Premio Racconti nella Rete 2023 “La battaglia di città-giardino” di Marco Simonetti
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023(liberamente tratto dall’incompleto poema epico “La battaglia di Maldon”)
I
Il Barone era ritto in piedi sull’alto muro di cinta della Scuola, fiero ed imperioso come al solito.
Scrutava in lontananza le gru del Porto.
Sapeva che prima o poi sarebbero arrivati anche qui.
La voce circolava ormai da diverse settimane: i ragazzi del Porto stavano facendo razzie in tutti i quartieri della Città, si stavano espandendo. Ne sapevano qualcosa quelli della Stazione e quelli delle Poste, pestati e vessati qualche giorno fa, costretti a subire umilianti depredazioni.
Giungevano con le loro vespe e motorini “truccati” e “smarmittati”, in due o tre per sella. Si raccontava anche di una FIAT 127 guidata senza l’età e, ovviamente, senza patente con sei di loro a bordo, ma era una notizia non confermata o forse pura leggenda. Quasi tutti ripetenti, più volte sospesi, gente con il “sette” in condotta, che “salava” [1] un giorno si, uno no. Armati fino ai denti: bastoni, fionde, catene.
Quelli del Porto erano abituati a menare, a prevaricare, allo scontro fisico e all’uso della forza. Non avevano regole, non temevano nemmeno la Pula[2], la sfidavano.
Città-Giardino era il prossimo bersaglio delle loro incursioni.
Città-Giardino era il nostro quartiere, il quartiere della riconversione al
verde pubblico, dopo anni di mattoni e cemento. Non era di lusso, di quelli “alti” come si suol dire, ma era stato concepito per “dare più aria”. C’era più spazio tra i palazzi, riempito spesso da piccoli parchi e giardini. Numerose strade avevano conosciuto una abbondante piantumazione. L’ampio cortile della Scuola, con alberi, aiuole e il campetto da calcio, era il nostro luogo di ritrovo.
Nelle riunioni delle settimane precedenti non s’era parlato d’altro: le scorribande di quelli del Porto.
Avevamo deciso di stare allerta e di affrontare uniti il loro imminente attacco. Sapevamo di doverci preparare alla battaglia, era incombente.
In quelle occasioni avevamo dichiarato al Barone di poter contare su di noi. Il Tombino, Spiridione e persino Dormidormi mostrarono la loro fermezza nel rimarcare che a costo di combattere fino allo stremo non avremmo dovuto cedere a quei vandali. Avremmo combattuto impavidi sotto il suo comando, al suo fianco, nessuno si sarebbe tirato indietro.
Il Barone aveva quasi l’età per la moto con la targa. Alto, ben piazzato, spalle larghe, muscoli definiti. Godeva di una agilità invidiabile, era coordinato e armonioso. Aveva più esperienza e coraggio di tutti noi messi insieme. Amava il contatto fisico. Aveva già partecipato a veri e propri scontri corpo a corpo, con il fratello maggiore, nelle manifestazioni studentesche. Era l’unico fra noi che frequentava la novità assoluta della Città: la Palestra. Ci raccontava di macchine per i dorsali, per i pettorali, per le gambe. Di pesi, bilancieri, di kili alzati sulla panca.
Lo ascoltavamo affascinati.
Ci mostrava i movimenti delle discipline orientali imparati ai corsi a cui partecipava: judo, karate, aikido. Maneggiava con disinvoltura le armi orientali. In tutti i quartieri gli veniva riconosciuta grande abilità e lealtà. Si compiaceva nel vantarsi della sua forza quando lottava con noi, per mostrarci le tecniche del combattimento corpo a corpo, ma smaniava all’idea di poter avere fra le mani un nemico vero, un’opportunità per lasciare un segno nella storia del quartiere, per arrivare alla gloria. Nonostante l’aspetto imponente, manteneva un atteggiamento signorile, non perdeva mai occasione per dimostrare la sua nobiltà d’animo, anche se a volte appariva un po’altezzoso ed egocentrico. Vestiva alla moda: pantaloni a zampa di elefante, camicie con colletti larghi e, di tanto in tanto, non disdegnava la giacca. Soprattutto con le ragazze si mostrava sempre molto galante. Da tutto questo traeva origine il suo soprannome.
Con noi si poneva in modo fermo e sicuro, non strafottente, mai arrogante. Era autorevole e carismatico, ma guai a sfidarlo apertamente, non avrebbe tollerato il benché minimo accenno di sfida pur di battersi, con chiunque.
Il Barone credeva molto nella legalità, aveva rigidi principi di lealtà morale. Nelle assemblee sottolineava spesso che il nostro modo di comportarci doveva essere per noi motivo di vanto e di forza: la nostra correttezza, il nostro rispetto per le altre bande della Città, l’osservanza delle norme. Noi eravamo dalla parte giusta, dalla parte della legalità, non dovevamo temere, dovevamo avere fiducia come l’aveva lui.
La Giustizia era con noi.
II
Venne il giorno tanto atteso e temuto.
Era uno di quei pomeriggi assolati che preannunciano l’estate.
