Premio Racconti nella Rete 2023 “Disamparados” di Marta Grima
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023I suoni non si vedono, eppure io me lo sentivo dentro agli occhi tutto quel rumore. Era iniziato all’alba, al porto di Cagliari, mentre osservavo il sole sorgere mangiando un kebab.
Com’è possibile affondare lo sguardo in qualcosa che non esiste? L’orizzonte non possiede forma, non ha consistenza, non può essere misurato perché è privo di dimensioni; è una linea immaginaria percettibile solo con la vista, un’allucinazione; lo puoi fissare, lasciarti inghiottire, ma non c’è.
I suoni, invece, quelli sì che esistono. Li percepiamo con l’udito, sappiamo da dove provengono, tocchiamo con mano gli effetti che producono; in qualche modo li vediamo anche, li afferriamo con le iridi.
Me ne sono accorta lì, al porto di Cagliari, quando, attirata dalla musica, ho buttato in un cestino la carta unta con i resti del kebab e ho girato l’angolo, al riparo dalle barche, nascosta dal mare.
Un uomo al bandoneón improvvisava sulle note di “Libertango”, circondato da marinai ubriachi e prostitute sfinite dalla notte, sostenuto dal tamburello di una vecchia sdentata con i capelli grigi, stopposi, e l’espressione gelida come i rimasugli di carne che avevo appena gettato nell’immondizia.
Due danzatori si dimenavano, si strofinavano i nervi al ritmo del tango: lei con un vestito rosso fuoco, logoro, i tacchi consumati; lui con un pantalone nero e una camicia bianca, sudata, incollata ai peli del corpo.
Un pescatore con la schiena appoggiata al muro stringeva tra le mani i capelli biondi, stinti, di una entraîneuse di mezza età, inginocchiata a procurargli piacere con il collo teso, le palpebre abbassate, il rimmel ridotto a una polvere sottile, il rossetto sbavato.
A pochi metri, un giovane sbarbato crollava a terra per il vino in eccesso, affogava nel putridume di cui si era appena svuotato.
La melodia, i passi sull’asfalto umido di birra, i gemiti degli uomini, le urla delle donne, le risate dei passanti, i conati di vomito, le lingue esauste dalla nottata di lavoro, le boccate di fumo: tutto faceva rumore, persino le gocce di sudore che scorrevano lungo gli zigomi dei ballerini.
Un rumore che mi opprimeva la fronte, pulsava nelle tempie scariche di sonno, rimbombava nel cranio stanco, sciabordava nelle orecchie, annebbiava la vista.
Lo stordimento mi stava inducendo la nausea, sbandavo; dovevo allontanarmi dalla degenerazione del porto d’estate con gli zingari a caccia di denaro e i carretti ricolmi di noccioline stantie.
Sono entrata nel primo supermercato che ho incontrato. Non sopportavo la luce del sole filtrata dalle nuvole, mi accecava insieme al frastuono; preferivo i neon artificiali, costellati di moscerini, del minimarket aperto 24 ore su 24.
Ho tirato giù dagli scaffali una bottiglia da mezzo litro di latte freddo e una scatola di biscotti al cioccolato. Il frastornamento mi scaraventava a destra e sinistra, mi ostacolava nella mia traversata verso la fila per pagare; intorno a me voci indistinte.
La cassiera si muoveva a scatti, con cenni convulsi, che io seguivo con le pupille impazzite. Sul cartellino agganciato alla divisa c’era il suo nome, Angela. Comunicazione interna, Matteo atteso in cassa, grazie, ha esclamato al microfono.
Le unghie rosa pastello hanno acciuffato un pacco di assorbenti, si sono poggiate su una bottiglia di vodka, tamburellavano sul nastro nero in attesa del totale. Dieci e cinquanta. La cassa si è aperta con uno scampanellio di spicci, un fruscio di banconote, e si è richiusa con un tonfo.
Ancora casino, parole, fastidio. Il sudore mi colava giù per la schiena, la maglia mi si era attaccata addosso, a fatica mi reggevo in piedi. Sbattevo le palpebre con violenza sperando di rinsavire, ma continuavo a vedere una realtà macchiata di nero.
