Premio Racconti nella Rete 2023 “La forma delle nuvole” di Simona Visciglia
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Io ho paura delle nuvole, della forma delle nuvole.
Prima di uscire di casa, resto interminabili minuti a fissare il cielo dalla finestra della camera da letto, poiché questa si trova esposta sullo stesso lato del cancello dal quale devo uscire.
Il pezzo di cielo che vedo da lì dovrebbe, quindi, corrispondere a quello che avrò sulla testa quando sarò fuori.
A volte le nuvole sono solo fiocchi di zucchero filato – quanto mi piaceva da bambino impastarmi la bocca con quella sostanza dolcissima e un po’ ruvida!
Altre volte sembrano lanugine scomposta, come quella che mio nonno usava per riempire i cuscini, che approntava lui stesso in casa, con le sue sapienti mani.
Spesso però le nubi si addensano e si animano e diventano mostri.
Come grandi blatte bianche fagocitano ogni altra cosa, soprattutto le mie sicurezze, e crescono, si fanno enormi; o sono simili a giganteschi ragni lattiginosi che si cibano delle mie paure, apparecchiando le loro tele azzurrine.
E dunque osservo, scruto in lontananza. Testo il vento, che inaspettatamente può trascinarsi dietro innumerevoli atrocità cangianti; lo faccio come mi aveva insegnato un mio cugino quando eravamo bambini: inumidisco con la saliva il dito indice e lo espongo all’aria, per sentire meglio da che parte tira il vento e quanto è forte.
È un rito che compio tutti i giorni, perlomeno tutte le volte che mi tocca uscir di casa. Eh, sì, perché lo confesso, se potessi, eviterei.
Eviterei di avere gli incubi che mi aleggiano sulla testa.
Dopo aver disegnato una mappa che inevitabilmente è sempre approssimativa, mi avventuro, varco la soglia di casa, prendo l’ascensore e, nei pochissimi minuti che mi separano dal cancelletto esterno, ripasso le forme di cui ho preso nota, cercando di tenere a mente quelle che più probabilmente potrebbero divenire pericolose.
Diciamo che ci sarebbe un trucco per restare indenne, almeno fino alla macchina, che purtroppo non è mai parcheggiata proprio sotto casa. Ecco, in pratica mi basta non alzare lo sguardo, camminare con il capo leggermente chino, cosa non del tutto controproducente, visto che il marciapiede da queste parti è spesso punteggiato delle deiezioni di bestiole carinissime con padroni assai distratti o totalmente maleducati.
Quando arrivo alla mia vettura, un po’ mi rassereno, se non altro perché sono di nuovo al chiuso e il cielo non può toccarmi finché resto nell’abitacolo, al riparo.
Mi ricordo che quando ero molto piccolo mio padre mi portava a fare un giro nella nostra Cinquecento color crema per farmi addormentare. Mia madre era abbastanza disperata per colpa mia, non volevo saperne di addormentarmi dopo il Carosello, come allora si usava e come riusciva a fare con gli altri due miei fratelli, addirittura un po’ più grandi e vivaci di me. Nonostante infatti io non fossi un bimbo capriccioso, arrivato il momento di andare a nanna, attaccavo la lagna e mi agitavo, trovavo mille scuse per non andare al “Teatro Bianchini, tra lenzuola e cuscini”, come amava ripetere mia nonna, quelle rare volte che si tratteneva a casa nostra fino a sera.
Toccava a mio padre prendermi, infagottato nel pigiamone e in una coperta bella calda, e portarmi in giro per il quartiere, camminando piano piano, cullandomi, al riparo nel piccolo abitacolo. Chiudevo docilmente gli occhi e diventavo tutt’uno coi sedili marroni di pelle consumata.
Da adulto ho pensato che la nostra piccola utilitaria fosse una bolla di pace, metafora del grembo materno. Il soddisfacimento di una nostalgia mai sopita, forse ancora adesso, chissà! Psicologia da quattro soldi, ma a pensarci bene con un suo perché.
E a proposito di analisi, non sono sempre stato così, cioè non ho sempre avuto questa strana fobia.
