Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “Il gioco dell’oca” di Gloria Vizzini

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

DAVANTI AL CAMINO

Un pomeriggio a casa mia, nello studio le librerie con le scrivanie in legno di due colori, a contrasto: scure nella struttura con elementi chiari: beige il piano di lavoro nelle scrivanie, marrone scuro la struttura. Poltrone a contrasto: scure nella seduta, chiare nello schienale, di tessuto traspirante, comode. Anche la disposizione delle scrivanie, la mia e quella di Edoardo, è a contrasto, una di fronte all’altra ma con i contorni che combaciano: come i nostri caratteri. Calmo lui, impaziente io, insieme completi. Le scrivanie con lo spazio per lui di poggiare i fascicoli, per me il computer, libri, quaderni, e soprattutto agende. Ne ho una da tavolo e una per il lavoro.

Non sa nemmeno parlare, ed è in Parlamento. Dico io, quasi prendendomela con lui.

Può essere, magari è un’incapace, ma per il momento è lì.

– E pensi che può fare qualcosa per noi? Guarda questo video, senti cosa dice! No, dai, lo trovo assurdo, tu no?

– Se non ti sta bene, candidati e vai tu. Risponde Edoardo, con un tono duro come la realtà. 

A Pisa avevo partecipato a riunioni, manifestazioni, cortei. Contro le guerre, contro la Bossi-Fini. Dai tempi dell’università ero animata da uno spirito combattivo, mescolato adesso agli ideali dell’uno-vale-uno e dell’onestà. Dopo il dottorato avevo insegnato per 10 anni da precaria nei licei, poi ero entrata di ruolo alle medie, a contatto con le energie esplosive dei pre-adolescenti. Volevo andare via da quella scuola. Adesso avevo più di 30 anni. Se volevo cambiare le cose, ora o mai più.

Edoardo, però, non aveva tutti i torti: se la situazione non ci sta bene, bisogna alzarsi dal divano e muoversi per migliorarla. O quanto meno provarci. Altrimenti si perde il diritto alla lamentela.

Non sapeva di avermi spinta all’azione. 

Un anno dopo, dicembre 2017, vacanze di Natale da mia suocera, mi trovo in cucina seduta sul divano; un divanetto a due posti, con una coperta per rinforzare la seduta un po’ consumata dal tempo e dall’uso. Accanto a me il caminetto acceso, a mattoncini rossi e cornice in marmo, sulla quale avevo poggiato i pochi strumenti con cui mi sentivo a mio agio: smartphone e tablet, un quaderno e una penna. Il resto della casa era gelato, i tetti molto alti, le stanze enormi, ma quell’angolo era accogliente. Dovevo optare tra le feste in famiglia o fare qualcosa di diverso. Del focolare non mi sentivo custode. Vada per qualcosa di diverso. Il termine per presentarsi alle primarie scadeva il 31 dicembre, non potevo rimandare a dopo le feste, alla prossima volta, anche se ero in un’altra città. Volevo gettarmi nella mischia, dare seguito ad un sentimento, un fuoco a volte acceso, a volte assopito sotto la cenere che per anni mi aveva coinvolta a preoccuparmi anche delle cose su cui non avevo alcun potere. Ero cresciuta sentendomi ripetere di essere fortunata ma in fin dei conti, a fronte di grandi sacrifici, possedevo un presente precario. Era difficile immaginare le conseguenze di quello che stavo per fare, qualora fosse andato a buon fine.

Presi carta e penna. Maturità Classica, Laurea in lettere, Master, Dottorato in filologia. Esperienze lavorative: insegnante. Interessi: Lettura, viaggi, yoga. Aggiunsi

In un mondo dominato da ingiustizia e intolleranza è difficile immaginare un futuro migliore,

ma possiamo e dobbiamo farlo. 

La protagonista di Crocodile, episodio di Black Mirror

Per una volta presi una decisione senza chiedere il permesso, senza dirlo a nessuno. 

