era proprio vero: l’unica, sostanziale differenza fra Teresa e un uomo consisteva nel fatto che gli uomini si radono lei, invece, si depilava.
“Anna chi? Bessi! Chi ha un cognome così non circola da queste parti e non ha bisogno di darla per vivere”. “Ninì! Cos’è, un pechinese? Ah, ah, ah…”.
Da giorni e giorni la musica era sempre la stessa. Tra le sue colleghe o nessuna la conosceva o pensavano le prendessi in giro.
In verità, anche Teresa e io in principio avevamo pensato a un’omonimia. D’altra parte, immaginare che una Bessi faceva la vita era un’ipotesi così balorda che avevamo creduto opportuno saperne di più.
Scartabellando negli archivi dei giornali, e ovunque ci fosse data la possibilità, avevamo accumulato abbastanza notizie da avere un quadro più preciso della situazione.
A sedici anni, Marianna Domitilla Bessi (Anna per i consanguinei), la figlia minore di Pietro Bessi, il re dell’acciaio, scappa di casa. I familiari pensano a un colpo di testa giovanile e non danno gran peso all’accaduto. Ma i giorni passano e di Anna nessuna novità. Il fatto è tenuto segreto: i giornali potrebbero ricamarci sopra e provocare uno scandalo. La notizia filtra comunque. I rotocalchi se ne appropriano,
richiedono informazioni sempre più particolareggiate. Allo scopo di calmare le acque, da casa Bessi comunicano che Anna è lontana per motivi di salute. I giornali, per un po’, abboccano. In seguito, si sparge la voce del mestiere scelto dalla ragazza. La famiglia si trincera dietro un rigoroso silenzio stampa, come si dice in questi casi. Forse anche per questa ragione i media non si occupano della vicenda, che non viene più ripresa.
Avevo tentato di fissare un appuntamento con Pietro Bessi. Senza risultato. Avrei dovuto affidarmi a Teresa, lei era l’unica che potesse riuscirci: conosceva a meraviglia tutto quello stucchevole corollario di consuetudini e buone maniere dell’alta società oltre a conoscere, beninteso, le persone giuste.
Io, invece, non solo m’incartavo con le posate in un pranzo di riguardo, ma al ristorante appena riuscivo a trattenermi dall’annodarmi il tovagliolo intorno al collo. Quanto alle amicizie importanti, al massimo potevo aspirare ai biglietti omaggio per gli incontri di boxe.
Il telefono trillò con prepotenza. Ero depresso, lo lasciai squillare a lungo. Quando lo ritenni opportuno sollevai la cornetta.
“Leo Parodi…” soffiai.
“Finalmente la trovo. E’ da un pezzo che tento di rintracciarla. Sono Laura Bessi”.
Per la miseria, la famosa Laura Bessi. La mantide. La regina delle cronache mondane. Le sue imprese consentivano a tre o quattro rotocalchi scandalistici di uscire regolarmente in edicola. Quando lei presenziava alle feste mogli, fidanzate e concubine varie affilavano gli artigli e si preparavano alla guerra. Anzi alcune di loro pare frequentassero corsi speciali di addestramento “anti-Laura”, stage che prevedevano esercitazioni di pedinamento, sorveglianza, disturbo e, nei casi estremi, lancio di piatti (o analoghi oggetti contundenti da cucina) e ritirata strategica.
“A che debbo il privilegio della sua chiamata, signorina Bessi?” borbottai.
“A una semplice curiosità… Ho saputo che ha cercato mio padre, oggi”.
Le voci corrono in fretta, pensai. Più in fretta di quanto immaginassi.
“Sì, è vero”.
A quel punto mi sembrava da stupidi negare l’evidenza. Tanto più che avevo assoluta necessità di parlare con qualchedun altro della famiglia.
“Chi le ha fornito il mio numero di telefono?”.
“Mi è bastato cercare in internet”.
Restai di sale!
“E’ molto intraprendente, signorina. Perché non si serve delle sue incredibili capacità deduttive e mi spiega il motivo della chiamata?”.
“Certo, certo. Mi dica, prima, la telefonata a mio padre aveva lo scopo di raccogliere informazioni sulla sua società o sulla famiglia”.
“Sulla famiglia”.
“Su di me?”.
“No – tagliai corto – su uno dei componenti che pare vi interessi come l’invasione delle cavallette in Egitto… Senta, non vorrei sembrarle scortese, ma ritengo che dovrebbe starsene fuori da questa storia, anzi non impicciarsene affatto. Suo padre è stato categorico in proposito”.
