Premio Racconti nella Rete 2023 “Tommy ha parlato” di Andrea Zappalaglio
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Fuori c’era molto rumore. Il vento ululava, scaricando chicchi di grandine contro la finestra. Il ragazzo, seduto al tavolo della cucina, guardava in basso verso il toast poggiato sul tavolo. Assente. Il padre gli stava seduto accanto. La luce giallastra di una lampadina proiettava su di lui una lunga ombra che accentuava gli occhi infossati e il mento tagliente. Era aggrappato al piatto vuoto e lo girava lentamente, la mano destra che tirava e la sinistra che spingeva.
L’uomo si alzò di colpo, inquietato da un fruscìo indistinto. La televisione si era improvvisamente accesa, trasmettendo su una frequenza morta. Tirò uno schiaffo all’apparecchio e lo spense imprecando. Poi tornò al tavolo, ingobbendosi sulla sedia.
«Allora. Ancora non ne vuoi parlare?» Il ragazzo fissava la bottiglia davanti a sé, immobile. «È successa una cosa terribile oggi, proprio davanti ai tuoi occhi, e non hai niente da dire?» La luce mancò per qualche istante.
Il ragazzo non ricordava molto di quel pomeriggio. Sembrava tutto distante, avvolto nella nebbia. La scuola aveva organizzato un barbecue al parco, invitando anche i genitori degli studenti. Il padre aveva insistito per andare. Lui passò il tempo in un angolo, alzando ogni tanto gli occhi per vedere quelli che giocavano a frisbee. Poi arrivò Clarkson e due suoi amici, stretti nelle loro camicie attillate.
«Capisco ragazzo che tu sia scosso, e quei tre erano dei veri maleducati. Dovevi però chiamare qualche insegnante, ok? Invece, sei passato dalla parte del torto.»
Avevano cominciato a spintonarlo. «Ehi finocchio, perché non parli? Parli solo quando te lo mettono in culo?». Risate. Lui aveva cercato di allontanarsi. «Dove vai, finocchietto?» disse Clarkson, versandogli addosso un bicchiere di Coca. Risate. Allora lui aveva risposto scaricandogli un pugno contro la mascella. Si sentì un sinistro crac. Clarkson piagnucolava a terra, assistito dai suoi due amici. Lui era rimasto fermo, a bocca aperta, fissandosi le nocche annerite. Fu allora che arrivò il Signor Clarkson.
«È vero, quel pallone gonfiato non ha aiutato. Io mi sarei avvicinato per spiegargli che era quello strafottente di suo figlio ad aver iniziato, ma non ho visto. Stavo parlando con Tricia, sai la mamma di Jacob? Anche lei è rimasta sola un paio di anni fa e ogni tanto facciamo due chiacchiere, usciamo…»
Il Signor Clarkson era grande e grosso. Lo strattonò per un braccio urlandogli cose che non ricordava. «È stato quel ritardato!» urlavano gli altri. Allora lui aveva puntato i piedi per divincolarsi ed è lì che accadde.
«Non riesco a pensarci. Non so come tu faccia a star lì muto. Davvero non sei scosso per quanto accaduto?»
Il Signor Clarkson gli aveva stretto il braccio talmente forte da lasciargli un livido. Lui voleva solo fuggire via ma non ci riusciva. Allora si alzò sulle punte e urlò «Lasciamiii». Rimase sorpreso. Gli era uscito un grido acutissimo, simile al verso di un pipistrello. L’uomo aveva allentato la presa e fatto due passi indietro. Poi si era fermato, cominciando a toccarsi il petto e il collo. «Aiuto, aiuto! Sta avendo un infarto!» gridò qualcuno. Ma quando la camicia dell’uomo cominciò a cambiare colore tutti si resero conto che stava succedendo qualcosa di molto diverso. Cominciò a perdere sangue dagli occhi, poi dalle orecchie e infine dalla bocca. Sembrava una fontana. Si accasciò a terra, le mani e i piedi che si muovevano sempre più lentamente.
Meno di un minuto dopo, il Signor Clarkson era morto.
Il padre arrivò a cose fatte e lo trascinò in macchina. L’ultima immagine che gli veniva in mente era quella di un paramedico che vomitava in un angolo mentre un altro parlava con un poliziotto: «Io un’emorragia interna così non l’ho mai vista».