E quella candidatura dal caminetto partì

ELEZIONE 

Dopo aver trascorso la serata a guardare i risultati delle elezioni andai a letto con la frase di Edoardo: – Mi dispiace, forse non ce l’hai fatta. Mi ero data tanto da fare in campagna elettorale, avevo rilasciato interviste sui problemi del collegio, partecipato ad un talk di una tv locale, ad un comizio a Pontedera sotto la pioggia. Alle 5 di mattina del 5 Marzo 2018 aprii gli occhi, accesi il telefono e vidi sul sito del Ministero dell’Interno il mio nome con accanto la spunta verde. Eletta. Sono stata eletta! Dissi ad un Edoardo addormentato tirando via il piumino e saltando giù dal letto. Camminavo tra il tavolo da cucina e il divano quasi senza poggiare i piedi per terra.

A pochissime donne viene perdonato il successo. Da allora mi ritrovai tra richieste e critiche. Tutti si aspettavano qualcosa per sé. All’inizio mi travolsero, poi il mio collaboratore avrebbe fatto da filtro. C’era il tizio che riteneva di subire torti dalla società per cui lavorava, il medico che pensava che l’ospedale fosse male organizzato, l’appassionato di archeologia che era convinto che il Comune avesse sbagliato l’intervento su un bene che lui conosceva da quando era piccino. Poi c’erano i conoscenti. Smisi di portare i vestiti a quella lavanderia, perché uno dei titolari ogni volta mi chiedeva: – Che fate per noi a Roma? 

E poi, i parenti. Il compagno della sorella: – Scusa, ma se sapevi come farti eleggere, perché non lo hai detto anche a me che mi candidavo? La suocera: – Se quando ti sei candidata eri in questo focolare, qualcosa mi pare tocca pure a sto focolare. Lo zio esagerava: – Ti sei sistemata per tutta la vita. L’amico che non vedeva da 20 anni: – Se ti serve un addetto stampa chiamami. Anche i colleghi chiedevano: – Mio figlio vorrebbe fare l’insegnante di musica jazz, la fate una graduatoria apposta per loro? 

A Roma di solito avevano altri progetti, con cui le richieste non combaciavano. 

Nessuno che conoscevo, però, c’era già stato, quindi ero libera di costruire e di sbagliare. La prima seduta della Camera fu 20 giorni dopo l’elezione, mi sembrarono infiniti. Non vedevo l’ora di cambiar vita, mettere la sveglia più tardi, uscire da quella routine di mattinate con gli studenti e tempo libero strappato agli impegni scolastici. Una nuova vita in cui sarei stata padrona del mio tempo. Che gioia. La conquista della libertà. La realtà però si rivela diversa dalle aspettative. 

La prima volta arrivai a Roma in taxi col tailleur e le scarpe nuove. Primo di una lunga serie di completi eleganti ma di cui mi sarei disfatta volentieri. Le strade grandi, i palazzi antichi, imponenti, l’Altare della Patria.

All’ingresso due carabinieri mi facevano il saluto sbattendo i tacchi. Buongiorno onorevole! I commessi mi cedevano il passo e mi aprivano le porte. Avrei scoperto a mie spese che erano pesantissime.

ESPULSIONE

Tanta bellezza a Roma, tanta asfissia nel Palazzo. I corridoi, le sale eleganti, quadri fregi e busti col racconto della storia d’Italia, marmo nei muri e nei pavimenti, nelle scale, nei bagni. E poi, l’aula. La prima volta che vidi l’emiciclo rimasi senza fiato: le strutture in legno, il fregio, gli scranni rosso scuro, e poi il velario liberty in vetro che la illuminava. Scoprii solo dopo e durante una delle prime sedute serali che l’illuminazione era artificiale e mimava senza riuscirci la luce solare. 

In quel teatro conobbi amici e nemici all’interno dello stesso gruppo e imparai quanto enorme possa essere la distanza di idee.

Il momento del pranzo era in assoluto il più carico di nervosismo. Il ristorante aveva meno posti rispetto ai potenziali commensali che arrivavano in fretta e furia e volevano mangiare subito. Era distribuito in quattro sale, con tavoli da 4, però ci si sedeva anche in 2, dove si trovava posto. 

I soffitti affrescati, tovaglie di stoffa, piatti posate e bicchieri con il logo blu. 

Si trattava, però, di una mensa pronta a sfamare, in tempi rapidissimi, 630 persone. La qualità non era quella su cui fantasticava lo zio: Eh, là mangiano aragoste, cibi raffinati. I camerieri erano molto ossequiosi. Una volta una collega reclamò per delle caserecce cavolo romano e pecorino. 

