Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Ret 2011 “Polly” di Emanuele Andreuccetti

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2011

Come ogni venerdì pomeriggio, dopo il lavoro, mi piace fare una passeggiata per la campagna lucchese in cerca di qualche angolino suggestivo che richiami alla memoria la mia infanzia o il passato leggendario della periferia. Una volta trovato, prendo anche l’occasione per distendermi un po’ e per rilassarmi dalla frenesia e dallo stress accumulato durante la settimana.

Questo pomeriggio è già un po’ che sto camminando per un sentiero che mi dovrebbe portare fino alla Pieve di San Macario, una meravigliosa chiesa romanica il cui campanile si erge dalla pendice meridionale delle colline che separano la valle della Freddana da quella della Contesola.

Ma il mio interesse non è catturato, oggi, dalla splendida pievania quanto da un piccolo rudere di pietre grezze che, adornato di edere e clematidi, spunta dalla boscaglia. Mi avvicino così a quel rustico ormai diventato un mucchio di massi e calcina, incuriosito e soprattutto attratto da un insolito canto che si leva tra quelle pietre misteriose. Probabilmente il vento, accarezzando quei sassi e infilandosi furtivamente tra a una fessura e l’altra, sibila un certo suono che somiglia proprio alla voce di una sirena.

“Le pietre cantano!”, mi disse una volta Luigi riferendosi soprattutto al fatto che ogni pietra poteva raccontare, come un cantastorie, le vicende che l’avevano resa spettatrice o addirittura protagonista.

Quello che, invece, si leva da quel bosco umido e selvoso, pare sia proprio un vero lamento.

Giro, così, intorno al rudere, ferendomi anche con i pruni che impietosi si attaccano alle maniche della camicia e alla mia pelle.

Dietro riesco finalmente a scorgere che la fonte di tale gemito è una donna anziana chinata a raccogliere probabilmente funghi o castagne. La cortesia m’impone, allora, di rivolgerle per primo il saluto, ma dall’altra parte non ricevo alcuna risposta se non il vedermi puntato davanti un bastone lungo e nodoso.

«E lei, che ci fa qui?». Mi chiede la donna dopo un lungo silenzio che aveva imbarazzato entrambi.

Nel fare la domanda abbassa fortunatamente il bastone e, uscendo dall’ombra della boscaglia, si avvicina permettendomi, così, di vederla più chiaramente.

Il suo aspetto è simile a un animale selvatico spaesato che a un certo punto si trova di fronte al cacciatore e non sa che strada prendere per fuggire. I capelli, evidentemente lunghi, rimangono annodati dietro a cipolla, mentre sopra la testa spunta qualche rametto di agrifoglio importunato, anche lui, dal passaggio frettoloso e funesto di quella misteriosa vecchietta. Lo sguardo, indagatore e penetrante, noto che cerca di insinuarsi dentro la mia mente per carpirne qualche informazione sul mio conto e sul perché mi trovo a passare proprio in quel luogo così triste e desolato, buio e selvoso.

«Si trovano i funghi?». Domando per sviare la curiosità della donna che continua a fissarmi con quell’aria sospettosa.

«Non sto cercando funghi!». Ribatte quasi stizzita oltrepassandomi e riprendendo il sentiero che porta al paese. Poi come se si fosse dimenticata qualcosa si volge indietro e m’invita a seguirla.

«Beh? Vuole restare lì tutta la notte come un palo? Su, venga!».

Con uno sforzo immane mi faccio coraggio e seguo, non so perché, la vecchia che nel frattempo è riuscita ad aprire un cancellino ed entrare dentro una specie di orto dove ormai il freddo e il gelo hanno portato via gran parte della verdura. Seguendola come un docile cagnolino ed entrando anch’io nel recinto semi distrutto dal tempo e dall’incuria, noto qua e là alcune canne ancora rizzate a testimonianza della presenza, in passato, di qualche pianta di pomodori. In mezzo invece campeggiano ridenti “cardoni” che spuntano dalla terra con tutto il loro pallore ma anche con l’energia e la maestosità che compete alla loro stazza. Dietro fa capolino, invece, qualche piantina strana che non riesco bene ad identificare; forse qualche erba officinale o roba del genere.

