Premio Racconti nella Rete 2023 “Storia di Natale” di Elvira Siringo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023
È una notte senza luna e senza stelle. Spinto dal gelo di tramontana, Peppino percorre il vicolo, arriva allo slargo fuori paese. Ha la vista appannata dal residuo dei fondi di bicchiere, sanno d’aceto e di tappo ma bastano a scaldarlo. L’inserviente del bar glieli mischia in un boccale che lascia fuori, dopo chiusura, vicino al bidone dell’immondizia. Per terra ha recuperato pure una fetta di panettone quasi intera, caduta a qualche distratto. Alla mensa dei poveri ha trovato pane, formaggio e avanzi di pollo. Ne ha messo via una parte nella busta di plastica, da dividere con i cani che gli scodinzolano intorno, o per domani. Ammesso che ci sia un domani per lui che ha visto andare in fumo tutta la vita. Vive fuori dal paese, in una delle grotte scavate nel costone della roccia, un tempo rifugio di briganti e contrabbandieri. Sistema i fogli di cartone chiazzati di umido e si rincantuccia sotto la coperta di sacco.
Miriam viaggia da tre giorni e due notti. All’alba è passata a piedi oltre la frontiera, le è sembrato un miraggio. Era partita sola in mezzo a tanti, nascosta nel ventre di una nave da carico diretta in Italia. “Italiani brava gente” dicevano le missionarie che le avevano insegnato il catechismo e molte parole utili. Fissando il buio della stiva, aveva rivisto il suo villaggio avvampare. Le fiamme avevano avvolto le piantagioni di mais e di zucche. Divorato i suoi familiari in pochi attimi. Lei era riuscita a scappare perché dormiva nel patio, fuori dalla capanna. Aperto il recinto, aveva messo in salvo i maiali e gli zebù. Nell’alba nera del giorno successivo non c’era più nessuno, solo capanne d’argilla distrutte ai confini del deserto e morte. Senza il lusso di poter piangere, aveva ceduto gli animali in cambio del denaro per pagarsi il viaggio.
Dopo un tempo senza tempo la nave era attraccata. Scesi a terra in silenzio assoluto, si erano inerpicati tutti insieme su un sentiero di montagna. Al valico però si erano sparpagliati nel chiarore incerto dell’aurora. Una pagnotta e una bottiglia d’acqua ciascuno per andare incontro al destino: “Divisi è meglio, ognuno per la propria strada e la buona sorte a tutti” avevano pensato incrociando saluti smarriti.
Miriam si era guardata intorno, aveva disceso da sola la pietraia ripida, camminato una giornata intera senza vedere anima viva, risaltando ad ogni fruscio col cuore in gola. Percossa da una pioggia livida e battente, incespicando fra rocce aguzze, sterpi e fango, a piedi scalzi, callosi ma lacerati.
Allo sterminio della sua famiglia nubiana non è sopravvissuta che lei, sa che tutto ha uno scopo nell’ordine cosmico degli eventi. La sorte l’ha risparmiata perché le ha attribuito il compito di custodire il vapore. Il fantasma della sua gente si è insinuato nel suo corpo come un’ombra, si è fatto carne, l’ha resa scrigno di essenza, di nuova vita da preservare. Ma al tramonto ogni energia viene meno, cade sulle ginocchia, si piega, avrebbe voglia di giacere così raggomitolata, chiudere gli occhi e dire basta. Resa incondizionata. Invece stringe i denti, va avanti un passo dopo l’altro. Il vapore segreto che custodisce in corpo le dà forza, porta in seno l’anima del suo popolo massacrato.
A sera finalmente, luci lontane, la salvezza. C’è un sentiero tutto freddo e scosceso, in fondo ci sono delle case. La speranza brilla oltre le imposte appena accostate, la ringhiera del cancello è adorna di fiocchi e mille luci colorate. C’è musica di festa che rianima il coraggio. Suona il campanello tremante, ha una fitta, si piega in due. Soffre, ma non le importa.
La porta si apre, appare una sagoma che pronuncia frasi incomprensibili, richiude. Pochi attimi dopo riapre, un solo attimo, lascia uscire due belve che si avventano, latranti, contro le sbarre del cancello. Miriam impaurita corre via per un vicolo spazzato dal vento tagliente. Da una traversa sbuca un passante che squadra i suoi poveri indumenti lisi, alza il bavero del cappotto, affretta il passo, sparisce. Il portone sbatte col fragore di una condanna senza appello. Dai piani alti giungono note serene, canti e risa di brava gente. Lei bussa, suona, invano. Si trascina via, dilaniata dai dolori che vanno e vengono sempre più frequenti.
Al centro deserto di una piazza troneggia un albero luccicante. Dirimpetto un locale illuminato emana calore di gente chiassosa che fuma, beve e balla. Tenta di entrate. La donna alla porta le fa segno di no, di andar via. Lei insiste, implora. Escono due uomini minacciosi, urlano. Miriam non capisce ma corre via. All’uscita dal paese non si regge quasi in piedi. Le fitte lancinanti le squarciano la schiena. Corre.
Poi, è tutto buio.