Arrivarono in tanti, tantissimi, accompagnati dal rumore sinistro delle loro moto. Si schierarono uno di fianco all’altro lungo il muro della Scuola. Non se ne vedeva la fine. Il loro aspetto angosciante rivelava la loro natura di combattenti incalliti e le tracce evidenti delle battaglie precedenti. Magliette strappate, coperchi dei bidoni usati come scudi visibilmente ammaccati, ginocchiere da pallavolo macchiate d’erba indossate su braccia e gambe, manici di scopa spezzati.
Erano guidati dal loro celebre capo, il Mostro, piazzato due passi più avanti rispetto all’interminabile fila. Il Mostro stava ripetendo per la terza volta la prima media, aveva fama di picchiatore spietato, ma anche di fine stratega nei combattimenti.
Li guardammo.
Non avevamo alcuna possibilità di vittoria nello scontro diretto corpo a corpo, eravamo tre volte meno.
Questo il Barone lo sapeva bene.
Ci schierammo anche noi. Tutti sul muro di cinta, al sicuro.
Quelli delle elementari ai due estremi, poi su su in ordine di altezza verso il centro dove c’erano il Barone e i suoi sub-comandanti, il Minotauro, Sghi e il Rospo.
Anche noi bardati per la battaglia, ma le nostre bardature erano intonse. Il Chiarugino indossava addirittura il completo da portiere di hockey del fratello.
Gli sguardi minacciosi si incrociarono dall’alto al basso e viceversa.
Ci mandarono a dire che se volevamo eravamo ancora in tempo ad evitare lo scontro, bastava consegnare loro le cose più preziose. Pretendevano le reti delle porte, due palloni, quelli di cuoio, e infine la richiesta più offensiva: il nostro completo per le partite.
«Mai» proruppe il Barone, rifiutando sdegnosamente da far suo l’inaccettabile offerta: «Anzi la morte che cedere al disonore di una resa tanto umiliante e per di più senza combattere».
La battaglia si profilava inevitabile all’orizzonte.
Anche i ragazzi del Porto sapevano che l’unico modo per raggiungerci ed
attaccarci era attendere la sera, quando la vecchia Valcoria, la bidella della Scuola, apriva l’ampio cunicolo che univa il cortile all’esterno per far mangiare i suoi innumerevoli gatti. Il cunicolo rappresentava l’unica via di accesso al campo e di contatto tra gli schieramenti.
Attesero.
Il Barone predispose tutto.
Il Ribò, la Peste e il Piffero, i tre delle medie più tosti e capaci, presero posizione all’uscita del cunicolo pronti a ricevere nella maniera dovuta gli indesiderati ospiti. Noi fummo schierati in buona parte a presidiare il muro, più per ostentazione di forza che per necessità. Alcuni invece come seconda linea nei pressi del cunicolo.
Alla solita ora, la vecchia Valcoria aprì l’unico varco e si allontanò.
I ragazzi del Porto si precipitarono urlanti, ma, costretti ad entrare uno alla volta, furono sistematicamente malmenati e facilmente respinti, Ad ogni tentativo di ingresso il nostro valoroso trio scaricò una gragnola di colpi sul primo malcapitato che spuntava dal cunicolo, inducendo a desistere i successivi.
La tattica funzionò e il pericolo parve scampato.
Il Mostro, scaltro e perfido, conosceva bene l’arte della provocazione. Dopo aver realizzato che in tal modo era impossibile espugnare il nostro territorio, sollecitò le corde più sensibili del Barone, nel frattempo rimasto sul muro ad osservare, superbo e soddisfatto.
«Ti dai tante arie da guerriero leale, ma alla fine sei un codardo che evita di battersi» disse il Mostro sogghignando.
Il Barone si fermò all’istante. Rimase immobile a lungo. Il suo corpo statuario sembrò vibrare attraversato da una rabbia a stento contenibile. Ferito nell’orgoglio. nei sentimenti più nobili, sfidato davanti a tutti.
La sua figura tesa si stagliava sul muro tra gli ultimi raggi del sole al tramonto.
Sembrò si fosse fermato anche il tempo.
Momenti interminabili.
Conoscendolo sapevamo quanto desiderasse battersi, misurarsi nello scontro, dimostrare la sua forza, ostentare il suo eroismo, rimanere ricordo indelebile nelle nostre menti e in quelle delle ragazze che l’avrebbero ammirato da lontano. Ci preparammo alla decisione che avrebbe consentito ai ragazzi del Porto di affrontarci faccia a faccia.
Finalmente, quasi di scatto, si mosse e ci guardò altero.
Il Barone passò in rassegna la “truppa”.
Ci arringò con veemenza, uno ad uno. Ci parlò col cuore al cuore. Si soffermò in particolare con Olivolì, Serricciolo e il Minosse, i più giovani delle elementari. Infine si rivolse a tutti noi con parole sferzanti e cariche di nobile spirito di battaglia. Ripeteva di rimanere compatti, uniti, di combattere uno per l’altro, di non mollare mai, nemmeno di un centimetro. Chiamò a raccolta i suoi attendenti, confabulò con loro e ordinò di metterci in posizione da combattimento, quindi scomparve dalla nostra vista.