Come scena madre per un melodramma lacrimevole andava abbastanza bene. Appariva addirittura superba la trovata di scoraggiare quella disgraziata che aveva deciso di venirmi in aiuto. Io stesso mi stupii di tanta sottile astuzia.
“Ha forse paura di lui?” insinuò.
“Non dica sciocchezze – sbottati aspro. – Sto semplicemente svolgendo un lavoro e lo porto avanti a modo mio. Non insisto se la gente non ritiene opportuno collaborare”.
“Non la facevo così rinunciatario” commentò.
“E, infatti, non lo sono. Questa volta però ho preferito agire così”.
“Mi ascolti, signor Parodi – riprese conciliante. – Credo di avere afferrato il problema e se lei è d’accordo desidererei incontrarla in serata”.
“Se insiste. Fissi pure l’ora e il posto dove incontrarci”.
“Conosce il Baldus?”.
“E’ quel locale sulla Cristoforo Colombo, credo. Sì, solo di nome”.
“Bene, questa sera al Baldus”.
“Intesi. Arrivederla, signorina Bessi”.
Il tempo di abbassare la cornetta del telefono che bussarono alla porta. Capita sempre così. Spesso trascorrono giorni, e a volte settimane, senza che nessuno chiami o si interessi di te nemmeno per sapere se sei crepato o se stai lì lì per farlo e, all’improvviso, il telefono urla come la mia vicina di casa e la gente si prende la briga di arrivare sin qui, salire le scale e attraversare quella porta che per la maggior parte dell’anno è più chiusa della bocca di un cadavere.
“Avanti…” gridai più infastidito che incuriosito.
La porta si aprì e, se gli occhi non mi tradivano, in piedi, tra la soglia e il pianerottolo, la ventiquattrore in mano, attendeva proprio lei, Teresa Grossi sostituto procuratore della repubblica. Alta, slanciata, manageriale, con la messa in piega fresca di parrucchiere, tailleur rigorosamente grigio e firmato, gardenia all’occhiello, ispirava un’aria così professionale e sicura che mi sono sempre chiesto perché una donna raffinata e intelligente come lei avesse deciso di lavorare con un cialtrone grossolano come me.
Un mio amico, un cervellone, che parlava di affinità elettive, di compensazione e astrusità varie, un giorno che delirava più del solito, dopo un lungo discorso concluse: “…E ricordati, per quanto possa sembrarti assurdo, che gli opposti si integrano”.
“Chi era” domandò Teresa in apparenza disinteressata. Non attraversò la porta. Stette ferma tra la soglia e il pianerottolo a fissarmi.
“Laura Bessi. Vuole vedermi”.
Sollevò il busto e soffiò due o tre volte con il naso, come i pugili in guardia.
“Che significa vuole vederti” reagì dura.
“Significa che ha fissato un appuntamento con me perché vuole parlarmi”.
“E di cosa?”.
“Della sorella, ovviamente”.
“Vai in villa, dunque”.
“No. Ci vediamo stasera al Baldus”.
“Ah, al Baldus. E’ là che svolge gli impegni di lavoro? Molto interessante. L’utile al dilettevole, un binomio perfetto. In gamba la piccola, davvero in gamba”.
“Ehi, ehi! Cos’è, un’arringa? Ha fissato un banalissimo appuntamento perché vuole parlarmi della sorella. Tutto qui. Si può sapere che ti prende?”.
“Tanto per cominciare che ti pago per lavorare e non per trascorrere le serate in locali notturni in compagnia di una vamp. In secondo luogo, che questo caso lo stiamo svolgendo insieme, e gradirei continuassimo a farlo. Terzo e ultimo punto che sei un cialtrone”.
Due cose distinguevano il Baldus dagli altri ritrovi notturni della città. La fauna che vi prosperava, biscazzieri, imprenditori, bancarottieri, arrampicatori sociali, stelline del cinema e della televisione, firme e firmette del giornalismo, artisti, intellettuali e ciurmaglia anche peggiore; e il tentativo di giustificare quest’accozzaglia con la balla della promozione culturale.
Al Baldus non mandavi giù un Martini annacquato e basta. No, al Baldus ingoiavi un Martini annacquato e un milione di parole su un testa quadra importante.
E tre i motivi per cui non lo avevo mai frequentato. Innanzitutto, perché non sono un etologo, secondo perché non ne avevo avuto l’occasione – né l’avevo mai cercata – terzo perché non avrei potuto permettermi un solo bicchiere d’acqua minerale, quand’anche l’avessero servita.