«Venga, entri pure che le offro un bel caffè caldo che le darà un po’ di vigore».

L’invito della signora, che assomiglia più a un comando, mi distrae per un momento dai pensieri che mi frullano per la testa circa il mistero che circonda tutto questo pezzetto di terra che emana un non so che di arcano.

Finalmente riesco ad entrare in casa. Ad accogliermi trovo il caminetto acceso dal quale penzola un grosso paiolo affumicato in cui bolle, credo, una specie di minestrone.

«Oggi zuppa?» Gli domando per interrompere di nuovo il silenzio che imperterrito intervalla ogni gesto e ogni scoperta di questo giorno.

«Ehm… una specie! Ma non mi chieda di assaggiarla. Deve ancora bollire almeno per un ora. Ma si sieda, che preparo la macchinetta».

Non ho nessuna intenzione di assaggiare quel misterioso intruglio, anche perché il suo profumo è molto diverso da quello che usciva dalla pentola della mia nonna quando decideva di fare il minestrone con i cavoli neri e i fagioli dell’orto. L’unico profumo che, invece, mi sta attirando adesso è quello che accompagna l’inconfondibile rumore dell’uscita del prezioso liquido dalla caffettiera .

«Lo sa che in paese aiuto le donne innamorate ad adescare gli uomini più recalcitranti?». Interrompe il silenzio dei miei pensieri, la donna che nel frattempo sta riempiendo le tazzine.

«Ah! E come fa?». Gli domando incuriosito ma anche distratto dal cucchiaino che gira per mescolare lo zucchero.

«Semplice! Invento delle salse magiche che chiedo di mischiare ai cibi che verranno fatti mangiare agli quegli uomini che non corrispondono l’amore offerto. Una volta ingerita la porzione, all’uomo cadranno come delle squame dagli occhi e, finalmente si accorgerà della donna che ha di fronte, di quanto sia bella e desiderabile. E, così, i due potranno vivere insieme felici e contenti!».

«Eh! Bastasse una salsa… Lo sa quanti problemi si potrebbero risolvere. Ed invece…».

«È vero, non sempre funziona. Però a me basta che la gente ci creda, perché, vede, la salsa è solo uno strumento che metto nelle mani di timide fanciulle che altrimenti non riuscirebbero a farsi coraggio e a lottare affinché venga fuori quel forte sentimento che le sta sconvolgendo.

A volte basta una spintarella e la magia si compie da sola!».

«Beh, in questo caso…».

«Comunque mi sono specializzata nell’interrogare la sorte se un certo amore può essere corrisposto o meno. Vuol sapere come faccio? Glielo dico lo stesso… Prendo tredici fave, sette maschie e sei femmine e sopra vi traccio un segno di croce, dicendo: “Di Dio al nome sia, della Vergine Maria e della santa Lene: fatemelo vedere se lu’ mi vuol bene. Poi, metto le fave in un pezzetto di calcinaccio con un soldo, e rifatto per tre volte il segno della croce, getto le fave; se una “maschia” cade sul grembo della donna, il responso è favorevole.

Anche questo è un semplice pretesto che uso per aiutare quelle fanciulle inesperte a non illudersi troppo di fronte a un amore impossibile. Perché noi vecchi, grazie all’esperienza della vita, riusciamo a leggere un po’ più in là dei giovani e a vedere cose che alla mente vergine di un non ancora iniziato sembrano inverosimili. Questo è tutto ciò che la gente chiama magia! Vuole che provi anche con lei?».

«No, no grazie! Non ne ho bisogno! Tutto questo, però, sembra quasi assurdo nel nostro secolo, anche se mi ricordo di quando mia nonna faceva stranezze del genere. A volte, per sapere se avevo il malocchio prendeva una bacinella piena di acqua e vi faceva cadere alcune gocce di olio. Poi si metteva a recitare delle preghiere parte in latino e parte in italiano. Se durante queste orazioni le goccioline si spandevano, allora, voleva dire che avevo contratto da qualcuno una specie di fattura. Prendeva, così, un po’ di quel liquido e mi ungeva la fronte pronunciando altre formule misteriose. Dopo questi riti ero stato liberato dal malocchio…».

