Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2023 “La mia terra è la mia frontiera” di Anastasia Cicciarello

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2023

Quante volte di fronte all’ingiustizia abbiamo abbassato la testa? Quante volte abbiamo preferito rinunciare anziché difenderci? «Qui funziona così.» fu la frase perentoria di mia madre. «Te la prendi tanto per sciocchezze. Mica siamo a New York. ‘Nda i mbasci a testa.» Respirai rumorosamente di fronte a quella consapevolezza schiacciante, ma non replicai, non ne avevo intenzione. Era vero. Funzionava davvero in quel modo in Calabria, non c’era molto da filosofeggiare a tal proposito. Anche una cazzata, come andare dal meccanico per una ruota sgonfia era come una crociata per un ideale idilliaco. 

L’operaio mi aveva guardata come a dire ‘’Ma tu si fimmina. Che ne capisci?!” e poi aveva parlato lentamente, scandendo le sillabe in un italiano zoppicante. Non era stato ostile, quello no. Aveva semplicemente detto: «Il copertone è distrutto. Fai passare il tuo fidanzato o, chissacciu, tuo papà. Così vediamo come aggiustarci.» Una frase da niente, una fesseria. “Non farne una tragedia, ti prego.” Continuavo a ripetere dentro di me come un mantra, mentre inspiravo ed espiravo lentamente per non dare di matto. «Va bene, grazie. Vado da un’altra parte. Sono sicura che esista un’officina dove non serva avere il pene per aggiustare l’auto. Arrivederci!» Avevo tuonato invece, nonostante i miei buoni propositi. Apriti cielo. «Tu si paccia!» aveva urlato a sua volta mia madre nell’apprendere la notizia. Era seguita una scenata volta a spiegarmi di nuovo che era quello il posto in cui avevo scelto di vivere, che quelle erano le regole, perché ostinarmi tanto e dare spettacolo continuo? Che vergogna. Mamma aveva ragione. San Bartolo, il mio paese, che tanto amavo e tanto odiavo, era la mia frontiera. Vivevo in luogo fuori dalla grazia di Dio, un nucleo a sé stante, con le sue regole sociali.

Le case dismesse esternamente e piene di lussi all’interno, i ragazzini in strada coi motorini truccati, le vecchiette col tuppo e l’abito nero rappresentavano il mio confine, la prigione che volontariamente mi ero scelta. Il peso della mia provenienza non lo avevo percepito subito. Da piccola amavo essere parte di un mondo parallelo: al mattino uscivo di casa in fretta, d’estate persino scalza.  Percorrevo la lunga strada tutta storta e dismessa di corsa, fino al belvedere al limitare del paese. Ricordo ancora i ciottoli irregolari che mi solleticavano i piedi, il calore sotto la pianta, il sole asfissiante di agosto. Il belvedere, in particolare, era il mio luogo del cuore: il muretto scorticato mi arrivava al mento. Io ci appoggiavo entrambe le mani e tentavo di issarmi. Mi alzavo sulle punte, appoggiavo la faccia sul cemento ruvido e volgare che caratterizza tutte le opere incompiute della mia regione e guardavo sotto.

A prima vista lo stomaco si contorceva: chiudevo gli occhi per un attimo, poi mi prendevo di coraggio e li riaprivo. Sotto di me, una distesa disordinata di alberi, erbacce, detriti e spazzatura. E poi, lontanissimo, il mare.  Il mio mare. La mia salvezza. Chissà, forse rappresentava già un punto di fuga per la mia testa, ma non riuscivo a rendermene conto. Era lì che mi raggiungeva Basti, quando non mi trovava in nessun altro posto. «Torna pa casa, Marì. A mamma ti cerca. Ci ha fatto una testa così perché non ti vedeva. Veni, moviti.» Diceva allora mio fratello, facendo leva sui miei sensi di colpa. Camminavamo fianco a fianco, grosso e tozzo lui, pieno di malupilu, una folta peluria scura che gli ricopriva braccia e collo. Secca e lunga io, spigolosa anche nel corpo, mi ricordavano tutti. Risalivamo la strada a ritroso in silenzio, complici per necessità, perché il sangue ci univa a forza. All’epoca non percepivo il disagio di non riconoscermi in quella che chiamavo casa, non sentivo la gola stringersi ogni volta che varcavo la soglia della mia stanza. Oppure sì, ma non sapevo dare un nome a quella sensazione: ero nata nel posto sbagliato. Ero colpevole di non appartenenza. Avrei dovuto espiare la mia colpa per tutta la durata della mia vita, anche se era una cosa che non si poteva scegliere. Non potevo certo prendermi la responsabilità per un destino che mi era stato affibbiato. Ma avevo scelto di restarci, di resistere, di non cedere al pregiudizio di chi conosceva la mia terra dolceamara soltanto per le cronache di mafia. Avevo scelto da sola la mia croce, ero artefice del mio supplizio.

E invece quel giorno, circa vent’anni dopo, mia madre non era proprio dello stesso avviso. Continuava a guadarmi furiosa e apprensiva allo stesso tempo, indecisa sull’approccio da utilizzare. «Aveva ragione tuo padre: ndavivi i fui. Dovevi scappare, capiscisti? Questa non è terra tua.» Disse, accompagnando le sue frasi con una carezza, per addolcirle. «È la gente che deve cambiare.» Provai a dire fiaccamente. «Qui o ti pieghi o ti spezzi. Non lasciare che il tuo legame diventi una catena che ti costringe. Vattindi.» disse lei. Si voltò di spalle, riprese a lavare i piatti con eccessiva foga, guardando dritto davanti a sé.  Il discorso era definitivamente chiuso.

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2 commenti »

  1. A vedere le cose dall’esterno partendo da una situazione sociale e da una mentalità collettiva completamente diversa da quella descritta in queste pagine è facile fare discorsi del tipo :”Ma vattene appena puoi e senza voltarti indietro. Devi aspettare che te lo dica tua madre?” L’autrice è brava nel farci capire i pensieri e le emozioni del personaggio intrappolato in questa realtà retrograda e oppressiva sopra-tutto per una giovane donna come il sottile ma tenacissimo filo che la lega a questa realtà impedendole di fuggire.
    Noi esseri umani siamo fatti di contraddizioni profonde che ci inducono a comportamenti incoerenti e spesso assurdi che si ritorcono contro di noi e l’autrice di questo racconto secondo me ha il grande merito di metterlo in evidenza.

  2. Pennellate secche, essenziali, per descrivere un tormento, una dicotomia, un dilemma. L’appartenere a una realtà, far parte di una storia e volerne cambiare le storture, e nello stesso tempo voler spezzare quel legame. “Complici per necessità, perché il sangue ci univa a forza.” frase emblematica, racchiude il dramma della protagonista.

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