Premio Racconti nella Rete 2023 “Una madre, una figlia e un uomo violento” di Stefania Senni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Mia madre stava perdendo gradatamente la memoria. Le era stata diagnosticata la demenza senile. Io mi illudevo di aiutarla portandola nei luoghi dove aveva vissuto, perché le cose e le persone l’aiutassero a mantenere vivo il ricordo. Un giorno con la mia Cinquecento la condussi nel quartiere dove avevamo vissuto per dieci anni. Un quartiere della periferia romana con grandi palazzi costruiti fra gli anni ’60 e ’70. Le strade erano ampie, ma brulicavano di auto in perenne movimento. Quando abitavamo lì, c’erano ancora ampi spazi verdi dove la mamma, in compagnia delle sue amiche e dei rispettivi figli, ci portava quasi tutti i giorni. Ricordo ancora quelle giornate illuminate dal sole, il profumo dell’erba e le magnifiche distese di papaveri rossi dove giocavo felice con i miei due fratelli.
Dopo aver parcheggiato l’auto feci scendere la mamma e insieme ci incamminammo verso la vecchia abitazione. Lei sembrava indifferente a tutto ciò che la circondava . Pensai che anche questo tentativo non sarebbe servito a niente. Arrivate di fronte al portone d’ingresso il suo volto si trasformò. Sembrava la maschera di se stessa : gli occhi spalancati pieni di ira, il volto rosso. Cominciò ad inveire contro di me. “Perché mi hai portato qui? Andiamo via sei pazza?” Capii di avere sbagliato. Avevo pensato che in tutti quegli anni , circa quaranta, avesse rielaborato il dolore e che il tempo avesse rimarginato le ferite. Avevo sperato che potesse riaffiorare in lei il ricordo dei giorni felici, invece il dolore era ancora tutto lì, sul suo volto , nel suo corpo agitato , nella sua voce alterata. Lo riconobbi, perché quel dolore, insieme a lei lo avevo vissuto anche io, una bambina di nove anni, la sua figlia primogenita con cui si confidava e dalla quale cercava conforto. Provai a calmarla , l’abbracciai ma si tranquillizzò soltanto una volta entrate nell’auto. Fu allora che mi disse “Non mi portare mai più lì”. Nei suoi splendidi occhi verdi ancora l’orrore di quello che aveva vissuto in quella casa, la violenza fisica e psicologica. A procurarle tanto dolore era stato suo marito, mio padre che in quel periodo aveva un forte esaurimento nervoso causato dallo stress per gli straordinari notturni a cui si sottoponeva per mantenerci. Eravamo in cinque e la mamma era in attesa del quarto figlio. Mio padre era orgoglioso, non accettava l’aiuto di nessuno, convinto che un vero uomo dovesse essere in grado di mantenere da solo la sua famiglia. Così rifiutava gli aiuti economici che gli offrivano i suoceri e non voleva che la moglie lavorasse. Mia madre era una brava sarta e in molti le avevano offerto lavoro, ma lui le proibiva di accettare. Quando il carico che si era costretto a portare divenne quasi insostenibile, cominciò a bere non solo vino a tavola, ma cognac e liquori vari durante tutto il giorno. Beveva anche sul lavoro, rilegava libri in una tipografia della zona e un paio di volte rischiò il licenziamento.
Era sempre stato geloso della mamma, ma in quel periodo la gelosia divenne ossessiva: la pedinava ed era alla continua ricerca di prove dei suoi presunti tradimenti. Tutti gli uomini che incontrava anche casualmente venivano sospettati, in particolare la sua attenzione cadde su un commercialista che aveva lo studio sul nostro stesso pianerottolo. La porta era accanto alla nostra. Era un bel quarantenne napoletano, dai modi gentili. Si chiamava Mario. Qualche volta aveva suonato per chiedere qualcosa di cui aveva bisogno, perché lo studio coincideva con la sua abitazione e lui viveva lì da solo. I rapporti erano di buon vicinato, niente di più. Un giorno mio padre trovò in casa un foglio con su scritto ‘cuculo’. Ritenne che quella parola fosse stata scritta dal presunto amante per farsi beffa di lui. In realtà ero stata io a scrivere su quel foglietto. Ogni sera scenate di gelosia, discussioni, urla. Quando i miei genitori cenavano io avevo il compito di far addormentare i miei fratelli più piccoli; leggevo loro racconti di avventura, i loro preferiti, Sandokan e Zorro . La casa dove abitavamo era piccola, due camere una cucina e un bagno. Io dormivo nella camera da pranzo, in una poltrona letto di colore bordò, i miei fratelli di due e quattro anni con i miei genitori. Una sera non riuscivo a dormire, mi alzai ed andai in cucina per bere un bicchiere d’acqua, quando sentii la voce rotta dal pianto di mia madre che proveniva dalla camera da letto. Mi avvicinai piano alla porta e accostai l’orecchio. Mio padre le chiedeva con insistenza di confessare e lei ripeteva che non aveva fatto niente, che non lo aveva mai tradito. Non riuscivo a capire tutto quello che dicevano. I singhiozzi di mia madre mi trafiggevano l’anima. Non sapevo se intervenire o no, perché non capivo fino in fondo che stava succedendo in quella stanza. Che cosa stava facendo mio padre a mia madre? Rimasi lì a lungo finché tacquero e tornai nella mia stanza con il cuore in subbuglio. Da quella sera divenni più attenta ai suoni che provenivano dalla camera da letto e spesso mi alzavo con l’idea che la mamma potesse avere bisogno del mio aiuto.