«Vede! Sua nonna era una strega, che, evidentemente, aveva ricevuto questo insegnamento da sua mamma, che a sua volta lo aveva ricevuto da sua mamma, e così via… Lei è il discendente di una famiglia di streghe! Bisognerebbe vedere se anche da parte di suo padre c’è stato qualche personaggio che ha praticato l’arte della magia!».

A pensarci bene, quando ero piccolo ho sempre visto mio padre nella sua bottega come un mago intento a trasformare tutto ciò che toccava in un opera d’arte. Quante volte l’ho lasciato con qualche tavola di castagno o di noce, per poi ritrovarlo in compagnia di un tavolino o di un comodino sbucati, così, dal nulla! Mah?!

«Perché anche lei è una strega?». Domando con l’intenzione di sviare la mia attenzione e preoccupazione circa una probabile genealogia famigliare fatta di maghi e di streghe.

«Così dicono in paese! Ma si sa, la gente sparla volentieri, soprattutto quando non riesce a spiegarsi ciò che esula da quella che è la cosiddetta normalità. Ma io non ci faccio caso, sa? Li lascio discorrere! Riconosco di essere un po’ strana, ma che ci vuol fare? Ogni tanto mi prendono come delle convulsioni e mi irrigidisco tutta. In quei momenti non voglio nessuno che mi tocchi, perché tanto non possono comprendere lo stato d’animo che sto vivendo. Mi sento come un’extraterrestre perché tutti stanno lì a guardare con quegli occhi impauriti e impotenti. E siccome non sanno che roba è, dicono che sono una strega posseduta da chissà quale spirito.

Quello che faccio, comunque, non è stregoneria, ma solo un modo per aiutare la gente a prendere un po’ più fiducia in se stessa e affrontare con più coraggio le difficoltà della vita. Se per raggiungere questo fine, le gente dice che uso dei mezzi un po’ strani, la colpa non è mia ma di coloro che non riescono a vedere più in la del proprio naso. Del resto anche nostro Signore, usò una volta un po’ di fango misto a saliva, per guarire un cieco! Ma sà, come dice un antico proverbio, quando il dito indica la luna, gli stupidi si fermano a guardare il dito!

E poi dicono che sono io la pazza? Quante volte li ho visti in piazza o per le vie, parlare, da soli, attraverso una macchinetta che portano all’orecchio? Li senti parlare e davanti non c’è nessuno. O sono diventati matti, oppure stanno usando anche loro uno strano strumento che serve per raggiungere il fine che si sono preposti in quel momento. Qual è la differenza con le mie pozioni?».

«Forse nessuna! Una cosa la chiamiamo magia l’altra tecnologia, ma tutte e due sono arti che, se utilizzate rispettando le leggi della natura e quelle di Dio, riescono a trasformare la materia grezza, mostrando, attraverso l’opera umana, la verità che è nascosta nelle cose, ciò che, altrimenti, rimarrebbe imprigionato nella realtà. Sono come delle pratiche che permettono uno svelamento».

«Come parla bene! Si vede che ha studiato! Mi scusi, ma mentre stava parlando mi sono distratta un momento dietro a un ricordo. Mi si è presentato davanti il giorno in cui ho iniziato a comportarmi in questa maniera così strana».

«Allora, che aspetta? Me lo racconti!».

«Tanti anni fa mentre stravo raccogliendo dei fiori e un po’ d’erba medica per i conigli, mi accorsi di un giovane carrettiere, che, lungo la strada delle Gavine, stava portando dell’olio al mercato. Appena lo vidi me ne innamorai subito. Fu come un fulmine a ciel sereno…».

«Che bello! Certo non capita tutti i giorni».

