Premio Racconti nella Rete 2022 “Traduttrice uomo” di Diana Pakrevan
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Mi sono fatta largo fra le frasche frastagliate di luce calda del sentiero che avevo scelto e ho raccolto parole appese alle punte dei rami. Non erano le mie parole, ma parole d’altri, che mi chiamavano. Ho cercato di ignorarle e di tirare dritto per chissà dove ma ecco ancora le parole ronzavano e mi distraevano dalla strada che seguivo e altro non udivo oltre il fruscio di sillabe timide eppur risolute cinguettio indistinto da lontano, nitido e suadente al mio orecchio vigile. Mi sono fermata e quelle parole erano gelsomini inebrianti ed erano bacche gonfie blu arancione nere rosse viola ed erano ovunque. Ho affondato il naso nelle stelle bianche e le ho inalate fino a quanto il petto le poteva contenere e le ho restituite all’aria e più volte così mi sono colmata e vuotata e poi affamata ho afferrato le bacche a piene mani, me le sono schiacciate tutte in bocca e mi sono ingozzata. La mia faccia era vermiglia e appiccicosa di succhi gustosi, le mie mani scorticate dai rovi che avevo ignorato, la mia lingua lambiva sui palmi il liquido dolce misto a sangue. E quella materia, cinguettio, profumo, colore, succo, spina, ha cominciato a uscire da me in un tripudio caotico, dalle mie orecchie dalle mie labbra dalle mie mani dal mio naso dai miei occhi da ogni mio poro e a riversarsi all’intorno. Evaporava, si dissolveva, senza arte né parte. Inutile e sterile.
Era ora di perseguire l’arte e la parte. Mi sono tolta le scarpe. Ho chiuso gli occhi. Ho aspettato. Immobile. Un vento leggero ha preso a soffiare a carezzarmi la pelle a lambirmi il collo. È arrivato da dietro. Mi ha avvinta dolcemente. Non avere paura, ha sussurrato. Mi sono fidata. Mi ha voltata lentamente. Si è messo a sbucciarmi i vestiti. Ho spalancato gli occhi e la bocca. Ho visto il corpo del vento. Lasciati fare, mi ha pregata. Ha abbassato le mie palpebre con i suoi polpastrelli, ha sfiorato le mie labbra con le sue. L’ho lasciato fare. Aspetta, mi ha chiesto. Ho aspettato, porosa, docile. Ho udito il frusciare dei suoi abiti, il loro afflosciarsi. L’altro corpo mi ha stretta a sé. Ho sentito la sua pelle, fredda, le sue forme. Ho sussultato. Mi ha stesa con dolcezza sul letto di terra, aghi, muschio, ciottoli che pungevano e accarezzavano la mia schiena. Non fiatare, mi ha detto. Braccia contro braccia, petto contro seno, collo torto collo, sesso contro sesso. Il suo peso mi schiacciava, le sue forme appiattivano, ridisegnavano le mie. L’altro corpo, da freddo che era, è diventato incandescente a contatto col mio. E ha scaldato il mio. Mi ha penetrata in profondità. Tutta mi ha presa, delicato e violento. Due corpi diventati uno. Mostro bicefalo. Non fiatare. Non ancora. In questo gioco la regola è: prima io e poi tu, tu solo dopo. Capirai. I suoi sussurri nel mio orecchio ho ascoltato in silenzio, in silenzio ho assorbito i suoi gemiti, le sue urla, il suo piacere, la sua vita, la sua vita intera entrata in me. Era troppo. Mi sono ribellata. Ho provato a ribellarmi. Ha incatenato le mie caviglie e i miei polsi e ha continuato, imperterrito, insaziabile, giorno e notte fino all’alba. Il mio corpo si è arreso. Da opaco che era, si è fatto diafano e ha lasciato trasparire il suo, dentro di me. Solo dopo essersi svuotato in me, l’altro corpo mi ha tolto i ceppi e si è accasciato, in apparenza privo della sua vita che aveva depositato in me. Dopo quanto avevo subito, a causa di ciò che avevo subito, mentre lo subivo, come la vittima di un sequestro o di un abuso si innamora del suo aguzzino, io, che avevo subito entrambi gli strazi, ho preso coscienza dell’amore che l’altro aveva seminato in me.
Un filo d’acqua, giunto da non so dove, ha lambito i nostri corpi, il suo ormai esanime e il mio che ha iniziato a ritrovar forza, e anzi a esser rinvigorito da una doppia vita, dalla propria e dall’altrui, che vi si era depositata. Un filo, diventato rivolo, ruscello, torrente, fiume in piena. Ho traghettato l’altro corpo, la sua vita di cui mi ero impossessata, e che era diventata anche mia, sull’altra riva. Ho adagiato l’altro corpo sulla riva e mi sono sdraiata lì vicino. Il mio ventre ha preso a gonfiarsi a gonfiarsi a gonfiarsi e le mie labbra si sono dischiuse per lasciare passare sussurri, gemiti, urla, in forma di parole blu arancione nere rosse viola dal profumo di gelsomino, succose e ghiotte, parole del giorno e della notte, parole di carne. Una nuova vita. Che assomigliava alla nostra, ma soprattutto alla sua. L’altro corpo ha aperto gli occhi; mi osservava, felice. Hai capito, ora, ha sorriso: prima io e poi tu, solo dopo tu. Noi. Un sibilo appena udibile, la sua voce di vento.
