Premio Racconti nella Rete 2023 “Il coraggio di ricominciare” di Lilla Anagni
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Camminava veloce, il vento gelido sul volto la faceva sentire viva. Infelice, ma viva. Perché se tutte le mattine si alzava, andava al lavoro, sorrideva accogliente, tornava a casa per ritrovarsi nella silenziosa solitudine significava che era ancora viva. Anche se spesso non riusciva a cenare, perché dimenticava di fare la spesa e davanti al frigo vuoto si diceva che, dopotutto, non era male saltare qualche pasto.
- Sono ancora viva. Infelice, ma viva. Sola, ma viva.
Si diceva, mormorandolo piano. Sopportando lo sguardo, che si rifiutava di considerare, di qualche passante curioso. D’altra parte, sotto il berretto che le copriva la fronte, finendo quasi sugli occhi, avrebbe potuto nascondere gli auricolari dello smartphone con cui ascoltare la sua musica preferita o chiacchierare con l’amico del cuore. Che poteva saperne la gente che lei non aveva più amici, che non aveva più nessuno da chiamare al mattino per rassicurare e rassicurarsi, a cui augurare la buona notte dopo avere raccontato della giornata appena trascorsa? Cosa avrebbe dovuto raccontare poi delle sue giornate che trascorrevano nella lenta monotonia della ripetitività senza sbocco?
- Dottoressa, buongiorno.
L’usciere, in piedi dietro la vetrata che chiudeva l’ingresso quando il pesante portone di legno veniva spalancato, le si fece incontro salutandola con un mezzo inchino.
- Buongiorno, Alfredo.
- Freddo, eh dottoressa! Anche oggi si gela: la primavera quest’anno ci fa penare. E pensare che siamo quasi a Pasqua.
- Già, c’è freddo, Alfredo.
Muovendosi rapida verso l’ascensore, Marina sentiva accanto a sé la presenza rassicurante dell’anziano custode che, come ogni mattina, l’affiancava nel breve tratto, quasi a volerla proteggere. Le faceva piacere quella gentilezza che sapeva riservata solo a lei.
- Dottoressa, anche oggi lei apre l’ufficio. Prima o dopo le daranno l’indennità di apertura
- Certo, Alfredo, come no?
L’ascensore si aprì sull’ultimo piano, interamente occupato da uffici. Si sentì subito confortata dal caldo soffiato da griglie discrete disseminate lungo le pareti. Da lì a qualche ora, sarebbe diventato insopportabile e sarebbero iniziate le discussioni dei colleghi fra chi avrebbe voluto spegnere e chi, invece, si opponeva.
Accese il pc e raggiunse lo spogliatoio per liberarsi del cappotto e potere godere nella solitudine del piacere del caffè che la macchinetta faceva sgorgare cremoso e profumato. Era quel momento che le rendeva sopportabile l’intera giornata di lavoro e la pettegola loquacità dei colleghi.
- E buongiorno. Anche oggi hai aperto l’ufficio? Guarda che non ti danno nessun premio.
Il sarcasmo di Alberto, ben noto a tutti, non riusciva a toccarla: ben altro aveva sopportato nella sua vita precedente.
- Finiscila, sei proprio ripetitivo e noioso con le tue battute sempre uguali.
- È arrivata l’avvocato delle cause perse. Mi fate ridere.
- Ridi, ridi che questo solo ti resta.
- Grazie, Amalia.
Aveva sorriso alla collega, che già altre volte si era dimostrata solidale e aperta nei suoi confronti, e aveva raggiunto la sua scrivania pronta ad iniziare l’ennesima infinita giornata di lavoro.
- Hai portato il pranzo da casa?
Amalia si era affacciata dall’apertura della parete divisoria che delimitava i vari spazi adibiti ad ufficio e le sorrideva amichevole. Marina provava simpatia per quella giovane donna, dall’aria soave e sempre disponibile. Nell’altra vita sarebbero già diventate amiche. Nell’altra vita. Nella vita che stava vivendo lo aveva, fino a quel momento, evitato.
- No, veramente no. Non ci ho pensato. L’ho dimenticato. Prenderò uno snack dal distributore.
- Basta con gli snack del distributore. Sto prenotando al macrobiotico.
- Io, veramente …
Lo sguardo sinceramente affettuoso di Amalia non le consentì di continuare. Per una volta, avrebbe anche potuto concedersi un pranzo con la collega. Persino al macrobiotico. Perché no?
Così, durante la pausa pranzo si ritrovò nella penombra discreta del macrobiotico assieme a Amalia. Il tavolo, essenziale, di legno pesante, predisposto con delle tovagliette di carta paglia, era stato collocato vicino all’enorme vetrata che guardava alla piazza medievale.