Toccava a me. Dovevo individuare un punto fermo e ho scelto lo spazio tra le folte sopracciglia di Angela. Aspettavo ansimando che mi chiedesse la fidelity card. Hai la tessera? No. Tre e trenta. Ho imbustato la spesa, saldato il conto. L’esile figura di Angela scattava a ogni bip; i capelli sobbalzavano, la pelle smorta brillava sotto le luci fredde.
Ho barcollato fino all’uscita, per poi abbandonarmi ai bordi della strada, distrutta dal rumore, satura di suoni fangosi e frastagliati insieme.
Mi sono svegliata che il sole era già alto nel cielo. Nessuno mi aveva prestato aiuto: ero rimasta lì, strisciante come un verme, a dormire con la faccia spiaccicata sul cemento torrido, un rivolo di bava all’angolo della bocca, i capelli sudici della notte in bianco; accanto a me una bottiglia di latte andato a male nel caldo di agosto.
Ho camminato fino all’isola pedonale, sporca, polverosa, con l’alito di pasta frolla sbriciolata e caglio scaduto. Stavo comprando una bottiglietta d’acqua a un distributore con un gran fracasso di monete quando ho riconosciuto quella canzone.
Il complesso bandistico di Cagliari sfilava maestoso lungo la via principale, preceduto dalle majorettes; intonava una versione solenne de “La banda” di Mina, con tromboni, flauti, clarinetti, tamburi, grancasse, piatti.
Ho bevuto l’acqua tutta d’un fiato nel tentativo di sovrastare il pandemonio causato dalla parata, ma il glu glu dei miei sorsi era troppo debole; il liquido scivolava gracile, svogliato, sprovvisto della sua forza motrice.
Le majorettes marciavano all’unisono, facevano roteare il bastone con gesti abili e veloci; lo usavano per menare i sampietrini, accompagnare il tramestio provocato dagli stivaletti di vernice bianca con le stringhe dorate e i tacchetti bassi.
La mazziera batteva il tempo con il fischietto, disegnava movimenti ampi con le braccia, univa i palmi delle mani con colpi secchi, incitava la folla, teneva alta l’attenzione in un tripudio di fiati e percussioni.
La piuma gialla mormorava sul cappello blu; la fascia intorno al mento sfregava la cute delicata del viso, la bruciava; la camicia con le rifiniture paglierine era abbottonata fino al collo, ostruiva il flusso sanguigno; dal gilet color argento spuntava una cravatta cobalto, annodata a regola d’arte; la gonna a pieghe gialle e blu ondeggiava sulle cosce.
La capitana insisteva indifferente al mio dolore, seguita dai musicisti con i pantaloni neri e le giacche rosse, intenti a soffiare negli ottoni, strombazzare, picchiare sulle pelli di capra, fracassare i timpani, spaccare i piatti: una scena sfocata, obnubilata dal clangore.
Nel vano tentativo di sfuggire a quel girone infernale, mi sono trascinata in una delle vie laterali e mi sono accasciata al suolo con la testa appoggiata a un vecchio pozzo abbandonato. Osservavo distratta i mattoni rossi dell’edificio davanti, sonnecchiavo con la banda in sottofondo, la mazziera che ululava nel suo pezzo di metallo.
Mi sono ridestata nel mezzo di una gara di macchine telecomandate, con piccoli bolidi che mi sfrecciavano intorno, assordandomi, pungendomi sulla carne viva. Sono strisciata fuori dal vicolo facendo lo slalom tra le auto, trasalendo a ogni brum, con il volto piegato in una smorfia di pianto.
Pochi metri più in là c’erano i proprietari dei modellini in corsa, esagitati, pazzi; schiamazzavano saltellando da un lato all’altro del marciapiede, sventolando il joystick a mo’ di bandiera. Chi sei tu, mi ha chiesto uno. Che ci fai a terra, ha domandato un altro.
Respiravo cemento e polvere, tenevo gli occhi chiusi per impedire al rumore di entrarmi negli occhi, serravo la mascella per cacciare lo strepito che già mi si era insinuato dentro.
Mi sono alzata, ho aggiustato la maglia, sputato via lo sporco dalla lingua, e mi sono avviata verso un parcheggio che intravedevo in lontananza. Questa sembra matta, ha urlato uno dei giovani.
