Premio Racconti nella Rete 2011 “Vedova” di Angelo Vanzi
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011Sono una donna, ho 35 anni e sette fratelli più grandi di me, ma solo di età, perché in altezza li supero tutti almeno di una spanna; non che io sia particolarmente alta, sono loro decisamente bassi. La nostra è una famiglia di agricoltori e viviamo tutti insieme, con i genitori, in una grande casa alla periferia di un paese della bassa padana.
Nessuno dei miei fratelli si è mai sposato. Io invece sono cinque volte vedova, un bel primato, e senza figli; pure questo è abbastanza strano, ma chi avrà la voglia e la pazienza di leggere la mia storia ne scoprirà il motivo.
Da ragazzina amavo la scuola e lo studio, leggevo tutto quello che mi capitava fra le mani, sognavo di diventare una grande scrittrice. Invece, terminata la scuola media, mia madre decise che dovevo restare a casa per aiutarla nelle faccende domestiche.
Capirete, sette figli maschi, più mio padre e mio nonno paterno, in casa non mancava certo il lavoro!
Gli anni passavano e io non facevo altro che rassettare camere, pulire pavimenti, lavare, stirare e ….lamentarmi del destino crudele. Quando volevo fare arrabbiare i miei fratelli, mi mettevo in testa una corona di fiori e giravo per casa con aria altezzosa, sostenendo di essere Biancaneve, circondata dai miei sette nani, ma di solito il mio umore era più vicino a quello della povera Cenerentola. Vedevo una sola via d’uscita: trovare un principe azzurro, e al più presto.
E invece dovetti aspettar di compiere 18 anni, perché in famiglia non volevano neppure sentire pronunciare la parola matrimonio.
Il mio primo marito non era propriamente un principe, ma pur di lasciare la casa paterna avrei preso anche un rospo. Era un ragazzone impacciato, unico figlio dei panettieri del paese.
Il matrimonio non durò neppure lo spazio di un giorno. All’uscita dalla chiesa, cercando di schivare il riso che i miei fratelli gli tiravano a manciate, il tontolone inciampò nello strascico del mio vestito, cadde a terra, picchiò la testa sul gradino di pietra e morì sul colpo.
Davvero una bella uscita! Avevo lasciato la casa natale al mattino, vestita da sposa, con la ferma intenzione di non metterci più piede, vi feci ritorno quello stesso pomeriggio, vestita a lutto, metaforicamente parlando, s’intende, perché non ebbi neppure il tempo di cambiarmi d’abito.
Qualcosa però era cambiata: avevo più soldi di tutti i miei setti fratellini messi insieme. Il matrimonio era stato comunque celebrato e, in cambio della mia rinuncia ad ogni ulteriore pretesa sulla eredità, i miei suoceri di quelle poche ore accettarono di pagarmi un generoso indennizzo.
Non era quello che cercavo, ma dal lato puramente finanziario non fu un cattivo investimento. Avrei potuto permettermi di riprendere gli studi, vagheggiavo di iscrivermi ad una scuola privata, prendere il diploma e poi frequentare l’università, ma mia madre era di tutt’altra idea, si aspettava che continuassi la mia vita di Cenerentola. Necessitavo di un altro principe, non importa di quale colore.
Misi gli occhi su un giovane insegnante di lettere. Dopo nemmeno un anno di vedovanza ero pronta per il secondo matrimonio, che si risolse nel secondo disastro. Il neo sposo sopravvisse all’uscita dalla chiesa, ma non al banchetto nuziale. L’incidente avvenne subito, al momento dell’ingresso nella sala da pranzo; tutti e sette i miei fratelli, scortandoci verso il tavolo, improvvisarono una sorta di trenino, spingendoci con un po’ troppo entusiasmo. Il mio secondo marito andò a sbattere con violenza contro una colonna e morì all’istante.
Il professorino era senza parenti e senza un soldo; mi lasciò però in eredità una grande quantità di libri, che avrebbero potuto soddisfare per anni la mia sete di sapere, se solo avessi avuto il tempo di leggerli. Al momento si pose solo il problema di come sistemarli nella mia casa paterna dove, giocoforza, ero costretta a restare, poco più che ventenne, bi-vedova, con sette nani ancora tra i piedi e montagne di camicie, maglie, calzini e calzoni da lavare, stirare e riporre negli armadi.
La ricerca del successivo marito richiese ben sei anni. Non che io non ci mettessi impegno, ma i miei fratelli non rendevano certo la vita facile ai possibili candidati sui quale di volta in volta mettevo gli occhi. Finalmente riuscii ad accalappiare un bel ragazzo, figlio dei proprietari dell’unica sala cinematografica del paese. Il matrimonio avvenne un sabato di fine agosto. Anche questa volta la cerimonia in chiesa si svolse senza incidenti. Pure il ricevimento, nel parco della villa dei miei terzi suoceri, sembrava procedere nel migliore dei modi, ma ad un certo punto da qualche parte sbucò fuori un pallone da calcio, i ragazzi improvvisarono una partitella tra i tavolini, coinvolgendo anche il novello sposo che, in un violento contrasto con tre dei miei fratelli, batté la testa contro il bordo di una sedia e morì sul colpo.
E tre, tre volte vedova! Il terzo matrimonio accrebbe di diversi milioni la mia fortuna, ma mi attribuì la fama di iellata. Ormai non era neppure più necessaria l’azione dissuasiva dei miei fratelli; nonostante la mia indubbia avvenenza, al mio solo apparire, gli uomini si dileguavano come d’incanto. A quel punto anche mia madre dovette convenire sulla opportunità che mi allontanassi dal paese, almeno per un po’, e mi spedì a Venezia presso una sua sorella.