La scelta dal menù, scritto con gessetti colorati su tavolette d’ardesia, si rivelò impresa impegnativa: Amalia si districava agevolmente, ma Marina rischiava di annegare nel mare magnum di tarassaco, spirea, zenzero, miglio, sorgo e cereali la cui esistenza per lei era limitata alle pagine del vecchio libro di geografia che descrivevano l’agricoltura di Paesi lontani.
Si ritenne soddisfatta, tuttavia, quando la cameriera le posò davanti una zuppa di cereali e verdure, profumatamente invitante, consigliata da Amalia.
- Cosa ti ha portato qui da noi?
Si aspettava la domanda di Amalia: si sapeva che il suo trasferimento era avvenuto su sua precisa richiesta, ma non tutti erano a conoscenza del fatto che si era trattata di una copertura, che la sua collocazione era stata disposta da un magistrato per proteggerla e consentirle di costruirsi una nuova esistenza.
Per prendere tempo e trovare una risposta convincente, si asciugò con il tovagliolo e sorseggiò la sua tisana, sotto lo sguardo imbarazzato di Amalia che, probabilmente leggendo sul suo volto quello che cercava di soffocare, tentò di rimediare.
- Scusami, non sono fatti miei.
- No, no, figurati. Diciamo che avevo bisogno di cambiare aria, di girare pagina, di mettere un punto alla mia vita e ricominciare da capo.
L’accozzaglia di luoghi comuni le suonò improponibile già prima che avesse finito.
- Ti capisco perfettamente. Anch’io a volte sarei tentata. Anzi, più che a volte, ma non sono così coraggiosa.
- Non è che io di coraggio …
- No, no, invece. Infatti, sei qui, lontanissima dalla tua Sicilia.
- Si certo vista così.
- Come altro vuoi vederla?
Non sapeva come vederla. Aveva smesso di porsi domande, di cercare ancora ragioni dove non ce n’erano. Il percorso di analisi era servito soprattutto a questo, ma non era riuscito a cancellare le cicatrici del suo corpo, e ancor meno quelle dell’anima.
Dopo la pausa pranzo lavorare risultò complicato: era stata bene con Amalia, la cucina macrobiotica si era rivelata squisita, l’ambiente confortevole, tanto che aveva accettato di ripetere l’esperienza.
- Almeno una volta a settimana.
Aveva insistito Amalia estorcendole la promessa con ferma dolcezza, la stessa che mostrava al lavoro nei confronti dei colleghi, ma anche dei superiori. Le piaceva quella giovane donna dallo sguardo limpido che la luce dell’esterno (mai prima di quel giorno si erano incontrate fuori dall’ufficio) le avevano fatto scoprire profondo e verde. Le piacevano i suoi ricci rosso tiziano e il viso tempestato di lentiggini. Le piaceva l’entusiasmo con cui l’aveva presa sottobraccio rientrando in ufficio: per la prima volta, dopo tantissimo tempo, si era sentita accolta. Aveva avvertito che poteva tornare ad avere un’amica alla quale raccontare di sé.
Nella vita precedente aveva dovuto rinunciare alle sue amiche, aveva dovuto allontanarle visto che a lui non piacevano:
- Puttanelle. Non le vedi? Svestite, truccate, sfrontate … Tu ora stai con me. Mi vuoi compromettere, confondendoti con queste puttanelle?
Aveva iniziato da subito, insistendo di continuo, trattando male le sue amiche le rare volte che lei era riuscita ad organizzare delle serate, manifestando il proprio disgusto con atteggiamenti sempre più sprezzanti. Aveva dovuto scegliere. Aveva scelto quello che aveva creduto fosse amore. Si era immaginata sposa felice, accanto ad un uomo innamorato, sensibile, intelligente. Un sogno da cui si era dovuta svegliare presto.
Se solo avesse dato lasciato spazio a quanti avevano espresso perplessità su certi episodi che lei non aveva saputo, né voluto, leggere. Sua madre, le amiche, le zie. Persino la nonna, lei che era vissuta oltre cinquantenni con lo stesso uomo, apparentemente obbediente e sottomessa, alla fine di un pranzo di Natale, l’aveva presa per mano e le aveva sussurrato:
- Picciridda, Michele non fa per te. Non mi piace come ti tratta. Troppe cose guarda.
- Ma nonna che ne sai tu? Si interessa a me e alle mie cose perché mi vuole bene. Che ne puoi sapere tu?
Ancora adesso provava vergogna per la risposta che aveva dato, con tono arrogante, a quella dolce vecchina silenziosa, ma acuta, che aveva saputo leggere quello che lei non riusciva a vedere.
