Premio Racconti nella Rete 2023 “Ancora per un po’ ” di Elvira Siringo
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Davanti alla mia finestra è appena passata una colomba, è il regalo di Pasqua. Nessuno avrebbe scommesso sulla possibilità che ci arrivassi. Non che lo dicano apertamente, ma chi mi danza intorno lo ha scritto negli occhi. Leggere è la mia professione, adesso in mancanza di scartoffie mi accontento di leggere gli sguardi.
Me ne sto attaccato tenace, appeso al respiratore che con il sibilo monotono sembra che canti in anticipo la marcia funebre. Fa le prove generali. Noi malati anziani ce ne stiamo in seconda linea, quasi come se ci fosse una graduatoria di importanza per la quantità di vita attesa.
Io però non mi arrendo, voglio tornare a casa. Non che qui sia sgradevole, anzi, l’hospice è fin troppo elegante. Tinte pastello, fiori freschi, quadri e tappeti. Pulizia e quiete in un’oasi di verde. Passi ovattati nel corridoio. Tendaggi eleganti, tivù e frigobar in camera. Siccome gli ornamenti sono inversamente proporzionali alle condizioni di noi degenti, e questo reparto sembra un albergo a cinque stelle, la conclusione non mi è di gran conforto.
La routine scandisce le giornate. Al mattino il primo giro di farmaci, che a volte confondo con l’ultimo della notte perché è ancora buio. Segue pulizia, colazione, poi niente. Le ore sgocciolano lente, appiccicate all’umidità sul vetro, si dissolvono con l’aumento d’intensità della luce.
La processione di amici è limitata, per tutelare la nostra incolumità, per conquistare qualche giorno di sofferenza in più. Soffrire è bello. Non che io sia masochista, ma ormai è la mia unica modalità di esserci. L’essenza stessa della mia vita è tutta all’inseguimento di un bolo di felicità in cui avvolgermi. Invano.
Eppure dovrebbe essere chiaro fin dal principio, se veniamo al mondo piangendo, la sofferenza dev’essere il marchio di destinazione della vita. Non ci rassegniamo alla sofferenza che è differente dal dolore fisico, che è pure temibile per le ripetute aggressioni. L’ultimo lembo di misericordia che mi preserva è peggiore del male, è la siringa che arriva pietosa, devasta la mia capacità di permanere in vita. Ridotto a un cupo rantolo, non sento più il mio corpo. Ma l’effetto dura troppo poco. Non appena riprendo coscienza il dolore bussa di nuovo. Sordo, a dire che lui è sempre lì, stordito ma presente, che non mi faccia illusioni! Io intanto resisto, ho deciso di resistere e me ne sto attaccato tenacemente alla mia flebo condita di morfina. Con la lingua impastata ripeto che non mi arrendo.
Arriva il medico di turno, gli chiedo quando mi manderà a casa. Biascico parole che lui finge di non capire. Sorride misurato, la sua visita è breve: mi stringe la mano affettuoso. Tenta di assumere un’aria paterna, malgrado abbia la metà dei miei anni. Il camice bianco sparisce con il suo contenuto dal varco che divora tutti i frammenti della mia vita. La porta è un buco nero da cui emergono frammenti, sogni del passato. Ai piedi del letto si materializzano nomi e volti della trascorsa esistenza che la memoria non conserva più tanto bene. Vengono a trovarmi, rimettono in ordine il grande mosaico scomposto del ricordo, poi spariscono inghiottiti da viluppi di altre vite parallele, in un fluire inerte di sbrindellate testimonianze.
Secondo giro di farmaci, pranzo, poi niente.
Sono stanco, vorrei andare a casa a riposare fra le mie cose di tutti i giorni che ho lasciato all’improvviso, troppo in fretta. Sono uscito pensando di ritornare, ho dimenticato troppi libri fuori posto, appunti e carte sparpagliate sul comodino, calzini spaiati nel primo cassetto del comò, biancheria in disordine sulla poltrona, giacche e camicie da portare in lavanderia. In frigo la frutta ammuffita, la bottiglia del latte scaduta. La cassetta della posta sarà colma di bollette da pagare.
Il dolore riprende, soffoco. Aumentano l’ossigeno, non basta. Questa volta soffoco davvero. Chiedo aiuto con gli occhi fuori dalle orbite, arrivano due infermieri, si agitano, armeggiano, iniettano. Ho tregua. Respiro. Il dolore è ricacciato, è sordo. Poi niente.