Poi ha riso. Ha riso di scherno e cattiveria. Si è messo seduto a giocherellare con la rena della riva, voltandomi le spalle. Scavava con dita avide, come a cercare qualcosa che poi ha scovato e stretto nel pugno. Si è sollevato in piedi. E mi ha buttato una manciata di monetine: ecco, per il tuo lavoro. Ha riso con la stessa crudeltà, la sua voce di vento, una voce straniera che stentavo a riconoscere, un soffio impetuoso e freddo che sospingeva il suo corpo al di là delle acque da cui l’avevo tratto, verso le terre da cui era venuto.
Ho faticato a distogliere lo sguardo, a lasciare andare il suo corpo che era stato mio, che era diventato noi. Eravamo stati due. Due è una famiglia. Ero tornata uno. Se due è una famiglia, uno è nostalgia di due. Così da allora, per nostalgia, per speranza, spessomi lascio sedurre dal profumo spinoso di altre parole che accolgo nel mio corpo e traghetto sulla mia riva, per ricevere ogni volta una manciata di monete ingrate. Mi prostituisco per pochi spiccioli, per il mio dolore e per il mio piacere. Delizia e croce. Io, schiava volontaria di un autore che mi lascia la libertà della lunghezza della sua catena. Io, che fatico a pronunciare il pronome io. Traduttrice.
La traduttrice è tradizionalmente e statisticamente donna, da quando alle donne è stato concesso il diritto all’istruzione. Gli uomini preferiscono la parte dell’autore: la gloria, il nome sulla copertina, la piena libertà. Però un giorno un uomo si è appassionato alla traduzione. Quest’uomo aveva un nome e un cognome, che infatti tutti ricordano: si chiamava Henri Meschonnic. Henri Meschonnic voleva tradurre, ma non era d’accordo di passare in secondo piano, di essere umile, trasparente, di prendere la forma dell’altro. Così ha avuto un’idea geniale. Si è inventato la libertà traduttiva, il concetto che il traduttore, nella sua traduzione, diventa creatore e quindi è a sua volta autore a pieno titolo. Nome e cognome sulla copertina. Non dico che abbia tutti i torti, anzi. Ma la catena c’è. Non si deve dimenticare. Ci vuole rispetto.
Esigo almeno un riconoscimento del lavoro di noi traduttrici: l’adozione del termine “traduttrice” come nome promiscuo di genere grammaticale di forma femminile. Ovvero, una traduttrice è per definizione donna, in quanto esercita questa professione in modo quasi esclusivo. Se un uomo vuole dedicarsi a questa attività, potrà farlo, ma verrà designato come “traduttrice uomo”. La mia è una proposta seria e ragionevole. Per esempio, in francese, l’ostetrica è per definizione donna: è una sage-femme. Se un uomo vuole diventare ostetrica, viene designato come una sage-femme homme. Nulla di strano. Per curiosità, ecco invece i pochissimi nomi femminili che si riferiscono sia a uomini che a donne in italiano: la spia (usato anche come insulto); la guardia, la sentinella, la vedetta (guardano senza essere viste); la maschera (si nasconde), la controfigura (dai contorni indistinti, rischia la vita per qualcun altro); la guida, la scorta (di chi è più importante); la recluta, la matricola (persone senza esperienza). E soprattutto la vittima (come fosse una professione).
Mi sento impotente. Oscura. Infatti, il mio nome non se lo ricorda nessuno. Allora mi ribello a modo mio. Traduco solo donne. Perché almeno loro siano visibili. Abbiano il loro nome e cognome stampati in grande sulla copertina. E la sera, il fine settimana, quando non lavoro, vado a ballare il tango. Indosso il mio vestito rosso, aderente, che mostra le mie forme. E sono io a invitare. Ficco i miei occhi negli occhi dell’uomo – la mirada – e lo invito a ballare. E lui accetta il mio invito – col cabeceo. Lo stringo forte a me e imprimo la forma del mio corpo nel suo. La regina della milonga sono io.
Se questo è un racconto biografico, la traduttrice ha dato prova di essere una grande autrice, scrivendo una vera e propria poesia in prosa.
Una scrittura intensa e sofferta
Una sorta di poesia in prosa. le mani che sanno di succhi e sangue mi ha portato indietro nel tempo. Molto interessante