Premio Racconti nella Rete 2023″Mikvé” di Maria Lucia Riccioli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023Siracusa, 2008
«Dobbiamo andarci per forza? Non lo faccio l’articolo».
«Fai un po’come ti pare».
Michele trafficava con la digitale. Dopo tanto fotografare le batterie imploravano una ricarica. Senza guardarla, continuò a parlare.
«Se non ti va di venire, resta in camera. Ci vado io, scatto quattro foto e tu scrivi l’articolo. Te lo inventi. Mamma e nonna contente, si riparte e buonanotte. Guarda, non capisco che ci siamo venuti a fare a Siracusa».
Sara scattò a sedere sul letto.
«Potevo venirci anche da sola, se non ti andava potevi dirmelo».
Per qualche istante, nella camera del B&B si udì solo il ronzio del condizionatore. Fuori, un piccione smise di tubare e dal terrazzino del “Labirinto” spiccò il volo per i dedali di Ortigia.
Michele posò la macchina fotografica e le si sdraiò accanto.
«Sei stanca. Di partire già non ti andava, qui fa un caldo africano… è normale che tu ti senta così. Vieni qui».
L’attirò a sé. La ragazza fece un po’ di resistenza, poi rilassò le spalle e il collo, la testa poggiata sul petto di Michele.
Sindrome di Stendhal? Mah, forse, non voleva intellettualizzare troppo. Certo, avevano visitato il parco archeologico della Neapolis abbacinati da un sole sciroccoso e spietato e dalla pietra bianca di Siracusa. Il teatro greco e i fantasmi di Eschilo, l’anfiteatro romano che le era sembrato un souvenir del Colosseo, quell’ara di Ierone enorme e inquietante con lo spettro delle centinaia di buoi sacrificati simultaneamente – sangue animale a lavare ipocrita le colpe degli uomini. Aveva ripensato agli olocausti, al rito di pane e vino dei cristiani, oh c’è sempre un innocente che deve pagare per tutti. L’orecchio di Dionisio – ma aveva davvero origliato il tiranno quello che si diceva in quella cava stipata di prigionieri? O era solo l’immaginazione spiritata di Caravaggio a vedere un orecchio scavato in quelle latomie che sembravano abitazioni di giganti estinti? – l’aveva rintronata di echi di risate e urla di turisti eccitati dal gioco delle voci che rimbalzavano su pareti scalpellate dalla fatica combinata di uomini e acque piovane.
Ritornata nel B&B, si era lasciata cadere sul copriletto, vestita e accaldata, senza nemmeno la forza di addentare un panino o sorseggiare il brodo ormai imbevibile della bottiglietta che s’era portata inutilmente appresso.
«Scusami, è che…».
«Sst… lo so».
Siracusa, 1492
12 gennaio. 12 gennaio. 12 gennaio.
Quella data le martellava in petto come le campane dei cristiani.
La Giudecca di Siracusa entro quella data sarebbe diventata un quartiere di fantasmi. O di conversos.
Che fosse migliore la sorte dei convertiti era da vedere: agli occhi di tutti marranos erano e marranos sarebbero rimasti. Porci convertiti per interesse, per paura. O sinceramente attratti dalla fede in un Dio crocifisso figlio di Jahvè. Ma non meno marranos per questo.
Perché i re spagnoli si accanivano contro gli ebrei? Eppure erano servitori fedeli della corona, amministratori accorti, artigiani e mercanti laboriosi che davano lustro e ricchezza alle terre che abitavano. Ma l’editto parlava chiaro: gli ebrei che non intendevano convertirsi dovevano abbandonare i possedimenti dei re di Aragona e Castiglia. Quindi anche la Sicilia, anche il Regno di Napoli. E Ferdinando di Acuña, il viceré che aveva fatto così tanto ben sperare, proprio a lui sarebbe toccato applicare il decreto. E il senato siracusano non avrebbe potuto fare altro che assentire.
Anna, stesa sul letto, cortine tirate a difenderla dalla luce che le feriva gli occhi gonfi, aveva scelto con dolore cosa portare con sé: il ciondolo d’ambra e i pendenti in filigrana d’argento della madre, gli abiti di lei che era riuscita ad adattare alla propria figura minuta e svelta, qualche oggetto scelto perché necessario o troppo poco utile per essere lasciato.