Dalla porta fa capolino una ragazza che non ricordo. Infatti non la conosco affatto. Penso che sia un sogno o forse è solo una volontaria che si dedica a far compagnia agli ammalati. È giovane, avrà sì e no vent’anni. Alta, magra, pallida più dell’imbracatura che indossa. Ha uno sguardo fragile, smarrito, forse impaurito. Non sa da dove cominciare. Rompo io il ghiaccio, le chiedo com’è il tempo là fuori. Risponde che non mi sto perdendo un gran che, sembra bello ma è ancora tanto umido. Continuo a masticare parole che lei sembra interpretare senza difficoltà. Incoraggiato, proseguo chiedendole di cosa si occupi nella vita. Mi risponde che è un’universitaria, studia Lettere, la sua passione è scrivere e desiderava tanto conoscermi.
Che cretino! Sono proprio un vecchio imbecille se per un istante mi sono illuso che una bella ragazza sia venuta qui solo per farmi una visita disinteressata. Avrei dovuto immaginarlo subito, anche se non mi capacito, non mi abituerò mai. Eppure da una vita subisco continui assalti, evito gli ambienti promiscui e me ne sto barricato, da anni, neanche fossi un divo. Qui però sono in balia di chiunque, costretto ad abbassare la guardia. Anche qui gli opportunisti mi identificano, non mi lasciano in pace! Mentre chiudo gli occhi deluso, penso al modo più veloce di sbarazzarmene. La sua voce esile approfitta del mio silenzio e torna all’attacco:
«Ho pensato che potrebbe farle piacere se le leggessi qualcosa, perciò ho portato …»
Non le rispondo, soffoco, levatemela davanti, soffoco! Schiaccio il pulsante d’emergenza, arrivano le infermiere. Trambusto, un’iniezione, un’altra, mi aumentano l’ossigeno. La ragazza sparisce nel vortice.
Al risveglio c’è il solito prete. Che cosa vuole da me quest’altro? Quante volte devo pentirmi, ancora? Gli ho già detto che non lo gradisco, ma a quanto pare lui è più cocciuto di me. Oggi però sono troppo stanco per ribattere, vince lui. Sopporto ad occhi chiusi le sue giaculatorie smozzicate. Ha una pronuncia peggiore della mia, mi scappa da ridere ma lui per fortuna pensa che io abbia il singhiozzo. I mormorii veloci si concludono tutti scandendo amen, l’unica parola comprensibile.
Visita medica pomeridiana, ultimo giro di farmaci, prelievo di sangue, medicazione, pulizia generale, cambio della flebo. Sguardo annoiato alla tivù, notiziari: fatti degli altri che soffrono di stupide vicende. Gli altri sanno del mio dolore? Allora, perché mai io dovrei interessarmi del loro? Tanto, siamo tutti quanti condannati, prima o poi. Ed è perfettamente inutile fare gli scongiuri. Ecco la notizia di un grave incidente: quattro ragazzi sono morti, due in fin di vita. Sorpresa! Fino a ieri nessuno li aveva avvisati. Sono un vecchio cinico, lo so, ma è l’unica soddisfazione che mi rimane. Mi attanaglia il cuore, provo sollievo solo quando sento di qualcuno che se n’è andato prima di me, senza preavviso.
In realtà da quando mi hanno comunicato che il capolinea è vicino mi meraviglia la lunga processione di anime che continua a precedermi. Avranno sofferto o magari non se ne sono neanche accorti, avranno lasciato pure loro qualcosa a metà, magari una maglietta sporca sotto il letto o mezza bottiglia di latte scaduto in frigo. Anime di chi ha avuto il privilegio di non saperlo prima. Io invece ho cominciato a soffrire in anticipo, giocandomi l’ultima parte di vita affogato nell’angoscia di aspettare il momento. Non poteva capitare anche a me un bell’incidente all’età di vent’anni? Mi sarei tolto il pensiero senza passare da questo purgatorio.
Cena. Non ho più fame. Vorrei tornare a casa, niente più.
Ne ho percorsa parecchia di strada, affannandomi senza tregua. Sbagliando almeno metà delle scelte, senza rimpianti. Forse con alcuni rimorsi. Ora vorrei avere il tempo di tornare a casa per fare alcune cose, ho in sospeso degli incontri di lavoro importanti.
Il senso del vivere è tutto racchiuso nel fare, fare cose che riempiono la vita di senso. Finché c’è un disegno da realizzare, un progetto da ultimare, non possiamo certo permetterci il lusso di mollare la presa! Dunque, me ne starò tenacemente attaccato alla mia vita piena di cose da fare. Proprio stanotte ho avuto un’idea, bella, però in questo momento non me ne ricordo più perché arriva il dolore ed è insopportabile.
Iniezione, poi niente più.
Imperterrita, tenace più di me, al risveglio davanti al letto c’è la ragazza.