Le macchine mi correvano ancora nel cervello, confondendosi con la sirena di un’ambulanza che stava per uccidermi; mi attraversavano da una parte all’altra, stridendo, cigolando.
Ho raggiunto uno spiazzo ampio, pieno di automobili roventi, dorate per il riverbero del sole, così brillanti da risultare affilate. Le cicale frinivano sugli alberi, l’asfalto bruciava, assorbiva il caldo muovendo le labbra come se dovesse aspirare il fumo da una sigaretta.
Mi sono sdraiata sulla vernice gialla di un posteggio riservato ai disabili, ho sperato che si sciogliesse e mi ricoprisse da cima a fondo, gravandomi sopra con tutto il suo peso, fino ad assottigliarmi, appiattirmi, ridurmi a una superficie per i turisti in cerca di un posto dove lasciare la macchina.
Si tiri su, ha ordinato una voce. Ho socchiuso le palpebre: una divisa e un cappello bianco mi sovrastavano. Vorrei rimanere qui, ho ribattuto. No, si alzi prima che la afferri con la forza. Mi sono sollevata sui gomiti; i capelli unti mi penzolavano sul viso.
Un tempo mi sarei preoccupata della putredine su cui ero appollaiata, ma non lì, non in quel momento. Ero lercia e la vera assurdità era che desideravo diventarlo ancora di più, sordida anche nel midollo, nella cartilagine. Ho pensato a me stessa con un moto di orrore e paura quando ho avvertito l’istinto incontrollabile di leccare il brecciolino su cui erano poggiati i miei polpacci.
Sorridevo alle guardie senza decidermi a rimettermi in piedi. Volevo che il parcheggio divenisse un unico, immenso, pantano di melma in cui annegare, sguazzare incurante della sozzura, del bollore provocato dalla temperatura cocente.
Alla fine mi sono incamminata in direzione di un punto in cui il sole batteva con maggior ardore. A mano a mano che mi avvicinavo, udivo dei piccoli colpi, una specie di ticchettio, ma diradato nel tempo e dilazionato nello spazio, rallentato, ragionato: ero a un circolo tennis.
La pallina rimbalzava sulla terra rossa, centrava il piatto della racchetta e raggiungeva l’altro giocatore oltre la rete. A ogni impatto espiravo e stropicciavo l’arcata sopraccigliare; pareva che tanti minuscoli spilli mi penetrassero il cuoio capelluto.
Servizio, dritto, rovescio, ancora rovescio, volée di dritto, smash, punto. La coppia accanto a me è esplosa in un boato. Sì, forza, urlava lui applaudendo. Evviva, gridava lei sbatacchiando una carrozzina avanti e indietro.
Il neonato, vittima del frastuono, piangeva disperato. La madre lo scuoteva per farlo smettere. Dai, fai il buono, gli sussurrava. Ma lui non voleva saperne. Schianti di palline su corde tese, mani levate in aria, latrati di famiglie in festa per il torneo dei figli: intorno a me si consumava uno strazio e io non riuscivo a fermarlo.
Mi sono aggrappata alla rete che separava gli spalti dal campo, ho incastrato il naso e la bocca fra gli intrecci metallici; puntavo ad arroventarmi per non sentire più nulla, ad anestetizzarmi con il fil di ferro infuocato.
Sicurezza, ha tuonato la donna con il poppante. Ho avvertito due dita sulla spalla destra, mi sono voltata. Davanti a me si ergeva un uomo nerboruto, pelato, vestito di nero, con occhiali da sole blu elettrico. Chi è lei, mi ha chiesto concentrandosi sul mio prolabio. Mi sono toccata la faccia per verificare se ci fosse qualcosa di strano, poi mi sono ricordata del metallo incandescente e ho capito di essermi ustionata. L’uomo guardava la sottile striscia rossa che mi solcava la pelle, aspettava un mio cenno.
Non posso guardare la partita, ho domandato. Mi ha squadrata dall’alto in basso. Vive per strada? Ai bordi, per la precisione. È ridotta male. Lo so, è stata una giornata difficile. Sono solo le due del pomeriggio. Già, non è una tragedia che le ore passino così lentamente? Se ne vada, la sua presenza non è gradita qui.