«È vero, però all’inizio non ebbi il coraggio di farmi avanti per paura di essere rifiutata. Cominciai, così, ogni giorno ad aspettarlo, nascondendomi nel cavo di una grossa quercia sopra la strada, e quando arrivava non smettevo di mirarlo passare sul suo carro appesantito da giare che danzavano, insieme al mio cuore, ad ogni buca che si apriva nella via.

Una mattina, non ce la feci più a contenere quell’amore che mi stava schiantando il cuore. Allora presi tutto il coraggio e il fiato che avevo, saltai giù dal poggio e, davanti al carro, urlai tutto quello che provavo per lui. Gli dissi che l’avevo sempre atteso con ansia e che tante volte, vedendolo passare così bello, gli avevo parlato nel silenzio».

«E lui?».

«Fece finta di non vedermi. Proseguì per la sua strada e sparì dietro il suo carico di cocci colmi d’olio. Non può immaginare lo strazio in cui caddi. Cominciai a piangere e a imprecare contro tutti, perfino contro il cielo: “Perché non mi ha degnato neanche di uno sguardo? Perché non mi ha neppure rivolto la parola anche solo per dirmi di no? Non sono mica un mostro! Ahimè, disperata e rifiutata da tutti, perfino dall’amore!”.

Pensai che quel rifiuto fosse dovuto alle malelingue del paese e, così, decisi di andarmene da quel luogo maledetto per meditare la più terribile vendetta verso quella gente indegna. Lei non sa che cosa è capace di pensare e di compiere una donna quando si sente ferita e rifiutata.

Ma dove andare? Non avevo nessuno vicino a cui chiedere ospitalità. Pensa che ti ripensa mi venne in mente che a Capannori avevo una zia di mia madre molto anziana che a mala pena mi conosceva. Decisi allora di andare da lei e chiedergli se per un po’ di tempo poteva alloggiarmi in casa sua; in cambio avrei provveduto alle faccende domestiche. Stranamente fui accolta come se fossi stata attesa da sempre. Ma non feci caso a questo atteggiamento e dissi alla donna che sarei rimasta solo pochi giorni. Mi fermai invece per qualche anno covando, dentro di me, un odio e un rancore sempre più crescenti per quella gente pettegola. Mia zia, vedendomi piangere continuamente ed assistendo, anche lei inerme, ai miei sempre più frequenti collassi cominciò a preoccuparsi, ma non mi disse mai nulla, rispettando i miei tempi e la mia indipendenza. Sembrava aspettare un evento o un segno che le rivelasse qualcosa su di me, ma non riuscivo a capire che cosa, concentrata com’ero a meditare la mia vendetta. Finalmente, un giorno in cui non ne potevo più di custodire un segreto così enorme, decisi di raccontarle la mia storia. Lei mi ascoltò in silenzio mentre io venivo liberata da quel limo che ribolliva dentro la pentola a pressione del mio cuore. Alla fine del racconto mi sentii come alleggerita.

Lei invece, sempre in silenzio, mi prese la mano e mi condusse in una stanza che non avevo mai visitato fino ad allora. Entrai così dentro un mondo semibuio, sulle cui pareti erano stati appesi quadri di santi, mentre in fondo adagiati su un tavolino tanti lumini accesi e grani d’incenso che bruciavano lentamente. Accanto vi erano state poste delle foto dei miei genitori e di parenti ormai defunti. Iniziai a piangere e cercai di fuggire perché quel luogo mi faceva paura. La zia invece mi tenne per un braccio dicendomi che ormai ero matura ed era venuto il momento di essere iniziata alle arti della magia. Io non capii subito quello che voleva dire perché, contadina com’ero, sapevo a malapena leggere e scrivere.

Da quel giorno e da quel luogo iniziò, così, un lungo apprendistato in cui imparai ad ascoltare quello che vivevo e a trasformarlo in energie positive. Era come se ogni emozione che veniva fuori dalla mia interiorità prendesse le sembianze di un animale feroce che io dovevo accogliere, ammansire e mettere dentro il pentolone della mia mente per farlo cuocere dal fuoco del perdono e dell’amore. Ed ogni animale accolto e cotto diventava una potente energia benefica che contribuiva a trasformarmi dentro e fuori.

