Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “(Sub)Urban (Love)Story: {[CHI(USURA)]?}” di Feliciana Chiaradia

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

(Non) siamo arrivati alla fine di questa avventura perché alla fin fine vera, di parentesi ne restano che poche, sopraffatte dalla sintassi lineare, che, per essere nata come invenzione, è diventata una convenzione, convinzione all’occasione.

La verità è che J. non si chiama J. e non vive a Verona ma ha vissuto (non troppo) vicino al caffè Pedrocchi mentre il bar più vicino a casa mia era una pasticceria siciliana. Poi io a Bologna, lui sempre dove l’avevo lasciato. Quando poi sono andata a Barcellona, l’ho saputo in giro per il in Brasile. Io in Germania, lui nei pressi di Santiago. Infine io a Parigi. E lui era rientrato in italia.

Per quanto mi riguarda, negli anni che seguono J., ho chiuso e aperto parentesi quadre e graffe. La tonda – che è quella che ha la precedenza su tutte – la prima da risolvere, la più importante, quella che c’è sempre- “guardate se ci sono parentesi tonde prima”, ci metteva in guardia la professoressa di matematica del liceo-, ha proseguito negli anni con all’interno l’incognita x che si elevava a potenza n ogni volta che le parentesi di una vita si chiudevano: tra y e z, la tonda, con il termine incognito x, restava.

In verità avrei voluto essere una xy con lui. Non sono Will Hunting, non sono riuscita mai a soluzionare il problema e forse per questo risultava difficile ridurmi in parentesi quadre e graffe. Il problema J. è diventato difficile da risolvere per una con un B.A.; come le equazioni di terzo grado elevate a potenza, poiché il termine “qualsiasi”, se ci fosse stato lui, non sarebbe esistito. Non mi sarei accontentata di alcuna soluzione anche prossima a quella reale. Ma anche i numeri reali sono (ir)razionali.

Poi parlano di te come una “minestra riscaldata” …

(Continuo a chiedermi se ti si possa veramente definire una “minestra riscaldata” se nel piatto non c’è mai stata una minestra e come sia possibile che nel mio ci fosse, e, alla fine, non sia neanche riuscita a digerirla. L’ultima volta era la prima volta che stavo per riuscire a buttar via la tua minestra ma alla fin fine non ce l’ho fatta. Qualcosa si è mosso e ho cominciato a paragonare la minestra passata con quella prêt-à-manger che avevo deciso di non assaggiare avendo, però, già deciso a priori di renderla immangiabile).

…e delle parentesi come impedimento all’ (in)comprensione.

Allora le tolgo (quasi) tutte.

Dopo “La mia piccola rivoluzione”, i titoli dei Sikitikis sono cambiati. Un breve stacco del 2017 quando fanno uscire due album, per poi scomparire. Il primo si chiama “Le belle cose” e l’altro “Abbiamo perso”. “Le belle cose” l’avevamo ascoltato quando c’eri pure tu, “Abbiamo perso” (l’)ascoltiamo “Soli”.

Abbiamo perso la guerra che avevamo vinto per i “Lo Stato Sociale”, nella tua auto che prendevamo per andare a vedere il mare dalla montagna di Broglio e ci sembrava la Route 66, dove mi facevi chiudere gli occhi e ci baciavamo come due cretini. “Abbiamo vinto la guerra, che neanche ce n’eravamo accorti” ma invece l’abbiamo persa perché dopo anni sono qui a scrivere un libro a quattro mani con te che non ci sei più. Ho cambiato 7 città e 4 stati per dimenticarti ma non ci riesco neanche così. Penso spesso a quella volta che ci siamo incontrati a Bologna e c’era Clavio vestito da Capitan America e mi avevi detto che piaceva anche a te quando eri bambino. Alloggiavo in un hotel della stazione, (non) ero venuta all’Alma Orienta. Anche se avevo partecipato -ed incontrato Giancarlo che diventerà un personaggio chiave della mia vita universitaria bolognese ed emblematico nel capire che la pasta insipida piace solo a me ed è meglio non offrirla all’ospite che inviti per cena-, ero venuta soprattutto per vedere te. Non sapendo cosa portare, avevo pensato a del pane che mi avevi raccontato di aver diviso in due e che una metà l’avevi congelata. Il bagnoschiuma alle more. Un’agenda vecchia a cui avevo raccontato di te. Per dartele e salire in camera abbiamo dovuto lasciare alla reception la tua carta d’identità. Era una delle prime volte che uscivo di casa da sola e mi sentivo in imbarazzo. Allora avevamo inventato che eri mio cugino. E quando dopo ero venuta nel tuo appartamento da studente, ti avevo anche scritto qualche parola su un quaderno che avevi ritrovato la settimana successiva. Letto e sorriso.