Se le capitasse un incidente? Come sono cattivo! Per espiare il malvagio pensiero decido di concederle qualche minuto, in fondo non ho nulla da fare. I suoi occhi si illuminano ma il fondo resta stanco, acquoso di malinconia. Forse appartiene alla generazione di quelle giovani perennemente depresse, che sprecano il tempo migliore a piangersi addosso. Fanno un’arma delle loro lacrime. Ne ho incontrate tante, spaventate dal mondo che le respinge. A volte fanno volontariato proprio per sfuggire alle crisi esistenziali, per trovare egoisticamente il senso, riempire una vita che non sanno tenere in piedi. Altre, più sfacciate e senza scrupoli, si servirebbero di qualsiasi espediente pur di afferrare le occasioni giuste. Questa impudente ci sta provando, anche se con me non caverà un ragno dal buco!
Comincia a leggermi un racconto surreale, non riesco a seguirla bene, mi pare di capire che ai confini della sua più sfrenata fantasia ci siano delle bizzarre creature aliene, forse marziane che, su un tappeto nero trapunto di stelle d’oro, chiacchierano amabilmente con alcune conchiglie sparse sulla riva del nostro mare. Dopo un tempo incalcolabile si ferma, il primo capitolo è finito lì. Grazie a Dio!
Domani mi leggerà il secondo. E pazienza! Non mi chiede niente, ma si capisce che ci terrebbe ad avere un mio giudizio. Quando sta per uscire mi sorprendo nel sentire la mia stessa voce che si prende la libertà di mormorarle: «bello, interessante, davvero interessante!».
Il volto splende dietro la mascherina, sprizza felicità e mormora un grazie, a domani. Penso che i suoi piedi non tocchino più per terra. Io invece mi prenderei a schiaffi! Ma sono diventato scemo? Cosa mi è passato in mente di farle un complimento? Ora non me la leverò più di dosso! Ben mi stia, così espierò il peccato di grandissima ipocrisia. Ultima morfina e pensiero poetico: la mia finestra è un tappeto nero trapunto di stelle d’oro.
Riposo. Sogno che mi stanno soffocando, aiuto, arriva l’infermiera, aumenta l’ossigeno, un’iniezione, poi niente.
Fuori è nuvolo. Mi dicono che stanotte ho avuto tre crisi, ne ricordo una sola. Stamattina hanno chiamato pure i miei parenti per avvertirli che non ci vuole molto. Lo so, li ho sentiti piangere mentre fingevo di dormire. Non è una novità. Sarà la terza o la quarta volta che li avvisano, ormai potrebbero anche rassegnarsi. Le crisi respiratorie sono sempre più frequenti, non posso più deglutire, mi hanno provvisto di una sonda per l’alimentazione. Provo tanto dolore diffuso, ho continui crampi.
Al pomeriggio naturalmente c’è di nuovo la ragazza, mi fa compagnia per un paio di ore in rassegnato silenzio. Si rende conto della situazione, con molto tatto si astiene dal leggere. Scampata la minaccia del secondo capitolo, le esprimo un profondo senso di gratitudine con gli occhi.
Sono stanco, ora vorrei solo andare a casa mia, a riposare.
Devo aver superato il momento critico, contro ogni previsione mi ostino a migliorare. Riesco a stare di nuovo seduto sul letto anche se non sento più le gambe. L’angiologa mi ha detto che è un difetto di circolazione. Avrebbe potuto rincuorarmi con un non-si-preoccupi-passerà, ma benché abbia teso l’orecchio non gliel’ho sentito dire.
Le visite pomeridiane della ragazza mi concedono brecce tra svago e ilarità. Lo scotto da pagare è ascoltare le sue insulse letture fingendo un minimo di gradimento. Quando diventa insopportabile mi invento una piccola crisi, così lei tace e va via. La storia è proprio stramba o sono io che non ci presto troppa attenzione. Forse capirei meglio se tentassi di rileggere tutto il romanzo di fila.
Leggere è il lavoro che ho svolto durante tutta la mia lunga e onorata carriera di editore. Però adesso la mia vista è sempre più appannata, non ci riuscirei nemmeno con i migliori occhiali. Però, in uno slancio di perfetta imbecillità, le chiedo di lasciarmi il testo. Prometto di provarci, almeno come intenzione.
Lei si illumina, non sta più nella pelle dalla gioia, piange, dice che sono il suo primo lettore autorevole e che dalla vita non poteva desiderare un regalo più grande. Mi promette che il giorno successivo mi farà avere la copia completa del romanzo stampato a grossi caratteri.