Aveva detto addio ad ogni angolo della casa, dall’uscio ai conci di terracotta. Aveva percorso ogni vicolo della Giudecca, era entrata in ogni bottega, come l’innamorata del Cantico dei Cantici che in un delirio d’amore cerca l’amato del suo cuore.
Ma Anna cercava di dimenticarla, la terra del suo cuore. E facendo così, la radicava nella sua anima come una spina.
2008
Via Maestranza, il bagno ebraico non era lontano.
Sara procedeva spedita, apparentemente tranquilla, una giornalista con tanto di cartellino blocco registratore. Michele, zaino monospalla e l’immancabile digitale, fotografo al seguito. Nonché fidanzato, benché entrambi detestassero parole e istituti convenzionali. Nonna Ester avrebbe desiderato un matrimonio tradizionale, a sua madre non sarebbe dispiaciuto, Sara scriveva recensioni e articoli culturali sul mensile diretto dalla nonna ma difendeva un laicismo che non rinnegava però lo studio e la ricerca della sua identità ebraica.
La morte del padre, che osservava digiuni precetti festività con fede severa ma non arcigna, aveva finito per disseccare le già stente fonti dell’ebraismo di Sara. La Torah gli studi biblici la storia giudaica erano stati per anni la loro lingua comune. Ora che uno dei due non poteva più parlarla, per Sara era divenuta incomprensibile come un idioma estinto, come un’accozzaglia di parole stridenti, straniere.
Michele, ragazzo pratico e solido, l’aveva assecondata. Ma notava il disagio di Sara. Visitare quel bagno, scrivere l’articolo per “Syon” significava per lei azzimi erbe amare di ricordo e pena.
Che il bagno sotto l’attuale Chiesa di S. Filippo sia un bagno rituale ebraico è da ritenersi certo sia per la struttura sia per alcuni parametri cui risponde appieno: il Berakhot (Trattato delle Benedizioni) del Talmud Babli, ultimato nel 501 d.C. circa, scrive: “Il bagno rituale deve contenere 240 qab d’acqua” e la sua efficacia “è legata al fatto che si tratta di acqua sorgiva, acqua viva e questa non può essere scaldata”. Il bagno della Giudecca non solo presenta tutte queste caratteristiche ed altre, ma la sua struttura e la tecnica di costruzione ne fanno un esemplare antichissimo – simile a quelli descritti nel Talmud – poiché è scritto: “Se uno è sceso a fare il bagno d’immersione…” questo significa che il mikvé scavato in profondità, come è quello della Giudecca, è uno degli esempi più antichi, una preziosa testimonianza delle remote origini della comunità ebraica siracusana, le cui tecniche di costruzione, alla data di realizzazione del bagno, erano ancora quelle utilizzate in Palestina fino al V sec. d.C. e singolarmente condivise con la struttura di alcune fonti greche del 1200 a. C., ma questo è ben altro discorso.
È ben altro discorso… è ben altro discorso…
Michele leggeva da uno studio che aveva scaricato da Internet, Sara ascoltava ma le parole galleggiavano su per le facciate dei palazzi barocchi e s’involavano nel cielo denso di scirocco.
Si bloccò.
La traversa a destra recava la targa “Via della Giudecca”.
Si inoltrarono nell’intrico di vicoli viuzze e ronchi.
Bottai tintori candelai… solo i nomi dei mestieri erano rimasti a ricordare che in quel quartiere si erano avvicendate botteghe di ebrei laboriosi spazzati via dagli editti dalla storia dalla morte. Nomi. Nient’altro che nomi.
Il suo le parve immediatamente troppo piccolo e leggero per permanere, neanche una targa l’avrebbe salvato dall’oblio.
Si aggrappò istintivamente a Michele, che scattava fotografie e le spiegava che nei sotterranei di quel quartiere dovevano sicuramente esserci resti di antiche sinagoghe, magari tombe. Michele, amore mio entusiasta e terrestre… questo avrebbe voluto dirgli. Un uomo che un’ebrea fuggiasca avrebbe desiderato come compagno di fuga. Era la sua anima nomade semita mai troppo sicura del suolo che calpestava a suggerirglielo.
«Qui dice che una colonna samaritana fu utilizzata nel ’500 per costruire il seminario e che le lapidi dell’antico cimitero ebraico furono utilizzate per costruire il Porto piccolo…».