Ho alzato le mani in segno di resa e sono tornata nel parcheggio. Una docile rassegnazione aveva sostituito l’agitazione della mattina; accetta e sopporta il rumore, mi dicevo. Se non potevo contrastarlo, tanto valeva abbandonarmici, come quando sprofondi sul sedile di un treno noncurante di dove stai andando né del perché ti trovi nello scompartimento di un Intercity.
Non avevo più le vertigini; d’improvviso la mia postura era divenuta dritta mi muovevo con vigore, ma necessitavo della vista del mare. Ho imboccato una stradina sterrata da cui si intravedeva l’orizzonte, un miraggio in mezzo al chiasso.
Ehi, dove vai? Era la voce rauca di un vecchio. Mi guardavo intorno, non c’era nessuno. Sto dicendo a te, ha continuato l’anziano misterioso. Ti devi spostare, ha sbottato una signora parandomisi davanti con le mani sui fianchi prosperosi, protetta da un grembiule da cucina e un paio di zoccoli di legno. Non vedi che stanno giocando a bocce? Ha indicato delle sfere rosso bordeaux accanto al mio piede sinistro.
Il suo timbro era stridulo, reso ancora più petulante dall’accento sardo. Mi sono sgranchita il collo e ho fatto per allontanarmi, ma se c’è un’altra cosa che ho imparato nella follia di quel giorno, è che non ci si può sottrarre al rumore, un animale che insegue e dilania la preda fino a stritolarla, distruggerla armato di decibel.
Non chiedi scusa, ha incalzato la voce roca dalla provenienza ignota. Scusate, ho ammesso. Una boccia mi ha colpito la caviglia sinistra con un tonfo e uno scricchiolio del malleolo, scagliata dall’uomo invisibile, che ora si mostrava nella sua brutalità: rideva sguaiato con la camicia a maniche corte aperta sul ventre gonfio di vino, scopriva i denti d’oro, fendeva l’aria con la barba incolta.
Ho afferrato la boccia che mi aveva urtata, gliel’ho lanciata contro buttando fuori dagli occhi e dalla bocca tutto il fracasso che avevo ingerito nelle ore precedenti.
La bestia è stramazzata a terra con un clangore indistinto. La donna gli si è avventata addosso abbaiando come una cagna, gli ha stretto la testa tra le braccia e ha cominciato a lagnarsi con i suoni gutturali delle vedove in lutto.
Sono scappata prima dell’avvento dei vicini con il piede dolorante e mille coltelli nel cranio, in fuga dal cadavere, dagli strilli ferini che mi perseguitavano. Sapevo che sarei stata raggiunta dalle sirene della polizia, dai passanti curiosi, dalle ambulanze rivolte a salvare vite, spesso invano. Ma poi esiste salvezza in questo universo?
Procedendo a tentoni, sono tornata al mare, mi sono seduta su uno scoglio e ho cercato rifugio nell’orizzonte di metà pomeriggio, inconsistente, smisurato, informe, ma sempre lì, immobile, rimedio contro la crudeltà.
A differenza di lui, io esisto, però nessuno mi vede; sono un involucro sopraffatto dal fragore, reso cieco dalla furia dei tacchi che battono sull’asfalto, dalle grida delle bestie che chiamiamo persone, dal suono del consumismo, dal tintinnio dei soldi che mangiamo e ributtiamo, dalle feste di paese incuranti della tristezza che attraversano, dalla banda in marcia, dalle majorettes mascherate di felicità, dalle auto in corsa, dai pianti dei neonati già stanchi di vivere.
La prima impressione della mattina era vera: il chiasso ti entra negli occhi, ti acceca, ti toglie la vista, spogliandoti anche dell’umanità. Mi sono riparata nell’orizzonte muto, ultimo spazio concesso ai disamparados in un mondo che mastica, ingoia e risputa, relega ai margini, travolge con il suo clamore, disintegra i vetri delle finestre, spalanca le porte, urla, frantuma l’indulgenza riducendola a un’immagine sbiadita di sé stessa.
Ho aperto gli occhi e ho visto di nuovo i colori nitidi. Nel silenzio siamo umani, esistiamo davvero, sorridiamo beati; nessuno è invisibile: siamo liberi nell’assenza di rumore.
Molto bello, complimenti!
Grazie mille!