La pasta è troppo cotta. Non la mangio così. 

– Onorevole, gliela faccio rifare subito. E subito lì aveva il significato che dovrebbe avere, ma non bastò.

– No, no, non mi va più. 

Non mi piaceva che dei lavoratori venissero trattati così. Tutti malissimo, tranne uno. Il più anziano. Replicava a suon di battute e tacitava gli onorevoli più capricciosi. Quando la solita collega disse:  

– Ma si rende conto che vita facciamo, dobbiamo mangiare così in fretta, non abbiamo tempo, poi siamo lontani da casa, dobbiamo viaggiare. 

– Per il suo stipendio e per 5 anni lo farei pure io. 

Mai osservazione fu più giusta. Non era possibile cercare solidarietà con lui.

I patti violati, i percorsi opachi. Ad ogni cambio di rotta, ad ogni ideale tradito, dicevano: le condizioni sono cambiate oppure: è stata una decisione collegiale del Governo.

  Discutevo con la più battagliera delle colleghe agitando le braccia e camminando lungo il tappeto rosso al centro del grande corridoio con i divani di pelle ai lati, consunti ma morbidi, comodissimi. Entrammo alla buvette a prendere un caffè. Anche questo era un momento di nervosismo. Bisognava guadagnarsi il posto al bancone non semplicemente sgomitando, ma imponendo il proprio corpo, la propria postura. Di solito arrivava subito il caffè, a volte senza chiederlo perché i camerieri ne facevano a ripetizione. Poi si andava alla cassa dicendo semplicemente il proprio nome. Non si sorseggiava, non era un break rilassante. Era un momento da urlo o da saluto cerimonioso. 

A casa mia, nel silenzio circondato dal verde, il traffico romano e i suoi conflitti mi sembravano un po’ più lontani.

La telefonata del giornalista arrivò ad ora di cena, in cui di solito lascio andare i pensieri e le preoccupazioni della giornata.

Ti hanno espulsa. 

– Ah. Me laspettavo. 

– È scritto su fb. 

Una fitta allo stomaco.

Ero in cucina. Tutto in quella stanza emanava luce, anche se era sera: il parquet in rovere bianco, i tappeti, i quadri alle pareti con le foto dei luoghi del cuore, la cucina color crema. Restai in piedi. Non un messaggio una telefonata un incontro. Un post. La politica 2.0. Meglio far sapere prima ai follower, che d’altronde mostrarono identica carenza di stile. 

Adesso ti dimetti? Tornatene dai tuoi alunni! 

Quella notte non dormii. Trascorsi il giorno successivo a rispondere ai messaggi. Di affetto per la maggior parte. Ma constatai che c’era chi aveva il coraggio di fare dietrologia: 

Lo fai per tenerti i soldi!

Siccome da tempo avevo dovuto arrendermi ad un mondo abbruttito, la cosa non mi stupì. La rete spesso trasmette confusione, paura, a volte odio.

Hanno espulso me per silenziare tutti gli altri. 

Intervista all’Huffington Post, 4 Luglio 2019

Ripartii per Roma. A luglio si soffocava, ma in albergo dovevo dormire col piumino. Era un ex convento di suore ristrutturato, quindi, contrariamente alla maggior parte degli alberghi romani, spazioso. Con grandi corridoi e stanze tutte matrimoniali. E l’aria condizionata fissa. Da quando avevo lasciato il bilocale del quartiere Monti in cui ero stata in affitto per più di un anno, ero solita soggiornare lì. Aveva aperto da poco ed il personale era alla mano, fu il mio rifugio protetto per quasi 4 anni.

Mi chiamò un avvocato. Vuoi fargli causa? Tutti mi tiravano per la giacca. Mentre schivavo i turisti di via del Corso parlai al telefono con un dirigente di un partito storico: – Non ci posso credere che ti hanno trattata così. È una questione di eleganza. Vieni con noi, lo dico senza secondi fini. La gentilezza delle sue parole allentò un po’ la tensione dei miei muscoli. Mi faceva male la testa all’altezza dell’occhio destro, chiamai il dottore e spiegai i miei sintomi. – Torni subito a Pisa! Fu la risposta. Andai in albergo a prendere le mie cose e dissi al receptionist che non mi sentivo bene. 