Decine di specchi ottagonali incassati nei muri moltiplicavano (ripetendole come in un gioco di scatole cinesi) le immagini di un’umanità stanca, di corpi sudati, di oggetti imbrattati. Fasci di luce pulverulenta e multicolore piovevano senza sosta dall’alto spalmandosi sui tavolini appiccicaticci, ingombri di olive e stecchini. Nell’aria viziata, frastornata dalle chiacchiere, appesantita dal fiato, s’intravedevano, vaghe, le facce dei clienti. Facce vuote, rimbecillite dalla noia e dall’ozio, gli occhi bruciati dall’alcool. Spenti, come le pale dei ventilatori che penzolavano inerti dal soffitto. Ragni
immondi aggrappati alla tela, pronti a ghermire la preda. E come se non bastasse, le note sdilinquite di un maledetto pianista in camicia alla Robespierre e capelli neri, lunghi, che ce la metteva tutta per stravolgere “Jack the bear” del vecchio Duke Ellington.
Il volto di Laura Bessi era su tutti i quotidiani e le riviste patinate in circolazione. Io ne avevo solo sentito parlare. Non leggevo la stampa frivola per una forma di larvato snobismo e non mi interessavo di cronaca rosa. Dei giornali spulciavo la cronaca, quella vera, e la pagina sportiva se trattava di boxe. Non ero un intellettuale e non mi importava di esserlo.
Con questo semplice accorgimento avevo evitato sempre di imbottirmi la zucca di ciance e di banalità. E se adesso non riuscivo a riconoscere Laura Bessi, la colpa in fondo era soltanto mia.
In quella Babele percepii una voce chiamare una “Laura”. Seguii quello squittio, che superò di rimbalzo il brusio di voci indistinte che regnava in sala, un cicaleccio fastidioso, appena temperato dal sottofondo discreto del piano.
E qualcosa, radendo gli spigoli smussati dei tavoli, zigzagando tra gambe incrociate accavallate fiacche ciondoloni, calpestando lembi di pellicce ecologiche e di cappotti sul pavimento macchiato dallo struscio e dalle gocce dei drinks, raggiunse l’ala del locale arredata in un liberty stomachevole. Poi, quella che all’origine mi era parsa una nottola, si rivelò per una donna sui quarant’anni, di aspetto borghese, vagamente intellettuale, il viso affumicato dal fard. Grondante di strass, tintinnante di anelli, di bracciali, di ninnoli vari dava l’idea di quei vistosi lampadari a goccia addobbati per le feste di Natale.
L’abat-jour conquistò un pouf e sedette accanto a una donna annoiata e taciturna. Prese a parlarle fitto fitto tenendo infilati il pollice e il medio della mano sinistra nelle guance infossate, come se reggesse una protesi dentaria.
Masticando noccioline salate attesi che alla logorroica le si inaridisse il gargarozzo. Quando finalmente sparì inghiottita dalla calca mi avvicinai alla donna.
“La signorina Bessi” supposi.
Mi lanciò un’occhiata interrogativa e non rispose.
“Sono Leo Parodi”.
“Oh, signor Parodi” giubilò spiattellandomi un sorriso che mise in mostra trentadue magnifici denti bianchi. “Credevo non venisse più”.
Mi porse la mano, come per baciarla. Gesto che non feci e mi limitai a stringerla forte, con grande disappunto della donna.
Il viso di Laura Bessi rievocava il tipo della bellezza classica, una vaghezza resa innaturale dal trascorrere degli anni e non più soggetta all’usura del tempo.
Una linea di trucco segnava le sopracciglia esili, ben curate. Inarcandosi o distendendosi, in base all’umore, accentuavano il riflesso di due grandi occhi grigi, o neri, che viravano a seconda della luce. Qualche goccia di sudore le imperlava la fronte e la fossetta sulle labbra carnose. I capelli ramati si scioglievano in riccioli ampi su un vaporoso golfino di cashmere scollato. Una larga cintura di pelle le fasciava la vita facendo risaltare il seno tumido e sodo.
“Perché non si siede?” uggiolò. “E’ timido, o è una tecnica per tenermi sulle spine?”. Così dicendo, reclinò la testa all’indietro, una risata di vetro le gorgogliò in gola e i capelli le si sciolsero morbidi morbidi giù per le spalle. Il movimento fece ondeggiare il bicchiere che stringeva nel palmo di una mano e gocce di liquore traboccarono a bagnarle la gonna di tweed blu notte.