Su richiesta di mia madre, per qualche giorno venne anche la nonna materna che abitava in un paesino vicino Roma. Raccontai alla nonna le vicissitudini notturne e una notte anche lei rimase per qualche minuto con l’orecchio alla porta della camera da letto. In quel periodo mio padre condusse mia madre in chiesa, in presenza del prete, a giurare sul Vangelo, che non lo aveva mai tradito. Immagino l’umiliazione che deve avere vissuto in quella circostanza la mamma. Anche le zie paterne si sentirono in dovere di intervenire perché il fratello tornasse ad essere l’uomo che era una volta. Qualche pomeriggio venivano in visita e si trattenevano un po’ con la mamma che raccontava loro, fra le lacrime, quel che succedeva. Fu in uno di quei pomeriggi che venimmo a sapere che papà frequentava una chiromante che abitava nel palazzo di una delle mie zie. Si faceva leggere le carte e loro temevano che, senza volerlo, avesse alimentato la sua gelosia. Dicevano che sarebbe stato opportuno convincerlo a desistere da quella frequentazione.
Una sera mio padre e mia madre erano in cucina, mentre noi eravamo in camera da pranzo a vedere ‘Carosello’, in televisione. Ad un certo punto cominciammo a sentire che le loro voci si facevano sempre più concitate, poi le urla. Lasciai i miei fratelli e mi avvicinai alla porta della cucina che era chiusa. La porta aveva un vetro smerigliato opaco da cui si intravedevano le loro figure. Avevo il cuore in gola, mia madre chiedeva aiuto. Guardai dal buco della serratura e vidi quello che non avrei mai voluto vedere . Mio padre teneva puntato un grosso coltello da cucina sulla gola di mia madre che stava pulendo del pesce nel lavandino. Spalancai la porta e fuori di me, cominciai ad urlare contro di lui. Il volto di mia madre era terrorizzato, le sue mani sporche del sangue del pesce che stava pulendo. Mio padre sorpreso dal mio ingresso, rimase come paralizzato. Gli urlai che se ne doveva andare. Doveva andare via da casa. Presi quello che mi capitò tra le mani, delle pantofole, dei libri e glieli tirai contro. Lui, in silenzio, uscì dalla cucina e si diresse nel corridoio in direzione della porta di uscita. A quel punto anche i miei fratelli più piccoli si erano uniti a me e piangevano. Mio padre andò via. Mia madre mi abbracciò, mi baciò e mi disse che l’avevo salvata.
Dopo qualche mese nacque mia sorella in una clinica. Noi tre eravamo felici di avere una nuova sorellina , ma rimanemmo per una settimana da soli in casa, perché ci furono problemi prima e dopo il parto e mamma fu costretta al ricovero per tempi più lunghi del previsto. Nonna venne ad aiutarci e papà si sottopose a cure mediche, ma l’eco di quanto era accaduto quella sera era giunto ai condomini del palazzo e alla proprietaria dell’appartamento dove vivevamo in affitto. Di lì a poco ricevemmo la lettera di sfratto per finita locazione. Il contratto era scaduto e la proprietaria non aveva intenzione di rinnovarlo. Dovevamo lasciare la casa. La notizia gettò nella disperazione i miei genitori che si misero alla ricerca di un nuovo appartamento, ma i costi erano elevati. Dove saremmo andati? Immaginavo tutta la mia famiglia accampata sotto un ponte e tutto questo per colpa di mio padre. Un giorno la mamma mi disse che aveva chiesto un appuntamento alla proprietaria dell’appartamento, sperava di riuscire a convincerla a desistere dal suo proposito. Ci vestimmo nel modo più decoroso possibile e ci recammo nel sontuoso palazzo della ricca padrona di casa con il cuore carico di speranza. Ci accolse una signora anziana, elegante, con i capelli bianchi raccolti sulla nuca, in un’ acconciatura a banana. Fu molto gentile, ma irremovibile . Ce ne andammo tristi e sconsolate. Alla fine papà riuscì a trovare una casa in un quartiere molto distante da quello in cui vivevamo . Per me significava lasciare la mia vecchia scuola e le amicizie, per mia madre le sue amiche, ma in fondo non le dispiaceva di ricominciare tutto da un’altra parte, in un luogo dove non la conoscevano e nessuno era a conoscenza di quello che era accaduto. Mia madre però, aveva paura a continuare a vivere con mio padre e chiese ai miei nonni se potevano ospitarla, a casa loro, nel paese natio, con i suoi quattro figli. La risposta