«Ascolta. Sei un ragazzo sveglio, ma tutti pensano che tu sia muto. Non ti dà fastidio? Non puoi continuare a esprimerti a monosillabi.»
Calò il buio. Un blackout. Il padre si alzò, accese una candela e la appoggiò al centro del tavolo.
«Perché almeno non dici qualcosa a me? Fai felice tuo padre» disse, allargando le braccia e protendendosi in avanti. Poi indicò tre oggetti fissi alla parete. Il ragazzo alzò gli occhi e fece finta di guardarli. Erano ricordi, certo.
Ma erano tutti ricordi sbagliati.
«Guarda quel violino. Ti ricordi quando lo suonavi con il nonno?» Il nonno suonava il violino. Lui aveva imparato qualcosina ma non aveva mai amato quello strumento, gli ricordava la madre che ogni tanto stava ad ascoltarlo.
«E guarda il tuo cappellino da baseball con cui sei arrivato secondo in campionato.» Se solo fosse venuto più spesso a vederlo avrebbe saputo che lui aveva giocato si e no mezza partita in tutta la stagione.
Ormai il ragazzo non lo stava più ascoltando, aveva alzato lo sguardo verso il lampadario, montato più o meno sopra la testa dell’uomo. Oscillava debolmente, mosso da uno spiffero. Lo guardava e poi guardava il padre, lo guardava e poi guardava ancora il padre.
«E guarda, la sciarpetta che portavi al funerale… oddio che cosa terribile è successa a tua madre.» La voce gli si ruppe e immerse il viso tra le mani.
Il ragazzo non ricordava quasi nulla di quando la madre morì davanti ai suoi occhi, erano passati ormai quattro o cinque anni. Lei lo aveva sgridato per qualcosa e lui le aveva urlato contro: «Non è giusto! Non è giusto!». Poi il buio.
«Ci pensi mai alla mamma? Non ho mai visto…» cominciò a parlare sempre più lentamente, a spezzoni «qualcosa di… simile…».
Un fulmine atterrò poco distante, il tuono che seguì scosse le finestre. La TV si accese di nuovo, trasmettendo a tutto volume un vecchissimo musical. La luce della candela si rifletteva nelle pupille dilatate del padre. Il gioco di ombre distorceva la smorfia che si stava componendo sul suo volto. Stette un istante come senza fiato. Poi allontanò la sedia dal tavolo e cominciò ad alzarsi, ondeggiando come un ubriaco. «Sei stato tu. Io lo so…sei stato tu» disse con lo sguardo perso «e oggi è successo un’altra volta, lo so…».
Il ragazzo guardò con gli occhi sbarrati l’ombra nera del padre calare su di lui. Cercò di scattare in piedi ma lui gli era già addosso. Era pietrificato. Mentre i suoi occhi vorticavano in preda al panico, le grosse mani dell’uomo stringevano il suo collo. Cercò di divincolarsi, inutilmente, poi emise un brevissimo gemito e non riconobbe la sua voce.
Il padre si fermò, come colpito da una freccia. Lasciò la presa e fece un passio indietro, abbassando il capo. «Dio mio, perdonami, non so, non so davvero cosa mi sia preso…»
«Io ti odio» disse il ragazzo sottovoce. «Io ti odio!» ripeté a voce più alta.
«Tommy, ti prego, stai calmo, non parlare» disse il padre afferrando il cellulare. Il ragazzo lo fissò un istante, con il mento all’insù. Qui Polizia, i nostri centralini sono temporaneamente fuori uso, per emergenze chiamare…
Il ragazzo stette immobile, un altro fulmine aveva illuminato gli alberi fuori dalla finestra. Abbassò lo sguardo. Chiuse gli occhi. Poi urlò come non aveva mai urlato in vita sua. Andò avanti per cinque, dieci, quindici secondi, mentre il televisore tornò per un istante a trasmettere una nebbiolina grigia.
Riaprì le palpebre. Il padre non c’era più. Al suo posto c’era un’enorme chiazza di sangue e grumi che copriva il pavimento.
Tutti avevano sempre voluto che lui parlasse. Ora aveva trovato la sua voce. E gli piaceva molto. Tommy aveva parlato. E non vedeva l’ora di parlare.
Ancora.
Per Zappalaglio!
L’inquietudine è il leit-motiv dei tuoi racconti!
Bravo, comunque!