Calò il silenzio nell’attesa della battaglia.
Si udiva soltanto la sirena di qualche ambulanza di passaggio.
Inquietante presagio.
All’improvviso: frastuono, grida, lamenti.
III
Sono trascorsi ormai più di nove mesi dal giorno della battaglia.
A Città-Giardino tutto è cambiato.
L’erba nel campetto da calcio cresce alta.
Ancora oggi si parla di quel giorno. Dei denti che battevano per la paura, della tensione, degli sguardi di sostegno, delle pacche sulle spalle, del ringhiare, del sentirsi un corpo unico, di quella reciprocità che ci aveva trasmesso il Capo. Ma soprattutto ancora si commentava quella frase pronunciata dal Barone con voce tonante prima di sparire: «Qualsiasi cosa accada, attenzione, dico qualsiasi – rimarcò minaccioso – nessuno lasci la propria posizione fino a mio ordine. Continuate a presidiare il cunicolo e non fate entrare nessuno. Chi disobbedirà dovrà fare i conti con me».
Ancora vivido è il ricordo di ciò che accadde poco dopo.
Il rombo, il grido agghiacciante lanciato mentre si scagliava a tutta velocità in sella alla sua vespa contro il Mostro, piazzato in mezzo ai suoi.
Il Barone si gettò all’assalto.
Da solo.
Nel silenzio carico di tensione si era dileguato, era uscito, probabilmente, dalla porta principale della Scuola, ingannando con una scusa la vecchia Valcoria. Aveva lasciato la vespa in una stradina adiacente di scarso valore strategico per quelli del Porto e proprio per tale ragione ideale per il suo intento di coglierli di sorpresa, come poi avvenne.
Doveva lavare l’onta dell’oltraggio subito dalle parole del Mostro e doveva farlo nel modo a lui più congeniale: da eroe.
Elegante e poderoso nei movimenti, guerriero esperto, dimostrò finalmente tutto il suo valore nello scontro, il coraggio di chi ha dentro l’impeto del combattente e la fiducia assoluta di essere nel giusto. Lasciò una scia di corpi doloranti dietro di sé. Si batté come un leone. Riuscì a raggiungere il Mostro. Lo colpì più volte con colpi da maestro, lo fece rotolare per terra. Si avventò su di lui come una furia. Poi scomparvero entrambi sommersi da quella massa di barbari esagitati nel frattempo accorsi dalle retrovie.
Ancora fresco è il ricordo del nostro sbigottimento.
Per il Barone troppo ardua era la scelta tra i due sacrifici.
Sacrificare l’incolumità della sua banda e il suo territorio, accettando lo scontro in campo aperto, conducendo i suoi a sicura sconfitta, sebbene onorevole. Oppure, sacrificare la sua natura di combattente nato, orgoglioso, mai domo. Il suo onore di Capo, la sua fame di fama imperitura.
Non sacrificò nessuna tra le due alternative.
In quel gesto estremo e disperato c’era tutta la tensione orgogliosa che attraversava l’animo del Barone.
Così conciliò il lacerante contrasto interiore.
Scelse di non scegliere.
Appagò entrambe le spinte che lo spaccavano in due, che lo tiravano in direzioni diametralmente opposte.
Seguì la sua indole di guerriero in cerca di gloria sul campo e nelle memorie. Cercò disperatamente il contatto, i corpi, l’onore delle armi. Per lui, in quell’impresa improbabile, vittoria e sconfitta si confondevano, risaltava e rimaneva soltanto la gloria di chi aveva osato.
Al contempo non rinunciò alla responsabilità di Capo giudizioso, alla coscienza del suo ruolo guida della collettività. Mai avrebbe potuto mettere a repentaglio inutilmente la sua banda e il suo “regno”. Non espose i suoi all’inevitabile massacro dello scontro in campo aperto.
Fu unico e solo. Come i grandi condottieri.
Trovò la gloria.
Si rese indimenticabile.
Il Barone non si presentò più a Città-Giardino dopo che, per la prima volta, l’avevamo visto soccombere, sebbene in condizioni impari.
Non l’avrebbe sopportato.
Non si sa che fine abbia fatto. Girano voci che ora viva da una delle nonne, non si sa in quale quartiere e quale scuola frequenti.
Certo è che, fra noi, restati padroni del quartiere, quella fu una giornata memorabile.
La giornata della battaglia di Città-Giardino.
La battaglia che non fu.
[1] marinare la scuola, non andare a scuola
[2] la Polizia
Davvero un racconto epico!
Sembra di vivere il tempo in cui i ragazzi erano divisi in gruppi “da cortile”. I bei tempi degli anni 70 quando tutti avevano un soprannome che li avrebbe accompagnati per tutta la vita. Mai un nome proprio, solo soprannomi improbabili ma che sottolineavano il carattere o anche solo una caratteristica fisica, mentale o morale. Bella la costruzione della storia con questo leader tra il nobile e il plebeo che guida il gruppo e poi scompare di scena. Bella scrittura, scorrevole e corretta. Bravo!