di mia nonna fu un no secco. Il suo dovere era di rimanere con il marito. In realtà aveva paura del giudizio della gente. Che sconfitta per lei dover ammettere il fallimento del matrimonio di sua figlia! Mia madre non perdonò mai a mia nonna di averla lasciata sola in quella circostanza. A quel punto la figlia maggiore divenne per lei anche un’amica, qualcuno con cui confidarsi e chiedere aiuto. Di conseguenza io mi sentivo una sorta di eroina, l’angelo difensore di mia madre. Avevo un carattere forte e riuscivo a tenere testa a mio padre, discutevamo per ore su vari argomenti senza mai raggiungere un accordo, anzi spesso la discussione sfociava in un litigio vero e proprio e non gli rivolgevo la parola per giorni, ma alla fine sentivo il bisogno di tornare a parlare con lui, era mio padre e mi piaceva la sua intelligenza, la sua capacità di argomentare su varie tematiche. Ma mia madre non vedeva di buon occhio i nostri frequenti litigi e temeva per la mia incolumità. Mio padre era un uomo possessivo e la sua gelosia, quando divenni adolescente, si trasferì anche su di me. Mi veniva impedito di indossare le minigonne e i pantaloni attillati. Mi venivano imposte regole che rendevano quasi impossibile la frequentazione dei miei coetanei, oltre l’orario scolastico. Un pomeriggio di primavera uscii con alcune amiche. Dopo una breve passeggiata nel quartiere, una di loro ci propose di andare a casa sua, dove la sorella maggiore aveva organizzato una festa. La tentazione fu troppo forte. Andammo. L’atmosfera era pazzesca! Stavano ballando sulle note del disco di Caterina Caselli, “Nessuno mi può giudicare” . Anche noi ci unimmo a loro nel ballo, poi mangiammo qualche panino e alcuni dolci. Il tempo volò via veloce. D’improvviso mi accorsi che erano le 19,30. Un orario proibitivo per me, perché a quell’ora mio padre aveva stabilito che dovessimo essere tutti a casa per cena. Purtroppo non potevo avvertire i miei familiari del ritardo, perché non avevamo il telefono in casa. Più volte avevo chiesto di acquistarne uno senza successo. Per lui era uno strumento pericoloso, qualcosa che non avrebbe potuto controllare. Chissà quali appuntamenti avremmo potuto prendere io e mia madre con il telefono! Così arrivai a casa alle 20:00. Mia madre era felice di vedermi, ma allarmata perché mio padre era in giro per il quartiere a cercarmi. Quando tornò a casa era una furia, mi rincorse per l’intera casa per picchiarmi, ma non riuscì a farlo, lo impegnai in una corsa intorno al tavolo da pranzo, poi mi nascosi sotto il letto terrorizzata e i miei fratelli più piccoli vennero a farmi compagnia. A quel punto mia madre riuscì a farlo desistere dal darmi la punizione corporea, ma mi mandò a letto senza cena. Tutto sommato me l’ero cavata solo con un po’ di paura, ma ne era valsa la pena! Quella festa era stata davvero fantastica!
A undici anni ero una graziosa adolescente ed ero circondata da molti corteggiatori. La sera della Vigilia di Natale come da tradizione, la mamma aveva preparato la cena e con noi c’era anche la nonna paterna. La casa era addobbata a dovere e noi indossavamo gli abiti della festa acquistati per l’occasione. Finalmente un momento di serenità. Stavamo per sederci a tavola quando squillò il campanello di casa. Andai ad aprire insieme alla mamma. Un ragazzo ci consegnò un mazzo di stelle di Natale con un biglietto sul quale era scritto il mio nome. Mio padre aprì il biglietto e capì che si trattava di un mio ammiratore. Prese il mazzo di fiori e lo gettò dalla finestra. Poi cercò di capire da me di chi si trattasse, ma io ne avevo solo una vaga idea. Era una persona che mi era stata presentata durante l’estate e che qualche mese prima mi aveva scritto una lettera, ma alla quale non avevo mai risposto. La festa era ormai compromessa con grande dispiacere di tutti. La convivenza era davvero difficile così, anche su insistenza di mia madre, mi sposai a vent’anni. Ma il matrimonio fu una delusione, e dopo sette anni ci separammo. Mio padre morì a cinquantasei anni per una cirrosi epatica, mia madre a ottantacinque anni, durante la pandemia di covid-19, in una struttura sanitaria per anziani.
Quanti uomini violenti ci sono in giro…!!!
Alle donne non violenza, ma mimosa profumata!