Va bene. Mi dispiace. 

– Pago lo stesso la camera.

– No, non si preoccupi.

Mi commosse la comprensione.

Presi un taxi e il tassista ad un certo punto tirò fuori un santino dal cruscotto: – Guardi, me lha dato una signora che ho accompagnato stamattina a ritirare un esame ed è andato bene. Limportante è la salute. Piansi. In mezzo al traffico di una città in cui sentivo non ci fossero persone a me amiche.

Non volevo più pensare a quegli stronzi, non volevo prendermela più. 

Fu una promessa a me stessa e la mantenni.

RITROVARE L’EQUILIBRIO

Avevo fiaccato il fisico con una campagna elettorale estenuante, sedute fiume alla Camera, poi spostamenti, liti. E il mio corpo aveva detto basta. I nervi decretarono non ce la facciamo più

Quando tornavo a casa nel week end, sentivo più conforto a rispondere alle richieste d’incontro o d’intervento dal divano, seduta a gambe incrociate. Ogni giorno, appena sveglia, leggevo la rassegna stampa. Era un rito che mi metteva problemi in testa fin dal mattino. Non praticavo più yoga e ad un evento serale, nella sala spoglia del dopolavoro ferroviario, dissi ad un amico: – Prima stavo bene, ora ho dolori in tutto il corpo

Dopo l’elezione, decisi di fare mezz’ora di yoga, ma interruppi più volte la pratica per rispondere ai messaggi che arrivavano. Impensabile fino a qualche mese prima. 

Dopo l’espulsione, mi iscrissi ad un corso per insegnanti yoga presso una famosa scuola fiorentina, diretta da una sorta di guru che si faceva chiamare Il Supremo, e che ci rivelò che per non ammalarsi bisognava fare una doccia fredda al mattino.

Toglievo il tailleur e indossavo i leggings. Non sedevo sugli scranni di pelle, ma sul tappetino tra capelli caduti e piedi. Alla Camera, discorsi urlati; nella scuola yoga, ascolto degli altri e del proprio corpo. A pranzo non andavo alla buvette trovando cibo fumante servito da camerieri solerti, ma al vegano, dove ci facevamo fare un piatto unico e mangiavamo stretti stretti, o fuori seduti sul marciapiede ma senza inutili lamentele. Ogni week end, prima di cominciare con la pratica, il Supremo suonava la chitarra e accompagnava dei canti in sanscrito, una volta dissi ad una collega: – Ma scusa, se proprio dobbiamo inneggiare ad un dio, non posso rivolgermi al mio? Perché dobbiamo cantare il nome di Shiva? Da allora diventai quella che non cantava.

Avevo scoperto che l’equilibrio del corpo si rompe quando viene a mancare quello della mente. – È lo stress di Roma, dicevo. Aggiunsi pratiche a pratiche, esercitando il corpo e la mente, meditando, partecipando a ritiri.  Partecipai ad un ritiro a Pomaia, in un monastero buddista. Era in mezzo al verde della colline dolci nel comune di Santa Luce, appena si entrava si respirava un’aria di calma: giardini meravigliosi, statue di Buddha, le offerte di fiori, le stupe, le ruote con i mantra. Casette in legno. Dovevamo stare per tre giorni in silenzio alternando meditazione seduta a camminata. Poco male, tanto io non conoscevo nessuno e non avevo voglia di parlare, raccontare cosa facevo per vivere. Appena arrivati la maestra che conduceva il ritiro disse: – Affrontate il ritiro con cuore leggero. Badate all’emozione, non al pensiero. Per tre giorni allontanai dalla mente tutte le situazioni tossiche. Imparai che i periodi difficili possono essere fecondi e che le notti oscure vanno bene, a patto che non ci agitiamo. Se impariamo a non agitarci, ad avere fiducia, la notte diventa feconda.  Provavo a riportare indietro le lancette dell’orologio. Ma non si può, non ci si bagna nella stessa acqua, l’avevo imparato a scuola, quindi dovevo accettare di essere una nuova versione di me stessa. Abbandonarmi al flusso. – Non c’è niente che può resistere al cambiamento, diceva il Supremo.

TORNARE AL LAVORO DI PRIMA

Della guerra era stanca ormai, al lavoro di un tempo tornerei. 