Strofinò il tessuto con le dita e la gonna scivolò a scoprire gambe da applauso inguantate in calze fumé. Terminata l’operazione, controllò se le scarpine di coccodrillo con i tacchi alti si fossero macchiate.
“Intanto che si ricompone” feci “ordino da bere. Desidera qualcosa?”.
“Oh sì, grazie! Dica a Ugo di prepararmi il solito”.
Tornai da Laura Bessi facendomi largo a spintoni. Prima ancora che potessi sedermi la donna domandò, curiosa:
“Che cosa beve?”.
“Orzo” spiegai. “Ne porto sempre qualche bustina. E’ una miscela che preparo io personalmente. Difficile trovarla in giro”.
“Orzo!” ripeté incredula.
“Esatto. Orzo, surrogato di caffè”.
“Ma come fa a berlo!” esclamò disgustata e, forse, impietosita.
“Me lo sono chiesto anch’io, in principio… Ma il tempo ci rende assuefatti a molte cose. E la necessità pure. Dopo aver beccato un milione di pugni come martellate nello stomaco, è l’unico intruglio che non permette alle viscere di saltarmi fuori e spargersi sul pavimento. Per di più soffro di insonnia e mi aiuta a chiudere gli occhi un paio d’ore”.
Non ritenni opportuno aggiungere che se, in effetti, il caffè d’orzo era l’unica porcheria che riuscivo a trattenere in corpo, non era tuttavia l’unica che bevevo e che, pur di gustare un goccio di birra di tanto in tanto, ero disposto a sopportare dolori atroci come se un migliaio di cani e gatti si azzuffassero nelle budella.
L’arrivo di Ugo mi salvò dalla curiosità irriverente della donna.
“Il cocktail che aveva ordinato” interloquì.
Osservai con attenzione il cameriere. Una ciocca di
capelli grigi gli fluttuava languida nel pulviscolo dei faretti. Aveva l’espressione triste, i baffi e il volto scoloriti, come il telo di quegli ombrelloni dimenticati d’inverno sulla spiaggia. Era stanco. Stanco e nauseato di quello che lo circondava, di quell’aria rarefatta. Ma un giorno, si intuiva, sarebbe andato via da quella bolgia e avrebbe posseduto un locale tutto suo, un posto pulito, illuminato bene.
“Così è un investigatore privato” mi aggredì d’un tratto Laura Bessi dopo che Ugo si fu allontanato.
“Così è uno di quei guardoni che spiano dal buco della serratura le coppiette nelle camere d’albergo e che gironzolano…”.
Quello sbotto mi sorprese.
“Signorina Bessi” accennai nello sforzo di calmarla.
“… che gironzolano alla ricerca di storielle compromettenti, cinicamente montate…”.
“Signorina Bessi” urlai. Riuscii a zittirla.
“Può chiamarmi Laura” frignò, improvvisamente calma. Accavallò le gambe.
“Si rilassi, e mi ascolti. Per cominciare, non sono uno di quei ficcanaso alla ricerca di storie equivoche. Sono un cronista, vittima anch’io del malessere che colpisce i giornali e che, con vago senso del melodramma, è definito “crisi della stampa”. Di me… della mia esperienza… si serve a volte il giudice Grossi, più che altro per non farmi fare la fine del topo, immagino. Sono una specie di uomo di fiducia, di segretario tuttofare, o qualcosa di simile. Perciò chiunque, compresa lei, può rifiutarsi di darmi informazioni, sbattermi la porta in faccia o, nella peggiore delle ipotesi, mandarmi a guardare il pavimento da vicino. Però, se uno di quegli impiccioni privati o forse un mio collega troppo zelante le hanno giocato un brutto scherzo, questo non l’autorizza a trattare la gente alla stregua di quei cicisbei cascamorti che le svolazzano intorno”.
Allibì. Tentò di replicare, ma le parole le si ingarbugliarono in gola e le ingolfarono il tubo di scappamento. Dilatò le pupille e, in un rigurgito di pudore, cercò di abbassare la gonna che non voleva saperne di starsene giù.
Lanciai uno sguardo panoramico nella sala asfissiante e satura di chiacchiere, sfuggendo di proposito i suoi occhi ora così neri e così lucidi per il bere, che mi fissavano silenziosi e attenti, forse persi dietro agli insuccessi della vita. Se mai ne avesse avuti.
Poi, in uno dei suoi repentini cambi di umore, mi disse come erano andate le cose.
