Premio Racconti nella Rete 2022 “Il caffè dell’innamorata” di Giulia Cordelli
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022La mia stanza. La mia tana di talpa. La mia garçonniere. La mia ragnatela per uomini d’ogni sorta. Ne vado fiera, ne sono orgogliosa. Risultato di anni di ricerche, risulta ora una Roma stratificata tutta da scoprire. Polverosa galleria d’arte varia, monolocale meglio di un rito di passaggio: entri convinto del tuo essere e ne esci insindacabilmente homo novus, in tutte le sue più late accezioni. Il caleidoscopico ventaglio di proposte prevede un po’ di tutto, basta scavare tra gli inserti domenicali per trovare dei tesori. Mi si presenta un nuovo dandy con farfallino in legno e risvoltino al pantalone in coste di velluto appena uscito da un post sulle ultimissime tendenze in quel di Brooklyn. Basta mettere su un po’ di indie rock, coprire le sempreverdi ninfee di Monet con un poster di Obama in salsa arcimboldesca e mettere a scaldare la macchina per l’espresso. Ah, l’espresso: la netta linea di demarcazione tra il vecchio-vecchio e il vecchio-nuovo, il confine che separa il continente degli sfigati da quello dei tipi che non hanno paura di rinnovare con modi affatto reazionari.
Sono anche esperta nella preparazione del classico espresso con cremina. L’alchemico processo che trasforma quell’importantissima prima goccia in un denso composto zuccherino, la cui ricetta viene tramandata da tutte le nonne assennate o coinquiline campane del mondo. Necessaria, direi, nel caso in cui varchi la soglia della vostra abitazione l’uomo avvezzo a scaricare in sacchi neri d’immondizia la montagna di bucato di due settimane dalla propria madre artritrica ma senz’altro sessista. Per queste madri il figlio maschio ha sempre ragione, tutti i diritti e nessun dovere. In questo caso non vi sarà sufficiente deliziare lui con un caffè con tutti i crismi: arriverà il giorno in cui la sua intera famiglia vi accerchierà in un rito iniziatico e tutto, ma proprio tutto – il modo in cui lavate la moka, il pressare o meno la polvere di caffè, il prelevare o meno la gloriosa prima goccia – farà la differenza, facendovi diventare (povere voi) oppure no (ringraziate i vostri numi) una di loro.
Purtroppo ho avuto anche io la sfortuna di vivere un simile calvario. Una vera e propria via crucis, la cui ultima stazione, alla quale avevano portato un ammorbidente che poco ammorbidiva le sacre vesti del divin pargolo, un sugo presuntuoso che aveva avuto l’ardire di sobbollire per meno di settantadue ore e un imene non del tutto integro, è consistita in un tragico tentativo postprandiale di appianare con un caffè i conflitti scaturiti dalle sopramenzionate mie imperdonabili mancanze. La sentenza, per farla breve e per evitare tutti i dettagli più sanguinolenti, fu: mancanza di senso del dovere domestico e di un background oltremodo campanilistico, caratteristiche entrambe necessarie per produrre un decente liquido nero.
Ma torniamo alla mia tana. Il tipo dal chilometrico cordone ombelicale appena raccontato non mi ha mai richiesto troppa fantasia. Sempre troppo incollato alla gazzetta sportiva per curarsi dei miei strategici cambi di tappezzeria. I quali, a onor del vero, in questo caso proprio non servivano.
Un vero rovello fu il finto sobrio. O inconsapevole alcolista. Dipende ovviamente, da quale parte dell’inebriante questione si osserva la cosa. Era solito presentarsi a orari allucinanti e mai si annunciava. Questa sua scarsa avvedutezza aveva trasformato il mio posto in un vero e proprio ballo di carnevale. Non sapendo mai quando si sarebbe palesato, ero obbligata a mettere in gioco da subito tutte le possibili combinazioni. Quando poi subodoravo la sua presenza grazie ai fumi alcolici che, precedendolo, si insinuavano cortesi sotto la mia porta come una nebbia velenosa, cercavo di porre rimedio a quelle che sarebbero state le sviste più grossolane. “La nausea” di Sartre tornava in un batter d’occhio sopra i metafisici inglesi, davvero troppo eterei per un nichilista come lui. Con un rapido colpo di mano schiantavo dentro il cassetto pacchetti di sigarette e accendini, lasciando sul tavolo tabacco, cartine e fiammiferi, protagonisti assoluti di una vita passata a passeggiare in un loden verde vomito meditando sulle sventure del tangibile. Questa, infatti, era la sua vita. Questa, e una routine alcolica che iniziava con latte macchiato di crema di whiskey alle otto della mattina. Comprendevo questo suo problema e, per questo, l’unico oggetto smaccatamente non proletario che lasciavo in bella vista era una fiaschetta in argento con la quale, discretamente, correggevo i suoi caffè. La fiaschetta serviva anche da catalizzatore nei momenti di calma piatta: la dedica incisavi da un vecchio ammiratore innescava la sua gelosia e un lieve disgusto, visto che i versi erano di D.H. Lawrence, e mai lui da me si sarebbe aspettato un così greve protendere verso una fallica filosofia panica. Però devo essere sincera: con lui il mio boudoir si trasformava in un vero e proprio caffè letterario d’altri tempi. Bastava che mi mettessi nello stato d’animo giusto e che bevessi anch’io litri di caffè e sambuca, e allora ero pronta a sorbirmi le sue tre ore di monologhi su postmodernismo, strutturalismo, Kafka e Camus. Forse penserete che la mia acredine sia esagerata. Vi ricredereste in un attimo se sapeste quello che mi toccava sentire. C’è un limite al numero di volte in cui si può sopportare una filippica sul conformismo narrativo contemporaneo corroborata dal mero fatto che, secondo lui, in ogni singolo romanzo di nuova pubblicazione, si potesse leggere la parola “linoleum”.