Fabrizio De Andrè, Giovanna D’Arco

Arrivò il tempo di appendere l’ascia al chiodo. Ero ritornata. La sveglia presto al mattino, i colleghi deprimenti che mi scaricano addosso impegni e frustrazioni, le riunioni inutili e continue, la routine di tutti i giorni. Lo stesso tragitto verso il lavoro e la campana alle 8.

Gioco dell’oca. Dove l’oca incontra la morte e ricomincia il gioco. Si riparte dal via. 

In fondo, ogni lavoro ha la sua routine: anche se consiste di viaggi e spostamenti. Viaggiare prima era facile, facilissimo. Treni ed aerei gratuiti. Chiamavo e prenotavo un viaggio in treno, un volo. I treni che prenotavo, però, portavano sempre là, Roma Termini, e fare altri viaggi sì, potevo farlo, ma ciò avrebbe significato stare fuori casa più a lungo, perché tanto poi il viaggio per Roma arrivava sempre. Sul treno dormivo tantissimo, mi buttavo sui sedili stanchissima con le camicie di seta e i tailleur in pied de poule. Mi addormentavo con il cellulare in mano per mostrare al controllore il biglietto mentre ero in dormiveglia.

Stamattina a scuola un ragazzo mi dice: 

Sa che c’è una pagina Wikipedia su di lei?  

Sì, lo sapevo. 

Non mi perdo in bilanci, sarebbe potuta andare così, avrei potuto fare questo. Mi sono comportata facendo del mio meglio con gli strumenti che avevo a disposizione in quella determinata situazione. Ho fatto tanto, ho trovato la forza in situazioni difficili. È vero, inutile negarlo, ho perso l’entusiasmo e lo slancio iniziali, quando la realtà si è dimostrata differente rispetto al sogno, quando i giganti del cambiamento si sono rivelati piccoli uomini che guardavano esclusivamente al proprio giardino. I dadi mi fanno tornare indietro per andare avanti. Perdere sarà vincere. Non posso fare altro che assecondare il flusso, ripercorrere pazientemente il cammino della spirale. Diversi giri, nessuno uguale all’altro. Ricominciare il gioco.

Sono con Sole, abbiamo attraversato una pioppeta, adesso siamo nei prati dove coltivano fieno. Non quest’anno, non ancora. Lei corre scodinzolando. Non prego e non vado a messa, ma ringrazio Dio ogni giorno per Sole. L’unico essere in grado di riconciliarmi con la vita. Sole non concepisce nulla che sia fuori dal momento presente: ora si mangia, ora si esce, ora si riposa, ora si gioca, con un legnetto con una lucertoluzza, vanno bene entrambi. Tutto si svolge qui. 

E io da qui ricomincio, riscoprendo la gioia di assaporare le cose antiche, consuete, che mi piacciono. Prepararmi una tazza di caffè fumante, praticare yoga al buio mentre gli altri dormono. Uscire con Sole.

Mai avrei creduto nella vita di poter imparare così tanto da un cane. Mi ha insegnato la gioia ad esempio. L’umanità. E quando penso che potrebbe venire a mancare, che verrà a mancare, mi sento morire anch’io. E mi sento anche un po’ in colpa perché commetto l’ennesimo errore. La guardo e lei mi dice con gli occhi che è qui e vuole vivere il presente ed io stupida umana penso al futuro e sono triste per una cosa che ancora non è avvenuta, allora le sorrido e gioco con lei. E andiamo ai laghetti, nel bosco, al parco. E a volte penso che la vita sia così: passare il tempo con gioia, e poi finisce e continua nello stesso modo per altri: animali, esseri umani, piante. Così da miliardi di anni. Non so se qualcuno l’ha voluto, se c’è ordine in questo caos, so che oggi sono nel campo con Sole, l’aria accarezza la mia pelle e non importa dove andremo, l’importante è che saremo insieme. 

Senza compiere alcuno sforzo. La primavera arriva da sé, senza far nulla.

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3 commenti »

  1. Mamma mia, che stanchezza!
    Su, dai, rilassiamoci e accarezziamo il Sole!

  2. Racconto molto bello, specialmente il pezzo finale che stacca e si contrappone in modo forte a tutto ciò che lo precede. Complimenti!

  3. Grazie ?

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