Mi raccontò di come Ninì fosse entrata a far parte del giro di Lacosta. Di come questi si fosse innamorato di Ninì. Della decisione cinica del padre di ripudiare la sorella, di abbandonarla alle sue nevrosi, di impedire con ogni mezzo e a chiunque di cercarla… E la serata finì lì.
Il resto, incrociando ritagli stampa con verbali e documenti fornitemi da Teresa, lo avevo scoperto da me. Mastice, per rientrare nel grande giro, aveva fatto rapire Ninì. In questo modo, la maitresse aveva creduto di raggiungere due scopi: vendicarsi della donna che pensava le aveva portato via l’uomo che amava e riconquistare un posto di rilievo nell’organizzazione. Lacosta però non era più innamorato di lei e, per giunta, aveva lasciato andare Ninì.
Distrutta nell’orgoglio, dilaniata dalla gelosia, Mastice aveva organizzato di uccidere la rivale.
Poi, una sera, sulla Palmiro Togliatti, fra tutte le ragazze che pestano l’asfalto, due balordi, su una moto di grossa cilindrata, scippano la borsetta proprio a Ninì, che non molla e che viene trascinata per un breve tratto micidiale mentre il tipo seduto dietro al guidatore grida “Voi tenete il virus!”.
Ambulanza, polizia, medico legale…
Aveva qualcosa di diverso dalle altre e di diverso, sopra tutto, da quelle come lei. L’angolo di una strada era il chiodo per il suo lavoro e, credo, di tutta la sua vita.
Addossato alla finestra dell’ufficio, la guancia incollata al vetro, una lattina di birra tra le mani, e il sapore acido del vomito, che dallo stomaco sale su, piano piano, fino a comprimerti il diaframma e il cuore, la immaginavo sull’imbrunire a un angolo di strada.
Era là, e guardava passare la gente, osservava scorrere la città. All’angolo, il profilo rigido e scheggiato di un muro, che percorre la linea eccentrica della spina dorsale.
Stava lì, ferma e immobile, e avrebbe potuto essere lontana una vita, un anno luce o un chilometro, ma avrei continuato a guardarla, a osservarla, la guancia incollata al vetro, l’aspro sapore di birra in bocca.
Era diversa… Ma non avevo ancora capito perché!
Un caleidoscopio di metafore: mi è piaciuto!
Ciao Tommaso, grazie. Scusa se rispondo solo adesso. Sono curioso di leggere le tue “cose”. Ora cerco. Grazie!
Una storia davvero molto bella, tiene il lettore col fiato sospeso fino alla fine, un bel ritmo e molte belle immagini rappresentate in un ottimo stile. Complimenti!
Ciao Aurora, grazie! Anche il tuo commento mi ha lasciato senza fiato e quasi senza… parole! Davvero grazie di cuore.
si legge con piacere: prosa classica, ben scritta, ricca di immagini espressive particolarmente riuscite. mi hanno stonato un po’, nella voce del protagonista, i “cicisbei cascamorti” (suona artefatto quanto uno strumento di intermediazione semiotica)… alternative più scurrili/colloquiali nessuna? per il resto, il passo avvolgente è quello d’un romanzo più che d’un racconto (sia chiaro: vuol essere un complimento, anche perché il primo è fratello maggiore del secondo) e in effetti in totale saranno a occhio più di 20.000 battute, cosa che mi lascia perplesso (il bando indicava un limite di batture molto inferiore). nel finale, pensava/aveva/amava in fila m’hanno costretto a rileggere più volte: forse meglio “vendicarsi della donna che, a suo dire, le aveva portato via l’uomo che amava”. resta il fatto che un tuo romanzo, io lo comprerei…
Ciao Malos, intanto grazie per la tua generosità, per il tuo commento accurato e analitico, di cui condivido diverse note di editing. Ne terrò conto e ti ringrazio ancora. In realtà, nel lungo racconto, seminate qua e là, ci sono parole che intendono (!) essere dei giochi (dei riferimenti) letterari: “cicisbei cascamorti” a “Il villaggio di Stepan?ikovo e i suoi abitanti” di Dostoevskij; “un posto pulito, illuminato bene” è il titolo di uno dei “Quarantanove racconti” di Hemingway; il protagonista si chiama “Parodi” come il “Don Isidro Parodi” di Borges e, sul modello di Chandler (“La semplice arte del delitto”), “parla come un uomo del SUO tempo” ecc. Magari sono sembrato velleitario e non ci sono riuscito… comunque sia sono molto, ma molto, lusingato del fatto che un mio romanzo lo compreresti. E detto da “malos mannaja” è una garanzia!