Ho provato infatti a riavvolgere il nastro, a focalizzare sull’istante preciso della svolta, sul quando, come, perché a un certo punto io mi sia ritrovato a fare i conti con quelle creature inconsistenti e spaventose.
Insomma, c’era stato un giorno? Un giorno zero, una data, un punto di rottura?
Continuo a chiedermelo, davvero ancora non lo so.
Ho avuto decisamente un’infanzia felice. Insomma, normale, senza scossoni, senza episodi eclatanti.
Ero un bambino tranquillo, se escludiamo il rapporto complicato con il sonno.
Poi sono diventato un ragazzino altrettanto tranquillo, forse anche un po’ solitario, ma non troppo da destare preoccupazione. Avevo già abbastanza compagnia in casa, con i fratelli, qualche cuginetto che gli zii venivano ad abbandonare a casa nostra nei pomeriggi di tutta la mia infanzia, i nonni, le figurine dei calciatori, i fumetti di Topolino.
L’adolescenza è stata inquieta come quella di chiunque altro, né più né meno.
Sono stati gli anni in cui ho carpito i segreti ai miei fratelli maggiori, per non essere impreparato con le ragazze. Studiavo, uscivo un po’ di più con gli amici, pochi, e sognavo tanto. Sono stato un sognatore, in effetti. Non so nemmeno cosa mi frullasse per la testa, ma mi torna spesso in mente il rimprovero bonario di mia madre:
– Dormi sempre troppo poco, ma recuperi con gli occhi aperti!
Ero decisamente uno con la testa tra le nuvole, questo me lo faceva notare soprattutto la mia fidanzatina del liceo, probabilmente con disappunto, perché dimenticavo di passarla a prendere all’orario concordato o commettevo altre piccole dimenticanze, per lei imperdonabili – l’anniversario del primo sguardo dolce o della prima sigaretta insieme. Eh, non proprio eventi storici, questione di punti di vista.
(Poi lei era morta in un incidente d’auto, guidavo io, fresco di patente).
La testa tra le nuvole, buffo, no?
Come se adesso io fossi terrorizzato dalla stessa sostanza dei miei pensieri, un contrappasso dolorosissimo.
In breve, potrei sorvolare su tutta la mia vita, lo dico senza modestia.
L’università, il lavoro trovato quasi subito, qualche relazione più matura, una vita veramente ordinaria, quasi serena.
Eppure da sempre mi porto addosso come una sensazione di fastidio, di imbarazzo, di disagio.
Disagio direi che è il termine propriamente più adatto. Come avere sempre qualcosa fuori posto.
Come un grumo irrisolto dentro di me.
Come una nuvola densa.
Una nuvola dentro.
E la forma delle nuvole è imprevedibile.
Questa cosa che mi porto dentro e che non saprò mai cos’è.
Convivo con il cielo pesante, convivo con quello che ancora non so o che ho dimenticato.
Quello che importa è che io abbia sempre un rifugio sicuro, una finestra da cui guardare e la mappa approssimativa di tutte le mie nuvole.
Davvero toccante.. affronta una tematica purtroppo non rara… bello, complimenti!
Grazie mille! Fa piacere sapere di riuscire a trasmettere delle emozioni… o almeno ci proviamo, no?
Complimenti per questa analisi così coinvolgente. Brava, soprattutto nel sottolineare in una breve parentesi – sorprendente – l’elemento cruciale della narrazione.
(Veramente anch’io ho un po’ di diffidenza verso le nubi, mi intristiscono e mi agitano … beh, da oggi so di non essere la sola!)
Grazie, Elvira, per aver letto e commentato. A me le nuvole piacciono tanto, in realtà 😉
Sempre emozionante leggere e apparentemente non capire, nell’attesa che arrivi qualcosa che possa svelare.
Tu lo fai in modo davvero originale. Un bellissimo racconto, complimenti Simona
Avere “rivali” come te è preoccupante e motivante!
Complimenti, mi è piaciuto molto.
Bravissima, mi è piaciuto leggerti.
Complimenti! Bellissimo racconto.
Ragazzi, grazie a tutti, grazie per avermi dedicato del tempo e per i commenti lusinghieri.