Premio Racconti nella Rete 2023 “Bebo” di Tommaso Beccarini
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Morto Bebo, Jessie smise di parlarmi.
Bebo era il nostro cane – o meglio, il suo cane. Non che io provassi meno affetto e non che l’affetto si possa misurare, ma fu lei ad acquistarlo in un allevamento di bull-terrier in campagna come si faceva ai vecchi tempi. Era del tipo piccolo, detto miniatura, che all’atto pratico è un nano e io lo amavo proprio in quanto nano, privo di chance di sopravvivenza in qualsiasi teatro di competizione naturale, figuriamoci contro un Pokémon.
Era affettuoso e buffo, un impasto di frolla e peti. Quel cane faceva ridere. La sua genetica balzana si traduceva in un muso oblungo, nel nasone a forma di cuore e in una rigidità articolare che conferiva alla sua corsa slancio da lepre piombata, le zampe posteriori gravate dall’incarico di propellere il botolo.
Quel giorno tornai verso ora di pranzo in un’assolata giornata primaverile. Il profumo della brace mi accolse, forse i vicini grigliavano o forse il loro mostro incandescente aveva preso un’altra pantegana. No. Aveva preso Bebo.
Lo trovai in giardino, carbonizzato.
Gambe all’aria nella posa che aveva di solito nella cuccia. Dalle orbite fumanti colavano gli occhi.
Restai immobile.
Mi riscosse il vicino.
Si scusò moltissimo, sua moglie avrebbe dovuto tenerlo nella sfera, frignava. Mi portò da bere e confermò che la sua assicurazione avrebbe coperto il danno in maniera più che congrua, sbrigò la pratica e mi lasciò ciondolare verso casa.
Respiravo dalla bocca. Pensavo a come fosse lucido il pavimento. Mi ci potevo specchiare. Listelli incastravano listelli formando tessiture spigate ripetute uniformemente nell’onda rigida che si svolgeva sotto i miei piedi, interrotta soltanto dal riflesso di un babbeo. Me.
Dovevo riprendermi, rendermi utile.
Jessie arrivò insieme all’azienda urbana per lo smaltimento dei rifiuti a cui consegnai il cadaverino imbustato. Poteva uscirmi una parola gentile, compassionevole, affranta, una cosa normale, invece dissi: «Le passeggiate alla sera tardi sono finite.»
Jessie alzò gli occhi dalla sagoma annerita impressa sulle piastrelle.
Mi fissò a lungo.
Entrò in casa.
Le andai dietro seguito dallo scalpiccio di suole invischiate nella carne sciolta. Raspai lo zerbino per non imbrattare il parquet.
–
Col lutto me la cavavo, la vita proseguiva e io mi ero prescritto una terapia a base di videogiochi. Aggredivo gli stick quando Jessie sbatté la porta d’ingresso carica di sacchi della spesa. Organizzava le scansie libere della credenza. Aveva gettato ogni scatola di cibo per cani, ogni giocattolo mangiucchiato e tutte le cucce, stuoie, ciotole erano scomparse, una presenza festosa cancellata per non incappare in memorie scomode, tipo buttare il cerotto del pollice che ti sei affettato con le zucchine. Sul momento mi parve una risposta razionale e certo un migliore utilizzo dello spazio; se credevo di gestire abilmente le emozioni Jessie si dimostrava più organizzata. Era il caso di sfaccendare, conclusi. Lei riempiva la dispensa e io pensai al freezer, che di norma è il primo di cui occuparsi. Una volta finito la raggiunsi ai fornelli, ma lei mi scansò.
Dal ragù di carne una nota rosolata insidiava la gola, o forse non avevo fame. Alla prima forchettata un fiotto acido salì la gola.
Guardai Jessie, una maschera spenta che fissava il vuoto.
Masticai due, tre, quarantasette volte. Deglutii solo grazie al bicchier d’acqua.
«Il risarcimento potrebbe farci comodo», dissi. Ragionavo a voce alta, finto distratto.
Jessie arrotolò l’ultima tagliatella, la ficcò in bocca e si alzò da tavola.
Rimasi per qualche minuto davanti alla pastasciutta prima di rovesciarla nell’umido e cogliere un forte odore, ma il sacchetto era nuovo. A emanare quel tanfo poteva essere il mio cervello avariato, non i pezzi di Bebo incastrati nella gomma tassellata della suola.
Sparecchiai.
Per ritrovare la mia Jessie dovevo escogitare il riavvicinamento con ambizione e con cautela: la vedevo imbacuccata con me, sotto il piumone, si lasciava stringere, accarezzare e singhiozzava incontrollata sul cuscino. Avrei cambiato io le federe.
Il primo compito era profumare camera con l’incenso al sandalo, disporre i boccioli e lanciare la meta shock per il weekend. Salii le scale.
Jessie, puntellata alla finestra coi pugni, digrignava. Sorvegliava il giardino che aveva cosparso di inutili esche velenose.