No, neanche i nomi. Ma questo è ben altro discorso.
1492
«Padre, perché?».
«Dio ha dato, Dio ha tolto».
«Dove andremo?».
«Il Signore provvederà».
Quando l’editto fu diventato una verità incontrovertibile, quasi naturale come il vento che squassava il lungomare e le onde che minacciavano il sonno con un rombo di morte imminente, Anna evitò di affliggere il padre con le sue domande angosciose.
Non gli disse delle sue peregrinazioni per il quartiere.
Non gli confessò neppure di essersi spinta oltre, insieme alle cugine che la supplicavano di tornare indietro.
Le piacevano le strade di Ortigia, l’isola nell’isola di Sicilia. E la Giudecca era l’isola ebraica di Ortigia. Perché i re di Spagna volevano strappare il cuore alla Sicilia?
Il mercato e i suoi colori, il mare solcato dai gozzi dei pescatori – le lampare come lucciole nella notte – i siracusani che una volta la consideravano una di loro e che ora le chiudevano in faccia le imposte e le porte dei bassi, che non le vendevano i merletti, che la segnavano a dito – Giudìa, giudìa, in Spagna quelli come voi li ammazzano, No, non è vero che gli ebrei avvelenano i pozzi e scannano i bambini, sono tutte bugie, Vattene giudìa, ne avete ancora per poco…
Erano tornate a casa nascondendo le lacrime le cugine, Anna no.
Passando in fretta davanti a una chiesa, l’avevano investita zaffi d’incenso e un canto di monache. Era un salmo, lo riconobbe anche se non sapeva di latino.
«Sicut cervus desiderat ad fontes aquarum…».
Seppe di aver sete, di essere come la cerva delle Scritture.
Sarebbe andata al bagno. Aveva detto addio al tempio, voleva salutare anche l’acqua che aveva purificato sua madre, l’acqua che aveva bagnato anche lei.
Solo lì avrebbe permesso alle lacrime di scorrere.
2008
L’acqua era immota.
Ma solo apparentemente, perché una vena silenziosa assicurava un ricambio continuo e discreto. Sara fissava le vasche come ipnotizzata. Passò e ripassò le dita sulle pareti del bagno che parevano sudare, tanta era l’umidità. Colpi e colpi di scalpello, pazienza e tenacia sotto il livello del mare a ritrovare l’acqua dolce, a convincerla a riempire le vasche come grotte sottomarine, come anfratti di quiete al riparo dal sale dall’inquietudine del mare dalla morte, morte che s’infiltra ovunque e che ha snidato anche chi scendeva in questo pozzo.
Sara provò un senso d’oppressione. Le volte non erano molto alte e il respiro si affrettò. L’acqua tranquilla e quieta però sembrò agire come un calmante. Era una sensazione strana, quasi irreale.
L’aria le fluì più liberamente dentro.
1492
“È l’ultima volta che scendo qui. Se risalgo non tornerò più, mai più…”.
L’acqua del bagno era serena come sempre. Non lasciava presagire nemmeno l’abbandono e forse la sventura che l’attendevano. O forse era più saggia di lei che si ostinava a fissarla, accasciata come se non dovesse più rialzarsi.
“Non sono neanche degna di bagnarmi per la purificazione”.
«Cos’hai? Stai male?».
Sara era inginocchiata accanto a una vasca, come se non potesse più rialzarsi.
«Loro credevano, Michele, loro hanno sopportato di tutto, loro…».
«Loro erano come te, come me. Anche loro avevano paura. Anche loro dubitavano. Erano messi alla prova… tu… noi… forse è un modo per fargli onore».
Michele non parlava mai così. Odiava la retorica, le commemorazioni forzate e le finte facili false commozioni. Ma ora Sara lo sentiva parlare di onore.
«Onore a chi?».
«A tuo padre, a… a questa gente che si bagnava qui forse per tradizione, forse per abitudine, forse perché ci credeva davvero. E noi glielo dobbiamo».
«Gli dobbiamo cosa?».
Si appese la digitale al braccio e poggiò la schiena ad una delle colonne.
«Esserci… essere qui».