Era lui che le sceglieva i vestiti: niente pantaloni “perché si vedono le forme e fanno puttana”.
Camicette chiuse fino al collo “perché le puttane mostrano il petto”. Gonne sotto il ginocchio, meglio se al polpaccio e “non sia mai che accavalli le gambe in pubblico”. Scelte che nemmeno sua madre condivideva, ma che lei accettava passivamente.
- Figlia mia, nemmeno io mi vesto così. Hai vent’anni, non settanta.
Lei non ascoltava, non si lasciava sfiorare dal dubbio. Anzi, cominciava a diffidare persino della sincerità e dell’affetto di chi l’aveva cresciuta ed amata.
Avrebbe dovuto vedere, i segnali non mancavano, ma non aveva saputo leggerli: la sua mente era obnubilata al punto che aveva rinunciato alle sue aspirazioni professionali.
Dopo la laurea, con il massimo dei voti e la lode accademica, aveva ricevuto una menzione per la pubblicazione del suo lavoro (il relatore le aveva promesso che sarebbe finito in una rivista internazionale) e la proposta di un assegno di ricerca.
- Solo una cretina può credere che farà carriera all’università. Il professore vuole solo portarti a letto. Non li leggi i giornali? E poi tutto è pronto per il matrimonio, dobbiamo solo fare le carte.
- Scusa, pronto cosa? Io non ho preparato niente.
- Perché io aspettavo te? Mentre giocavi a fare l’intellettuale, ho fatto sistemare la casa che i miei mi hanno ceduto. Quella di Corso Umberto. Ho pure fatto portare i mobili
- Scusa quali mobili?
- Quelli che ho comprato e quelli che mi hanno dato i miei dalle case che non abitiamo
- Ma ci dovrò abitare io in quella casa, non devo essere io a scegliere i miei mobili?
- Che vuoi scegliere tu? Non vedi dove abiti? I mobili dei miei sono antichi, di grande valore.
- Che a me non piacciono.
- Te li fai piacere così cominci ad avere buon gusto.
Aveva cercato di ribattere, ma lui le aveva stretto un braccio con forza, procurandole un livido che per giorni le aveva fatto male. Non lo aveva raccontato a nessuno. Aveva deciso di fingere. Fingere che amava la casa che lui aveva preparato, che fosse quella la casa desiderata e scelta, il suo nido d’amore. Fino al giorno delle nozze: l’incubo più cupo della sua vita.
Lui, assieme alla madre, aveva scelto il suo abito da sposa. Marina avrebbe dovuto solo provarlo e pagarlo, ma non si era lasciata convincere. Aveva deciso che almeno l’abito delle sue nozze lo avrebbe scelto lei, secondo il proprio estro ed il proprio gusto. Una scelta che le era costata cara.
Quando aveva fatto ingresso in chiesa al braccio del padre aveva visto il suo sguardo gelido e la madre che lo strattonava mormorandogli qualcosa all’orecchio. Non le aveva parlato, né l’aveva guardata per tutta la cerimonia. In macchina, poi, le aveva detto all’orecchio che gliela avrebbe fatta pagare.
Quando a tarda notte si erano ritrovati soli nella casa che lui aveva scelto, che lui aveva arredato, le aveva strappato l’abito e lo aveva incendiato nella vasca da bagno. Poi l’aveva presa per i capelli e, strattonandola, l’aveva buttata sul letto, dove aveva usato il suo corpo.
- Togli quella schifezza dalla vasca da bagno e buttalo nella spazzatura.
Mentre dormiva aveva avvertito una fitta al braccio: era lui che la scuoteva dal sonno, costringendola ad alzarsi per sbarazzarsi del suo abito da sposa.
Aveva provato a parlare, ma lui l’aveva fermata con uno schiaffo che l’aveva fatta sanguinare dalla bocca. Così, con l’amaro delle lacrime che si confondevano con il sangue, muovendosi come un automa, aveva raccolto quel che restava del suo abito da sposa e lo aveva chiuso in un sacchetto della spazzatura, come qualcosa di immondo. Poi si era chiusa in bagno e sotto la doccia aveva cercato di lavare la vergogna e l’offesa, la rabbia ed il dolore.
- Hai visto che succede a comportarsi come una bambina disubbidiente?
La sua voce era tornata carezzevole, accattivante, ma lei aveva schivato le sue mani che si avvicinavano per una carezza: disgusto e paura avevano iniziato ad occupare il suo animo, sostituendosi al sentimento che aveva provato per quell’uomo diventato nemico.