Da sotto il Salazzle trangugiava i bocconi di pollo impanati nella stricnina e ruttava nuvole viola a forma di teschi. I vapori chimici esalati dal mostro fluttuavano in cielo e sfumavano in volute tese nella direzione del vento, ghigni rivolti al tentativo d’intossicazione. Giunse un gorgoglìo, poi delle scintille e la coda triforcuta sibilò oltre la siepe.
Di soppiatto allacciai Jesse con due mazzi di fiori. Da un lato strabordava la composizione di Interflora e dall’altro, piegate dalla vergogna, le margherite del parchetto.
«Meritiamo una pausa.», parlavo con la voce più bassa e calda possibile. «Una vacanza!»
Speravo in una esplosione euforica di possibili mete che non arrivò mai.
«Se ti proponessi due settimane di totale relax maldiviano?»
Nessuna risposta.
Rilanciai: «Sud America itinerante!»
Jessie si divincolò e corse via.
Non reagiva alla grande insomma.
Volendo trovare il lato positivo stavolta mi dimostravo solido, razionale, organizzato. Reagivo e avevo cura della mia donna. O almeno ci provavo.
Deposi i bouquet sul comò, esalavano fragranze che dal naso passavano a strangolare la bocca dello stomaco.
–
Cercai Jesse in casa, in garage, in soffitta, poi mi tuffai sul divano. Rincasò mentre davo battaglia dal televisore. Non si fermò a salutare, né ad abbracciarmi, scomparve subito; servì più di un attimo per lasciare il controller. La raggiunsi in corridoio che svuotava gli armadi e stipava i trolley di pigiami, caricabatterie, creme corpo, cumuli di biancheria, fermacapelli a forma di paguro, maglie, accappatoi e tutti gli orecchini che non le avevo regalato io.
«Te ne stai andando…» farfugliai.
Con un grido Jessie scaraventò la scatola degli scarponi da trekking al pian terreno.
«Non fare così… Adesso vado a prendere otto chili di stracciatella, e di pistacchio, così ci sentiamo meglio.» dissi. Giocavo con le dita, nervoso, scrocchiavo i mignoli coi pollici e li intrecciavo. «Solo vagamente meglio magari, ma almeno un pochino… È l’effetto degli zuccheri, è transitorio, ma funziona per forza!»
Jesse riempiva il borsone da palestra con violenza.
«Facciamo due passi. Schiariamoci le idee. Parliamo…» la mia voce si spense.
Scesi a prendere aria.
Il gelo annientava ogni pietà che potessi provare per me stesso; serrava sulla faccia, e basta.
Sbuffai una boccata che condensò senza delineare un profilo preciso. Spirali grigie, banali, si perdevano nell’oscurità spezzata dai faretti nell’erba. Coprivo la luce con il piede, come quando accompagnavo Jessie a fumare, ma con malinconia, copiavo un rituale dedicato ai momenti felici, piegavo il riverbero sulla punta delle ciabatte e osservavo la rugiada impregnarmi calze. Spinsi il tallone sul faro smorzando il bagliore e urtai qualcosa.
Una zampa artigliata, bianchissima.
Dai cespugli sbucava quella caricatura di rettile sputafiamme, congelata. Il coccoloso coccodrillo del vicino, adorabile per design, era cristallizzato. Le iridi fissavano la bombola di azoto liquido collegata all’esca serrata nelle sue mandibole.
Jessie venne in giardino, da me.
«Sei immune al veleno, vero cucciolo?», Jessie si rivolgeva al Pokémon, che anche in condizioni normali poteva al massimo cinguettare il proprio nome con la vocina rauca.
«Ma come i tuoi simili di Tipo Fuoco sei vulnerabile al freddo…» aggiunse.
«Che peccato.» tirò un calcio alla bestiola cristallizzata.
Poi un altro.
La coda irrigidita si spezzò con un crack, roteò in aria stillando una scia di sangue dai tessuti mutilati. Pulsavano ancora.
Allora c’era battito! Poteva ancora salvarsi!
Jessie lo decapitò a pedate.
Corsi dentro in preda ai conati.
Vedevo il mio fido compagno Bebo inseguirmi per avergli rubato il pupazzo; i balzelli che faceva, spensierato; il suo nasone. Lo vedevo squagliarsi. Vedevo le Pokéball dilaniate a morsi mentre noi, per scherzo, provavamo a spingerlo dentro, capitava quando non avevamo voglia di portarlo a spasso per i suoi bisogni, ma alla fine si andava comunque. Mi mancava il suo alito fetido. Il borbottio incerto e pauroso quando sentiva rumori da fuori e le corse pazze tra le gambe per tuffarsi nei cumuli di foglie e la foga quando preparavamo le pappe, la sua danza maniaca col muso all’insù per gustarne gli odori. Il gorgoglìo sgraziato quando beveva dalla ciotola e innaffiava dappertutto. Le pozzanghere sul tappeto. Le asciugavo sempre volentieri.
Immagini, sensazioni, precipitavano su di me, inerti. Non sapevo reagire alle memorie felici su cui si depositavano quelle recenti, e brutte.
Jessie mi avvolse.
Singhiozzavo incontrollato su di lei.