Ogni giorno che passava divenivo sempre più sicura, mentre ogni lavoro che facevo su di me diventava come un potente balsamo che finalmente mi liberava dal limo dell’odio e del rancore.

Dopo anni di lavoro e di lotte con i miei animali interiori mi sentii pronta per ritornare alla mia casa a san Macario.

Appena arrivata, la gente non mi riconobbe.

Avevo una folta capigliatura corvina intrecciata e sorretta da nastri di velluto di tanti colori. I miei abiti non erano più quelli sudici e anneriti della contadina ma quelli lucenti e preziosi di una signora benestante. Questo mio modo di fare e di presentarmi infuse subito fiducia nelle persone del paese che cominciò così a frequentarmi.

Appena c’incontrammo mi venne raccontato del terrore provato anni prima quando entravano in quella casa dove abitava una donna strana che pareva avesse fatto, addirittura, un patto col demonio e per questo era stata cacciata via dal paese. Anzi, correva voce che le autorità l’avessero giudicata in un tribunale e dopo una sentenza sfavorevole fosse stata bruciata sul rogo come una strega.

Ma questa nuova inquilina era veramente diversa e la gente aveva iniziato a dare vita a una vera e propria processione composta soprattutto da giovani donne che, con la scusa di venire a prendere un caffè, non ci mettevano tanto a confidarmi i propri segreti e quegli amori a volte feriti che facevano tanto male. Si fidavano di me perché venivo dalla città e la mia signorilità incuteva loro un certo senso di rispetto e di timore.

E così mi trovai non solo a suggerire stratagemmi, ma anche a fornire dei piccoli aiuti come amuleti e pozioni particolari.

Come si diceva prima, la gente aveva bisogno non solo di parole ma anche di qualcosa di materiale che donasse loro la forza e l’energia per affrontare la vita».

«È stato veramente bello il suo racconto e, direi, anche commovente. Mi rendo conto che a volte prima di giudicare una persona bisognerebbe conoscerne la storia e il perché si comporta in una certa maniera. Mi ha fatto molto piacere ascoltarla. Ne terrò di conto…Ma adesso devo proprio andare».

«Aspetti un momento che le voglio fare un regalo».

La donna sparisce, per qualche minuto, dietro una scala di legno che evidentemente porta nella zona delle camere e della soffitta. Intanto l’odore acre che proviene dal paiolo riprende il sopravvento sull’aroma buono del caffè che ormai ha lasciato il posto, in fondo alla tazzina, a qualche granello di miscela uscito dal filtro. Mentre cerco di allontanarmi dal caminetto verso la finestra i miei occhi cadono su delle pergamene poste alla rinfusa sulla madia accanto alla cucina economica. Sembrano dei rotoli scritti a mano molto tempo fa e su cui riesco a malapena a intravedere alcune parole: “Orazione di san Daniele”. Non mi dice nulla questo titolo anche se, a pensarci bene, mi fa venire in mente di nuovo mia nonna, che ogni sera, prima di addormentarsi doveva dire le orazioni.

«Ecco lo prenda! E’ un unguento di mia produzione. Se lo deve portare in tasca tutti i giorni e se non vuole incontrare nessuno per la strada che la importuni o se desidera passare inosservato deve solo dire: “Unguento, mi’ unguento… portami più che il vento”. Ha capito?».

«Ho capito e la ringrazio molto per la sua gentilezza e per la sua ospitalità. Mi scusi però la maleducazione. Non le ho chiesto neanche come si chiama!».

«Mi chiami pure Polly. Qui tutti mi conoscono così».

«Allora arrivederci e grazie di nuovo, Polly».

Mentre la saluto sono già sul viottolo che mi porta finalmente alla macchina. Ma che ore sono? Le sette? Fra poco è l’ora di cena. Non mi sono neanche accorto di come il tempo sia passato così velocemente. Salgo in macchina e mentre percorro la via Sarzanese mi ritorna in mente la vicenda di Polly.

E’ veramente incredibile! Che si sia vera? Mah!?