Peppino non riesce a dormire, non per il freddo ché c’è abituato. Piuttosto per i cani irrequieti che saltano, lo spingono, gli addentano le maniche. «Via, bestiacce!»li prende a sassate, guaiscono, si allontanano, tornano di nuovo. Si alza, bestemmia, li rincorre per cacciarli fuori dalla grotta. All’improvviso una folata gelida pulisce il cielo, il buio pesto della notte si rischiara e una striscia lucente di luna gli svela un fagotto abbandonato al centro, proprio dove finisce la strada deserta, come un dono voluminoso.
Invece no. Non è un dono, è una donna e sembrerebbe incinta. È gelida, forse è morta o no, respira, si lamenta. Peppino d’istinto l’afferra, la porta di peso alla grotta, la copre con il suo pastrano, con il sacco e con i cartoni, accende un fuoco.
Lei si sveglia, lo fissa, ha paura, freddo, dolore, ma non si lamenta più. Lui le stringe le mani, la incoraggia. Impacciato si dà da fare. Accoglie il mistero della vita. I cani smettono di ululare, ora sono quieti, si addossano a loro, tutti a scaldarsi in unico abbraccio.
Al Comando dei Carabinieri, il brigadiere e l’appuntato stanno brindando coi figli e le mogli. Hanno portato la cena da casa per festeggiare la notte di Natale tutti insieme in caserma.
«Che hanno stanotte ‘sti cani?».
«Sono i cagnacci di Peppino “o’ falegname”».
«Basta che se ne vanno! Voglio andare alla messa e mi fanno spavento – la moglie dell’appuntato è preoccupata. – Perché, poi, lo chiamano “o’falegname” se è solo un vagabondo?».
«Come, non lo sai? – l’altra è più informata – da giovane lavorava nella falegnameria del padre, era mastro rifinito…».
«Non mi dire – sgrana gli occhi – cioè, dimmi, dimmi…».
«Gran brutta storia – interviene il marito brigadiere – aveva fatto debiti al gioco, qualche intemperanza, una frase risposta male. Insomma, qualcuno decise di insegnargli l’educazione bruciandogli bottega e casa con tutti i genitori che dormivano dentro. Lui si salvò per miracolo. Da allora è diventato così, inutile come lo vedete.».
«E che avranno da abbaiare tanto, che vogliono? Un poco di salsicce anche loro? Magari poi smettono».
«Sì, sì, papà possiamo dare da mangiare ai cani? – I bambini insistono, ma il brigadiere non vuole: – se si abituano male, poi chi se li leva di dosso? Quelli selvaggi sono, come il loro padrone.».
«E dai papà, ti prego, è Natale» insiste il più grande.
«Ma quando mai, levatevelo dalla testa!».
L’appuntato però ribatte perplesso: «Forse sta succedendo qualche cosa, è così freddo, e se invece Peppino sta male? Non è meglio che andiamo a vedere?».
Escono, per scrupolo.
Le nuvole si sono sfilacciate, la luna è tramontata ma il cielo è illuminato a giorno di astri sfavillanti. Davanti alla grotta c’è una folla di paesani. Peppino è sbigottito, gli portano coperte, latte caldo, miele, vino e dolci. Lo elogiano, lo abbracciano tutti, chi gli promette un lavoro e chi gli promette ospitalità, un riparo, una casa.
Arriva anche il parroco con la processione dei fedeli, si inginocchiano, cantano, ringraziano Dio davanti alla grotta sotto le stelle. In aria c’è già lo scampanio di mezzanotte ma la messa può aspettare, da lontano si avvicina una grandissima luce, rallenta, si ferma sfolgorante proprio davanti alla grotta. Lampeggia.
Tre angeli coi camici verdi scendono a soccorrere la puerpera e il suo bambino.
«Queste mani… – lui se le guarda commosso come se non le avesse mai viste prima, se le rigira – queste mani per la prima volta sono servite! – Guarda Miriam, mormora: – se vuoi, se vuoi, ora queste mani serviranno a lavorare per te e per lui … lui … come si chiama lui?».
«Già, sì, come lo chiamate?» le donne curiose fanno coro.
«Non so – Miriam è smarrita, biascica stentata – lui non ha un nome… tu dici. Dici tu, tu padre, dici tu suo nome…».
«Se vuoi, se vuoi… mio padre si chiamava Salvatore, se vuoi… se vuoi…»
«E di cognome?» chiede una bimbetta che porta in dono un rametto di agrifoglio.
«Di cognome?» ripete lui, stordito fra lacrime che non sapeva più di avere, quasi come se non se ne ricordasse più allarga le braccia, guarda la donna con infinita tenerezza:
«Se vuoi – le sussurra – se tu vuoi, lui di cognome potrebbe fare come me, io mi chiamo … come oggi! Mi chiamo Peppino… Di Natale.».
In questo racconto ad un certo punto cambia tutto, passando dal dramma alla speranza.
Scrittura avvolgente Elvira
Un grazie di cuore a Walter Di Mauro per aver apprezzato il mio racconto
Buoni sentimenti e tanta speranza… in un mondo diverso, forse. Bello!