Poi boh.

La tua incognita ha cominciato ad elevarsi ad esponenti per me (s)conosciuti e le parentesi non sono servite più a nulla. Senza (mezzi)termini noti.

Ti ho scritto una decina di lettere. Te ne ho inviate alcune. Due volte mi hai risposto a tuo modo. Poi, una mattina, ho preso il primo treno e sono venuta a dirti niente, ti ho scritto un messaggio e tu mi aspettavi mentre io non me lo aspettavo. Sei arrivato e abbiamo mangiato la porchetta accompagnata da uno/una spritz. Abbiamo preso il sole. Mangiato la pasta con tonno e zucchine che è anche il tuo gusto di pizza preferita. Mi hai riaccompagnata alla stazione e, quando già eravamo fuori (tempo), mi avevi confessato quanto fosse difficile per te vedere qualcuno andar via che vorresti restasse di più. Non so se avremmo avuto ancora molto da dirci. So per certo che ne avremmo.ora.

Non mi piacciono più le storie con un lieto fine. Allora ti do il nome di J. e mi (ri)prendo quello che (non) mi hai dato. Ti faccio vivere a Verona anche se non c’è Kenny Random e la caccia al tesoro “The Gift” che organizzano con le biciclette, poco prima di Natale, onestamente non so se ogni anno, ma sicuramente nel 2013. Ti porto con me in ogni storia a malincuore perché non so se tu ci pensi mai ma ne dubito, se ti ricordi. Una volta c’ero quasi riuscita a fare come quello di “Se mi lasci ti cancello” ma poi, verso la fine, mi sono resa conto di non avere alcun potere decisivo con le parentesi.

Mi dicono che “la minestra scaldata” non sia il massimo. Lo dicono proprio a me che odio il forno a microonde. La storia sarebbe dovuta finire con il (ri)trovarci al matrimonio dei due amici in comune che ci hanno fatto (r)incontrare in un bar, quel Natale. Ma quando sono tornata a casa da Parigi l’ho visto per la prima volta in compagnia di un’altra ragazza. Lei me lo aveva già accennato. Lo sapevo da un po’ di tempo ma tu lo sai che (se non vedo) non credo. Anche se fa un pò troppo “Bianca” di Moretti, era già successo con altri due nostri amici. Prima noi, poi loro, poi gli altri.

Dicono che tu sia potenzialmente felice.

Tediato, testardo, provocatore come al solito, di quando alla mia migliore amica chiedevi a sfottò di lavare i piatti per ripagare l’ospitalità del tuo migliore amico il quasi giorno del mio compleanno di qualche anno fa. Ed ascoltare “All I need”, questa volta live.

Abbiamo perso la guerra perché quando avremmo potuto vincerla ci hanno mandati in missione come in “1917” e tu sei quello che è sopravvissuto. Io sono rimasta sotto l’albero di melo, come una pera cotta. E quando finalmente ho ricominciato a camminare, sulla strada del (non) ritorno, ho incontrato tanta gente, migliore e peggiore di te.

(Non) ho fatto tesoro di tutte le volte che mi hai ignorata, insultata mai, ma paradossalmente lo avrei preferito perché mi sarei sentita meno stupida, inutile, meno sola con te. Nonostante ciò preferisco finire la prima parte de la storia-che-scrivo-a-quattro-mani-senza-di-te con un’ultima conversazione (bella). Libera da parentesi e (pre)giudizi. Perché alla fine si sa, quello che resta è una pillola amara tra solitudine e tristezza che, anche se ci farà sentire meglio a modo nostro, sarà soltanto per via dell’effetto-placebo.

(Tra)scrivo questa storia che, come legge del contrappasso, renderà eterno ciò che a me sembra (im)possibile, per te effimero. Ci do la “seconda possibilità” che la vita non ci da(rà).

È per questo che (ti) scrivo. Perché quello che (non) siamo è troppo bello per finire nel dimenticatoio, nel serbatoio per farsi gas, nei bidoni della differenziata che, come il treno alta velocità, quando noi c’eravamo, non c’era. Faccio un lavoro su di me con te. Per ricondurti ad un’equazione di primo grado, risolverti, dissolverti ma appunto passaggio per passaggio il procedimento che mi ha portato alla soluzione. In modo da non dimenticar(lo).