Disgusto e paura che lui riusciva ad alimentare, trattandola con disprezzo, criticandola e picchiandola. Una parola di troppo, una risposta non data, una camicia non lavata e stirata in tempo erano motivo di rimbrotti e di botte date con una precisione scientifica in punti del suo corpo non visibili, ma dolorosissimi.
La vergogna le impediva di aprirsi con chiunque, temendo il biasimo, sentendo su di sé ogni colpa. Per quasi due anni, aveva finto, aveva continuato a recitare il ruolo della sposina felice, impegnata nella gestione della casa, nell’organizzazione della nuova vita.
La domenica lui la costringeva a cucinare per i suoi genitori: non era un pranzo domenicale in famiglia, ma un esame da parte della suocera che ispezionava l’appartamento per verificare che ogni cosa fosse al posto giusto.
Fino a quell’ultima domenica di febbraio.
- Lo hai preso l’appuntamento dalla ginecologa per farla controllare?
Aveva parlato rivolta al figlio, come se lei non ci fosse.
- Di cosa state parlando?
- Zitta cretina. Sei così cretina che non ti poni nemmeno il problema che dopo diciotto mesi di matrimonio ancora non sei stata capace di rimanere incinta e mio figlio non è ancora padre.
Si era alzata dalla tavola, pronta a nascondersi in camera, ma era ritornata sui suoi passi. Poi, senza capire realmente quello che stava facendo, aveva preso un lembo della tovaglia tirandola giù e facendo finire sul pavimento piatti e bicchieri.
- Siete tre pazzi: mi fate schifo.
Aveva urlato con quanto fiato aveva in gola. Poi era scesa in strada e aveva iniziato a correre nel freddo. Si era fermata sul lungomare a osservare le onde che si sollevano invitanti: la tentazione di porre fine a quella vita era stata fortissima. Stava quasi scavalcando il parapetto di ferro che delimitava il lungomare e lasciarsi andare, quando l’idea che doveva fargliela pagare, che tutti avrebbero dovuto sapere quello che le avevano fatto, l’aveva bloccata.
Si era avviata lungo la strada e si era trovata accanto una volante: la poliziotta lato passeggero aveva guardato fuori dal finestrino e letto nel suo sguardo, nelle sue spalle ricurve, nelle braccia incrociate sul petto per difendersi dal freddo, nel suo volto devastato dalle lacrime e dal dolore il dramma che stava vivendo.
Il resto furono medici, psicologa, giudice e avvocati.
Furono silenzi e lacrime della sua famiglia che si era detta tradita dal suo silenzio.
Furono testimonianze di amici e parenti che aveva notato anomalie nel comportamento dell’uomo che lei aveva scelto come compagno. Perizie psichiatriche per accertare la salute mentale di entrambi.
A lui era stato diagnosticato un disturbo sadico di personalità che lo rendeva insensibile e spietato, capace di azioni crudeli e malvagie come quelle che lei aveva subito. Non aveva pagato: grazie alla posizione dei suoi genitori, ai rapporti di amicizia tra le alte sfere era stato sottoposto ad un percorso di riabilitazione. Un mare di menzogne che avevano infangato lei e la sua famiglia, facendola sentire sporca, fuori posto, l’avevano spinta ad accogliere la proposta del giudice e a trasferirsi lontano per tentare di ricostruire la propria vita.
Finalmente, era riuscita a raccontare si sé. Lo aveva fatto scrivendo una lunga lettera alla sua nuova amica verso la quale sentiva il bisogno di essere sincera, di condividere quel peso che ancora continuava ad impedirle di essere libera.
Aveva inviato il testo nella mail di Amalia e aveva spento il pc: la giornata di lavoro si era conclusa e sentiva il bisogno uscire in strada. Si sentiva una donna diversa da quella che una decina di ore prima era entrata in ufficio per l’ennesima giornata di lavoro, immaginata identica a tutte le altre.
Un racconto che ti fa riflettere su certi misteri dell’animo umano come il masochismo di chi si attacca alla persona che crede di amare anche se il carattere violento e oppressivo di questa persona è evidente, la psicologia di questa donna emerge con chiarezza dalle sue reazioni di sottomissione al fidanzato e poi marito carnefice e alla sua ribellione a chi cerca di metterla in guardia.
Grazie, per il bel commento al mio racconto e per avere speso del tempo a leggermi. Sono contenta che ti abbia colpito. Non parlerei, però, di masochismo. Piuttosto, ho voluto raccontare di quando l’amore rende deboli e ciechi. Purtroppo, accade che il desiderio d’amore non faccia vedere a fondo e che nel partner si proietti la persona immaginata nei propri sogni. Accade ad uomini e donne.
Molto bello, linguaggio semplice e diretto, molto evocativo, bravissima!