E così passavano le stagioni nel mio monolocale, alternando primavere piene di promesse di tipi in gamba che nidificavano giusto il tempo di prendersi un caffè, ad autunni di uomini che mi sorvolavano appena, toccando questo isolotto di delizie raziandone i frutti e depredando la popolazione indigena.
Poi accadde. Perché poi, nella vita di tutti, arriva il doloroso momento in cui ci si innamora. Sarà colpa di un attimo di distrazione, sarà il risultato di anni passati a non difendere la fortezza del proprio cuore, vista la burrosa innocuità delle frecce di putti ogni volta più coglioni. Sarà quel che sarà, il risultato è che, inevitabilmente (necessariamente, direbbe il mio amico esistenzialista) diventiamo all’improvviso delle mollicce gelatine avvezze alle coccole, o perlomeno molto desiderosi di esse. Ebbene sì, alla fine anche io mi sono innamorata. E mi sono innamorata, badate bene, non di quell’imbecille senza attributi col mantello azzurro e il cavallo bianco che ci insegnano appena nate a dover aspettare, novelle Vladimire ed Estragone, sotto a un albero tra i canti melodiosi degli uccellini e gufi e conigli carinamente antropomorfizzati. No, sarebbe stato troppo facile così. Mi sono innamorata del peggior tipo in circolazione, l’uomo che non deve chiedere mai, perché di solito è lui che risponde alle richieste di tutte quelle povere pescioline che finiscono involontariamente nella sua rete. Giovane, affascinante, ben vestito, uomo di cultura, dongiovanni, un Nathan Zuckerman di quelli che ti fanno perdere in partenza, scuotendo l’intero tuo essere partendo dalle ginocchia e finendo per infiltrarsi nei percorsi neurali della tua mente ormai annebbiata e incapace di intendere e di volere. Un uomo così vuole e ottiene precisamente nel modo in cui vuole lui.
Ci misi un attimo a scoprire che con lui i miei artifizi preparatori all’incontro amatorio non solo erano vani, ma sortivano spesso effetti catastrofici. Tutti i trucchi venivano smascherati con una facilità disarmante. Una raccolta di Yeats con cinquanta euro usati come segnalibro, mio ardito tentativo di apparire insieme estrosamente colta e sbadatamente bon vivant, risultava dai suoi atroci commenti come il risultato di un’educazione culturale che smascherava – al pari della poetica di Yeats – la desolazione dell’oggi con un vortice in cui, risucchiati, volavano via il buonsenso e la libertà di pensiero. Non potevo giocare al cambio delle maschere: quel gioco lo aveva inventato lui. E non solo ne conosceva alla perfezione le regole, sapeva anche come cambiarle o come inventarne delle nuove. E anticipava le mie mosse. Sapeva che se, entrando, avesse sentito suonare un disco di buon jazz, ad attenderlo sul tavolino ci sarebbe stato un martini con oliva, e allora mi chiedeva un succo d’arancia. Era il campione del trasformismo erotico: ben prima di me si era ingegnato nell’arte camaleontica del compiacere con l’inganno. Un saltimbanco zeligiano che aveva messo in scena dei tableaux vivants su palcoscenici ben più importanti del mio.
Propose anche a me il suo numero più riuscito. Il palcoscenico: la sua camera. La sceneggiatura: di ispirazione kunderiana. I protagonisti: me medesima in tutta la mia quasi integra nudità. Gli oggetti di scena: uno specchio posato a terra e una bombetta nera alla charlot. Il pubblico: tutti i miei ex amanti, sconfinati nel golfo mistico, tanto il loro desiderio di assistere ad una mia defaillance. Lo specchio avrebbe dovuto rimandare l’immagine di una Sabina giocosa pronta all’ardita e mutevole avventura erotica. E, invece, quella che si stava specchiando carponi era davvero la mia insostenibile leggerezza dell’essere.
Avevo sempre accontentato, e ora non capivo cosa servisse per accontentare me. I classici della letteratura mi si rivelarono come il mio tentativo di creare un database di erudite citazioni da sfoggiare. I contemporanei, invece, mi apparivano come un’abile mossa per mostrare la mondanità di una che non si perde neanche una presentazione. Non capivo più una nota di tutte quelle sinfonie che avevo sempre suonato col mio giradischi. Uscivo stremata dalle maratone di film neorealisti brasiliani che tanto avevo detto di amare. Inghiottivo il martini con un’aria appagata e da adulta, ma intanto mi pervadeva quel disgusto che si prova la prima volta che si assaggia un alcolico o che si aspira il fumo di una sigaretta.
L’essermi innamorata della mia controparte maschile mise fine, quindi, ai miei giochi.
Dimmi che caffè bevi e ti dirò chi sei. L’avevo fatta troppo facile. Se mi chiedevi di macchiartelo ti incolonnavo immediatamente sotto a tutti gli altri deboli senza polso; se lo volevi amaro probabilmente eri uno di quegli stronzi che non richiamano mai, nemmeno dopo una settimana, un mese o un anno. E così via: un test della personalità da giornaletto per tredicenni brufolose.
E ora sono qui, innamorata, smascherata e disarmata. Un ragazzo seduto sullo sgabello accanto al mio in questo desolato bar, un limbo d’anime in pena uscito direttamente dall’angosciata fantasia di un Hopper dispettoso, mi chiede se voglio un caffè.
E io rispondo: – Chi? Io? A me non piace il caffè.