La voce di Michele era poco più di un sussurro ma in quella caverna sotto la superficie della città sotto la superficie del mare sotto la superficie delle cose – sotto. Le sembrò risuonare tra le pareti e la volta come se a parlare fosse stato un bronzo percosso da una mazza. Poi le onde sonore si placarono sulle vasche placide, Michele tornò ad esplorare gradini e sedili – lasciami qui, non ti preoccupare – e l’aria fu saturata dai fiati degli altri visitatori e dalle spiegazioni della guida, che le giungevano distanti come dal fondo di un lago.
1492
Che ne sarebbe stato di quel luogo sacro? Mani impure lo avrebbero contaminato per sempre. Forse sarebbe servito da pozzo, da cisterna. Pensò ai conciatori. Riusciva a sentire il puzzo d’animale, le pelli a bagno in quell’acqua pura e viva, sconciata senza speranza.
«Lo interreremo, Anna».
Il padre come sempre le aveva letto dentro.
«Non possiamo permettere che tutto questo – e la sua mano avvolse con un gesto vasche e volta e anche lei – venga insozzato. Forse…» – represse un singulto, Anna non doveva vederlo piangere sull’eterna sorte dei figli d’Israele ancora una volta respinti – «forse torneremo qui, scaveremo di nuovo e ritroveremo quello che abbiamo lasciato. Forse lo faranno i tuoi figli, forse i figli dei tuoi figli. O forse della gente pia, della gente che proverà pietà e rispetto per noi entrerà qui dentro e saprà che vi hanno pregato Giuseppe di Siracusa e sua figlia».
2008
Fu un attimo.
Fu un attimo.
Forse il movimento di una delle turiste accanto, forse il luccichio di un gioiello sull’acqua. Acqua fissata, contemplata, che conteneva il riflesso delle aspettative, dei ricordi, dei sensi di colpa di chi ve l’immergeva anelando ad una purificazione, ad una rigenerazione forse.
Anna vide Sara.
O viceversa. O entrambe…
La mano del padre le si strinse attorno alle dita asciutte, secche, esangui.
«Andiamo».
Il groppo alla gola andò giù e il respiro dalle viscere contratte si fece strada fino alla gola. Risalì.
Come deve fare. Come è giusto che sia.
Sara sbatté le palpebre e l’acqua tornò imperturbata.
Si guardò attorno. I turisti si accalcavano dietro alla guida per risalire. Michele scattava le ultime foto. Quella tunica… quelle trecce raccolte… no, era tutto un gioco della sua immaginazione stanca e sovraeccitata.
Eppure l’immagine era stata così… così vivida, anche se solo per un momento!
Non tentò di razionalizzare. Non sarebbe servito. E non voleva.
Provò l’impulso di bagnarsi, di restare immersa in quella calma d’acqua. Di liberarsi dalle scorie che le impantanavano la mente.
Si ritrovò invece a bagnare un palmo. Una carezza all’acqua, sfiorata appena dalle dita. Nessuna impronta, solo un contatto fresco e lieve.
Si rialzò, fece qualche passo. Prese una mano di Michele.
«Che fai?».
Lei gli sorrise e gli strinse la mano, solo un altro po’. Michele sorrise.
«Stai bene?» le domandò, anche se sapeva di sì.
«Usciamo».
Anna chinò la testa. Non poteva dirgli che lì, su quell’acqua tersa e liscia come uno specchio, forse… forse aveva avuto la visione di una donna che avrebbe visto. E compreso. Accarezzò la superficie come cristallo fragile e prezioso. Bagnò la mano di Giuseppe stringendola nella sua.
«Usciamo, padre».
Siracusa, 21-23 agosto 2008
Il brano che legge Michele è tratto da “L’acqua e il Tempio – Appunti sul bagno rituale ebraico della Giudecca di Siracusa” di Sergio Caldarella (responsabile scientifico di storia e cultura ebraica dell’IMSU) e David Gryman (Università di Chicago)
Grazie per aver accettato e inserito il mio racconto…
Scritto con una perizia particolare, bisogna completare la lettura per capire bene dove vuoi arrivare. Di non facile lettura comunque, ma solo per la difficoltà e la tecnicità dell’argomento, alterna le vicende delle due protagoniste fino all’improbabile incontro, fugace e realistico.
Brava per aver gestito una struttura così complessa, in una ambientazione meravigliosa come quella che hai sapientemente descritto.Tutti i miei complimenti.
Grazie delle tue parole, sono felice che tu lo abbia letto e apprezzato!