{La ragione [non sei più (tu)]}

F: Caro John, ti scrivo qui perché gioca la juve e forse sarai da tuo fratello e non mi va di disturbarti. Mi puoi leggere quando vuoi, o mai. Sono a letto, ho di nuovo la febbre. L’ultima volta che l’avevo mi sono addormentata sentendoti vicino a me, che mi abbracciavi da dietro e ti stringevo le mani. Tra qualche giorno partirò e chissà cosa la vita mi riserverà. Oggi pensavo a cosa mettere in valigia e mi è capitato di riprovare il vestito bianco e nero con le forme organizzate stile Mirò. Ricordi? Era il 21 di dicembre. Abbiamo chiuso gli occhi per essere davanti al Taj Mahal. Non freno le emozioni, non lo so fare, non l’ho mai fatto e spavento chi mi è accanto. Mi manchi. Non lo dico spesso. Mi darebbe piaciuto scriverti semplicemente “Mi manchi. Punto.” Ma la concinnitas e la brevitas non sono mai stati il mio forte. Abbiamo i chilometri contro e non puoi leggere che io anche il “mi manchi” l’ho scritto dappertutto. Sugli alberi, nel cielo, sulle macchine, sui gatti che dormono sotto le macchine, tra le stelle e sulle pareti, sulle braccia e negli occhi, sulle persiane abbassate e sui vetri. Nel riflesso degli specchi e sull’albero di Natale che mia madre non ha mai disfatto da quando la nonna è stata ricoverata. È lì, in soggiorno, quasi senza addobbi a ricordarmi che il Natale è passato, ma il ricordo è vivo, le luci sono spente, ma non nel cuore e negli occhi. Fosse stato vero sarebbe appassito, ma è finto e resta sempreverde. Resta sempre uguale, cambiano le stagioni, si chiudono le luci, si accendono, si tolgono e mettono addobbi, si monta, si smonta, si fa a pezzi, e poi si rimonta rimettendo i rami corrispondenti nelle lettere corrispondenti. E l’albero ci ricorda che è Natale o che Natale è passato. Ma è Natale ogni giorno se ci sei tu che prendi un 29 ad un esame in cui il massimo voto era stato 28. Mi manchi. Come dici tu, non c’è bisogno di risposte. Avevo voglia di dirti queste cose perché le sento. Forte. Buonanotte.

Una notte passata tra le novità di FilmIn in cui incappo nel secondo lungometraggio di Valerio Mieli appena caricato. Titolo? “Ricordi?”.

La mattina dopo mi sono svegliata ed era ufficiale. Mi era chiaro che la nostra equazione non ammettesse soluzione.

Siamo monomi.

Parentesi tonde (di)funzionali a sé stesse.

Lo elevo a teorema, forse anche a postulato.

Sembra paradossale ma siamo stati anche

sistema,

modello,

binomio,

xy

ma anche

x

e

y

(Non) Ricordi?

Un’altra notte è il turno della nostra prima canzone che una volta ho fatto ascoltare ad un’altra persona mentre attraversavamo Villa Borghese, alle tre di notte, ma non l’ha capita. Me ne sono subito pentita.

Non eri tu. Non ero (più) io. Non era più “Tonight, tonight”.

The more you change the less you feel

Believe, believe in me, believe

Tonight

Siamo grunge del nostro tempo che non è mai tempo. E anche se il sound era orchestrale resterà per sempre la notte. Il giorno arriverà e l’album continuerà a chiamarsi “Mellon Collie and the Infinite Sadness”. Uno dei capolavori rock dei novanta. “XY and the Infinite Sadness” ricalcherà le orme della traccia madre dopo venticinque anni. Un’agenda 2030 per lo sviluppo (in)sostenibile.

{[CHI(USURA)]?}

Niente, resteremo una storia (d’amore) (sub)urbana, di quelle con le metro che prendiamo in direzioni opposte, con i treni in ritardo e gli aerei persi perché non troviamo l’imbarco giusto. Sui traghetti abbiamo il mal di mare, non li prendiamo. Perché in fondo io sono Parigi, tu Lione. Tu preferisci l’oriente andaluso, io il gotico catalano.

Non avremmo mai potuto trovare un compromesso al di fuori della promessa:

Believe in me as I believe in you

Stanotte.

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2 commenti »

  1. Bombaaaa!!!!
    L’ho letto mentre ascoltavo la techno e ti dirò: tutto giusto.
    Forse nel finale ero un po’ triste anche perché avevi smesso di inventarti i verbi.
    <3

  2. Un racconto un po’ ingarbugliato ma molto bello, da cui trasuda molto sentimento, tanta nostalgia, hai usato uno stile davvero molto particolare. Complimenti!

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