La zia aveva cinque figli maschi, tutti scapoli, tutti ancora in casa, e quindi mi accolse con particolare entusiasmo, due buone braccia aggiuntive per le faccende domestiche! Avevo compiuto il classico salto dalla padella alla brace.
Che altro potevo fare, se non cercarmi un altro marito? Avevo 27 anni, una bellezza che toglieva il fiato a ogni uomo che incontravo e la mia reputazione non era ancora giunta fino a Venezia; così, nel giro di un anno, riuscii a combinare un nuovo matrimonio e, incredibile a dirsi, addirittura con un principe vero, unico erede di una famiglia che vanta illustri antenati.
Dopo il matrimonio in Basilica, attraversammo a piedi piazza San Marco, tra piccioni e turisti, e raggiungemmo l’imbarcadero; era previsto un corteo sul Canal Grande fino al palazzo del mio nobile marito. Quel giorno ero veramente splendida; pur avendo smesso da tempo di credere alle favole, per una volta mi parve davvero di essere una principessa. Mi accomodai sulla gondola, sistemando con cura il meraviglioso abito bianco. Il principino stava per salire a sua volta, circondato dai miei fratelli e cugini; aveva già appoggiato il piede sinistro sul bordo dell’imbarcazione, il destro era sollevato a mezz’aria, all’improvviso, non si sa come, la gondola ondeggiò violentemente, lui mancò la presa e cadde in acqua dritto come una candela, sbattendo la nuca sul molo. Quando lo ripescarono, era già morto.
La sera stessa tornai al paese natale, scortata dai genitori e dai fratelli. Avevo quattro sfortunati matrimoni alle spalle e un sacco di soldi, che in parte vennero impiegati per ampliare e migliorare l’azienda agricola.
I successivi cinque anni li passai in stato di vedovanza, per lo più chiusa in casa. Trovavo conforto solo nei libri, perfino mia madre ormai aveva rinunciato all’idea di fare di me una donna atta a casa e si era rassegnata ad avere un aiuto esterno per le faccende domestiche. Ce lo potevamo ben permettere, al mio già considerevole patrimonio si era aggiunta l’eredità ricevuta dalla famiglia del nobile veneziano, che non fu poca cosa.
Spesso a sera ricevevamo la visita di un nostro vicino, un quarantenne ricco sfondato, anche lui vedovo, anche lui senza figli; non era neppure eccessivamente brutto, nonostante l’altezza, che lasciava davvero a desiderare.
Che ironia! Stavo seriamente considerando l’eventualità di sposare un uomo perfino più basso del più basso dei miei sette fratelli nani. I quali, per una volta, sembravano veramente interessati a questo matrimonio; avevano calcolato che, unendo la nostra proprietà a quella di lui, avrebbero ottenuto una estensione di quasi 60 ettari di ottima terra coltivabile.
Ci sposammo un pomeriggio di settembre, mancavano pochi giorni al mio trentatreesimo compleanno. In chiesa, e poi al ristorante, tutti trattenevamo il fiato, in attesa dell’inevitabile. E invece tutto si svolse senza intoppi. “Stai a vedere – dicevo tra me e me, mentre raggiungevamo a piedi il casale del mio nuovo marito, scortati da una lunga fila di parenti e amici – che fra tutti i bei ragazzi che avrei potuto avere, il destino mi ha riservato per marito proprio un nano!”
Arrivati davanti a casa, non so bene cosa mi prese, mi vedevo così alta e forte accanto a quel piccoletto. Agii d’istinto, lo giuro: mi chinai e lo presi in braccio prima di varcare la soglia, nemmeno fosse stato un bambino! Lui si schernì, cercando di divincolarsi da quell’umiliante abbraccio, e sbatté con violenza la testa contro lo stipite della porta. Stecchito sul colpo. E cinque!
Giornali e televisioni, non solo locali, si buttarono a pesce sulla notizia e dovetti di nuovo chiudermi in casa.
Sono passati già due anni da allora, ma ancora oggi da tutti vengo indicata come la vedova nera, il ragno femmina che, dopo l’accoppiamento, si dice che uccida il proprio maschio. Appellativo del tutto inappropriato e il motivo è presto detto: in 35 anni, ho convissuto con i miei cinque mariti per un totale di cinque giorni e neppure una notte, mai avuta l’opportunità di generare figli!
Adesso posso leggere tutti i libri che voglio, ho ampi mezzi e vivo come una regina, circondata da domestici e dai miei setti fratelli nani. Ho rinunciato, almeno al momento, ad un sesto matrimonio e mi dedico alla scrittura. La mia bellezza però non è affatto appassita, così, se qualche lettore di bella presenza, dotato di un buon patrimonio, amante del rischio e con la testa particolarmente dura se la sentisse di farsi avanti…
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Racconto umoristico piacevole e ben scritto. Si lascia leggere tutto d’ un fiato.
Un po’ grottesco ma simpatico, gradevole e accattivante.
Sarà difficile che qualche lettore scapolo decida di raccogliere l’appello finale, ma certo molti di loro si divertiranno parecchio a leggere il racconto.
Nikki Simonetti
Gioacchino De Padova
I matrimoni sono a volte legati a colpi di testa, e ne sono quindi la conseguenza. In questo grottesco racconto però le nozze li determinano, solo che non sono un modo di dire, ma delle vere e proprie zuccate che producono una singolare cinquina che tutto sommato porta fortuna alla protagonista che gioca e vince puntando sempre sul….nero. Ironico e spiritoso allo stesso tempo
Sono contento che tu abbia vinto. Era uno dei miei preferiti. Complimenti.