Di notte ho avuto una crisi più grave del solito. C’è stato molto trambusto anche in corridoio ma non ricordo quasi nulla, solo di aver sognato le strane creature nate dalla fantasia della ragazza: si erano adunate intorno al mio letto in piccola e disciplinata folla, volevano conoscermi, parlarmi, ma io non rispondevo. Non potevo, non avevo tempo da perdere con loro, avevo tante altre cose più importanti da fare. Esse allora cominciavano a dialogare con gli oggetti inanimati della mia stanza. Prendevano vita la bombola dell’ossigeno, la boccia della flebo, i quadri alle pareti, le poltrone e il tavolino. Ad un tratto il tendone di raso verdino mi cadeva sugli occhi, sul naso, sulla bocca. Io soffocavo, gridavo aiuto. Poi niente.
In alto, l’ombra lunga della ragazza volteggiava sul soffitto con i suoi tanti fogli ordinati sottobraccio. Non riuscivo a vederla in volto ma so che sotto la mascherina chirurgica mi stava sorridendo appagata. Agitava le mani soddisfatta. Quasi un saluto di commiato.
Oggi pomeriggio non è venuta, e dire che l’aspettavo per raccontarle del mio buffo sogno. Si dev’essere stancata anche lei. Pazienza.
Si dice spesso che ci vuole più coraggio a vivere che a morire. Sono tutte balle! Piango in silenzio.
La madre della ragazza è emersa tutta nera dal buco nero del corridoio, mi ha consegnato una busta gialla, voluminosa, uguale ad altre centomila che avrò ricevuto e aperto e cestinato nel corso della vita. Mi ha detto che sua figlia prima di addormentarsi si è raccomandata tanto di farmela avere. Non era una giovane volontaria ma un’altra paziente dell’hospice, se ne è andata stanotte.
A morire ci vuole vero coraggio, a riconoscere e ammettere quando a conti fatti il senso si è compiuto. Coraggio a lasciarsi andare, a scivolare via verso l’ignoto, a mollare la presa tenace.
Ma non è ancora il mio momento, adesso io non posso davvero. Ho un’ultima cosa da fare. Adesso, contro ogni pronostico medico, me ne starò aggrappato tenacemente alla bozza del suo romanzo. Ancora per un po’, almeno finché non l’avrò pubblicato.
Bella scrittura, complimenti!
Bello, scritto alla perfezione, mi è piaciuto molto. Soprattutto l’invenzione dell’editore e della lettrice che invece era una paziente.Grazie
Grazie di cuore a Romina ed a Roberto
Piaciuto tanto anche a me. È tutto tangibile: la noia, la svogliatezza, le ore lente, l’affanno, la vita, la morte. Un personaggio a tutto tondo, nonostante sia un racconto breve – cosa non facile. Complimenti!
un piccolo (solo perché è un racconto, non un romanzo) grande (davvero) capolavoro. a mio avviso *deve* assolutamente esserci tra i racconti selezionati (potevo dirlo? non potevo, boh, ho letto finora più di 250 racconti, un campione già abbastanza rappresentativo/significativo). una scrittura chirurgica, priva di fronzoli e di sbavature melense, capace di vivisezionare il senso ultimo delle cose con la giusta dose di cinismo. ripeto, racconti così limpidamente lucidi e affilati su un argomento tanto ostico/difficile e così poco “telegenico” a mia memoria (e ho un bel pacchetto d’anni!) non me ne sovvengono. lo stillicidio del “non-tempo” (quasi *buzzatiano*), il buco nero del corridoio che ingoia qualsiasi luce (ma “sputa” una bozza di controsenso della vita, i.e. un ultimo brandello di “fare”), nonché la finzione *borgesiana* di un gradimento (l’essenza allucinatoria del mondo/hospice, il paradosso paradossale delle “tante cose più importanti da fare”, il sogno così ben sognato da disvelare la finzione), diventano ingranaggi di un meccanismo perfetto che inchioda il lettore alla croce del punto di vista (oltre che al punto e croce della trama empatica). sto delirando? chissà, mi capita a volte, quando uno scritto mi entusiasma (e d’altro canto, nella Grecia antica il delirio non faceva forse parte delle forme di divinazione? era una forma d’arte “buona” capace di mostrate tanto il senso quanto il non-senso delle cose). che altro aggiungere? complimenti all’autrice. unico appunto due “Però” in rapida sequenza (“Però adesso la mia vista” e “Però, in uno slancio di perfetta imbecillità”) che inceppano appena la lettura (il primo, forse semplicemente lo toglierei, ma –ofcòrs – vedi tu)
@Malos Mannaja, mi lasci senza parole, grata per un così nitido e lusinghiero apprezzamento, ringrazio di vero cuore, è un dono che mi riempie davvero di gioia