Domani mattina quando vado da Luigi voglio raccontare la storia di questa strana vecchietta, per sentire che cosa mi dice e se anche lui ne ha sentito parlare.

Comunque, se mi ricordo bene, anche le storie dei nostri nonni e della gente del mio paese erano spesso arricchite con tanti colori usciti più dalla fantasia che dalla memoria.

Ripenso allora a quello che dice Edward Bloom nel libro Big Fish – “Non è obbligatorio credere che sia vera una storia. Basta credere in quello che vuol dire. È come una metafora”.

Mi ricordo che quando lo lessi mi piacque subito. Il libro narra la storia di un uomo, che, giunto al termine di una vita lunga e ricca di avvenimenti, deve confrontarsi con il figlio William; un figlio che non gli ha mai perdonato il fatto di aver passato la vita a raccontare storie fantastiche ed incredibili, tanto incredibili da essere razionalmente e ragionevolmente false, e di non essere stato in grado di mostrarsi a lui e a tutti gli altri per quello che era veramente, spogliato dagli abbellimenti e dalle iperboli delle sue fantasie.

In gioventù Edward Bloom era stato un uomo straordinario. Non c’era cosa che non sapesse fare, e bene anche. Aveva salvato vite umane, e non solo. Gli animali lo amavano, gli umani pure, in particolare le donne. Sapeva scherzare, faceva bene il suo lavoro. Conosceva più barzellette di qualsiasi altro essere vivente. O almeno, questo è ciò che ha sempre raccontato di sé al figlio William. Perché William, di fatto, non lo conosceva bene: il padre tornava a casa di rado tutto impegnato a girare il mondo per guadagnarsi da vivere. Ora che invece era tornato definitivamente per morire, toccava al figlio William raccontare la vita di quel padre enigmatico attraverso una serie di leggende e miti, ispirati a quel poco che sapeva di lui. Edward Bloom che addomestica un feroce gigante solitario, che salva uno spirito delle acque, che restituisce un occhio magico al suo legittimo proprietario. E, per finire, vince la morte trasformandosi in un grosso pesce che il figlio ributterà nelle ancestrali acque di un fiume.

Ecco, penso che anche la storia di Polly sia una metafora che ci può aiutare a leggere i nostri tempi.

«“Non ricordo… cos’è una metafora?”. Chiede William al padre.

“Per lo più una questione di capre e cavoli”.

Lo vedi? Anche quando parli seriamente non puoi fare a meno di scherzare.

1 D. WALLACE, Big Fish, Marco Tropea, Milano 2003, p. 120

2 Il racconto ha preso come riferimento la leggenda di Polissena, la strega delle Gavine, riportata in P. FANTOZZI, Storie e leggende delle colline lucchesi, Le Lettere, Firenze 2003, pp. 110-112

3 D. WALLACE, Big Fish, p. 120

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2 commenti »

  1. Mi piace riscrivere le storie e le leggende della nostra terra, perché penso che l’anima che le ha generate sia ancora viva e chiede solo una penna che le sappia dare il volto della vita e dell’esperienza di oggi. Emanuele

  2. Una vicenda articolata, affascinante e capace di raggiungere la sfera delle emozioni. Niente di razionale vi è in quanto accade e viene in essa descritto, ciò nondimeno riesce, pur avendo a contorno una misteriosa e diffusa irrazionalità, a trasmetterci insegnamenti realisticamente utili. Intanto ci avverte che l’abito spesso fa il monaco non solo per quanto riguarda l’apparenza, ma soprattutto per quanto si fa e si dice. Il racconto inoltre ci rassicura sul fatto che, anche quando tutto ci si rivolta contro, occorre pazientare, metabolizzare le avversità ed imparare ad aiutarci, a bastare a noi stessi . Questo è un buon modo per andare avanti . Se si riesce infine a trasmettere agli altri, come la protagonista riesce a fare, seppur attraverso una sana bugia, che spesso le nostre potenzialità sono coartate e che debbono essere liberate, beh, non si sta mistificando, ma si sta dando una speranza. E poi del resto: i sogni aiutano a vivere. Simpaticamente arcano.

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