Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti per Corti 2022 “Alle porte co’sassi (Non c’è più tempo)” di Roberta Mormando

Categoria: Premio Racconti per Corti 2022

Un respiro affannoso accompagna il trascinare lento di un grosso sacco di iuta fra polvere rossa e macchie di grasso, scarponi da antinfortunistica scalciano gli escrementi di animale che intralciano il trascinamento. I passi si fermano, l’affanno pure, due mani rugose e macchiate dalla vecchiaia lasciano andare via di peso il sacco che fa un rumore sordo, come un vaso di coccio che si schianta sul pavimento. Rumore di passi che si allontanano, si sente squillare la suoneria di “Inima mea bate” di Cristina Rus.

Un aereo dell’ Alitalia sorvola la città e approccia una manovra di atterraggio. Si legge la scritta antistante al plesso delle partenze “aeroporto internazionale di Pisa”.

Viola, alta,  lineamenti puliti classici dell’est Europa, capelli color cenere, magra con un seno pronunciato che esce maliziosamente e leggermente fuori a causa del pesante borsello a tracolla che spinge in maniera innaturale verso il basso l’abbottonatura della camicia. indossa delle auricolari, ascolta “Inima mea bate” di Cristina Rus, dal cellulare scorre l’elenco delle canzoni: Morandi, Baglioni, Vasco Rossi. Non si accorge di due uomini che la guardano e commentano la sua scollatura in dialetto. Parte “Sally”, canta a bassa voce e cerca tra l’intimo del negozio Victoria Secret e si spaventa dei prezzi esposti sui cartellini. 

Lato arrivi. Viola si guarda intorno, trascina il suo trolley, sente urlare il suo nome. Aumenta il passo in direzione della voce e incrocia Olga, viso di una ragazza dell’est Europa che corre ad abbracciarla emozionata.  Le chiede in rumeno come è andato il viaggio. Viola risponde che un’ora di aereo Bari Pisa non può essere definito viaggio, confrontato al bus preso appena laureate per arrivare in Italia da Galati. Un malandato minivan grigio suona insistentemente il clacson: la ragazza intima a Viola di muoversi perché Sasà, il suo compagno, è nervoso e non gli piace aspettare. 

Viola si siede su un sediolino di pelle strappata da cui esce fuori la spugna gialla dell’imbottitura. Sasà , 50 anni, gorgo, indossa una tuta da mercato anonima blu navy, approfitta del traffico per girarsi in direzione di Viola.  Le chiede come si chiama e la osserva dalla testa ai piedi. Viola dice a Sasà il suo nome, lui la guarda scandalizzato, lei dice soltanto “chiami Vera, è più facile”. Sasà impreca per esser finito con il minivan in un fosso e con fare aggressivo sostiene che Vera ha sbagliato mestiere: non è più l’Italia di una volta, ci sta la crisi,  e i politici si sono mangiati l’Italia, con il fisichetto che Vera si ritrova, se vuole può fare facilmente più soldi in un locale di un amico che come badante per massimo 400€ al mese.  Vera non ascolta, guarda fuori dal finestrino, rinforca gli auricolari e ascolta ancora Sally.

Sasà parcheggia il minivan e intima alle due ragazze di fare presto. Olga aiuta Vera a scendere la valigia. Ad accoglierle Arturo, un grasso portiere sulla sessantina, molto gentile che si lancia ad aiutarle e le accompagna in ascensore: va ancora con due 10 lire e si possono cambiare in portineria soltanto da lui perché in giro non si trovano. L’ascensore si ferma al settimo piano del vecchio stabile elegante di via Petrarca. Il portiere bussa alla porta con la targhetta “Scaturchio”. Una anziana signora, apre la porta e invita le ragazze e Arturo per un caffè, che si congeda perché ha lasciato vacante la portineria. Anche Olga saluta Vera: non vuole far arrabbiare Sasà e passare una brutta giornata.

La vedova Scaturchio mostra la casa a Vera: molto grande, almeno 150 metri quadri, arredata con gusto e mobili di valore che hanno fatto il loro tempo. La vedova Scaturchio, lenta per un evidente zoppichìo, racconta con onore le gesta dello scomparso marito che in vita non le ha fatto mancare mai niente e le fa vedere il pezzo forte della casa: una terrazza che si apre sulla torre dell’Orologio! Vera osserva incantata il panorama e la vedova rammaricata le dice di osservare bene perché il panorama è l’unica cosa bella e intatta che rimane spesso delle città!

Viola canta allegra in cucina 50 special di Cesare Cremonini con un italiano zoppicante, la vedova Scaturchio ascolta divertita seduta intorno alla tavola. Viola scava nella credenza tra i pacchi di pasta e chiede alla vedova se è rimasto un pacco di spaghetti e lei le risponde divertita che, per quel poco di pasta che le interessa mangiare, può buttare i tortiglioni! Viola sorride e si lancia in un simpatico “ con il pomodorino gli spaghetti so la morte sua”. Viola indossa la giacca e rammenta la vedova di controllare l’acqua sul fuoco.

Viola ha le borse della spesa in mano. Le va incontro il portiere Arturo, con eccessivo zelo le toglie le borse di mano e l’accompagna all’ascensore. Viola controlla nelle tasche e si accorge di non avere con lei le dieci lire per salire. Arturo le dice di non preoccuparsi l’accompagna lui con la chiave della gettoniera.

L’ascensore è stretta, Arturo con la scusa di un moscerino allunga le mani sul seno di Viola che spaventata si ritrae, non c’è spazio per scappare e ha le buste in mano della spesa. Arturo le dice di stare tranquilla che lui è un esperto e deve provare la potenza di un italiano vero. Viola tremante guarda l’ascensore salire e ha un sospiro di sollievo quando si ferma al settimo piano.

Viola scende allegra le scale, canta “bene, va bene, va bene, va bene, va bene così…”, sorride, davanti alla portineria il sorriso si spegne, lo sguardo fisso per terra, il passo accelerato, le braccia stringono forte il giubbino leggero. Lo sguardo famelico di Arturo dalla guardiola la segue fino al portone.

Piazza dell’Anfiteatro, Viola, Olga e altre due ragazze cantano in rumeno, battono il ritmo con le mani, ridono; un uomo sulla sessantina, capelli bianchi, sovrappeso, in pantalone e maglietta a righe, con un violino, si avvicina al gruppo delle ragazze e intona una canzone popolare, Petra canta con lui e anche le altre ragazze la seguono.

Carica di spesa e una grossa cassa d’acqua pesante, Viola entra nel palazzo, il vecchio Arturo è in piedi sul gradino della prima rampa di scale, la guarda come un ragno guarda una mosca nella rete, il respiro affannato fa sollevare in modo impressionante la sua grassa pancia, è sudato. Viola scruta nervosa nel portamonete: non trova le dieci lire! Con un ghigno Arturo si avvicina all’ascensore, entra, tira fuori dalle tasche le monete e con un cenno della testa la invita ad entrare. Petra si mette all’angolo, sguardo basso, le buste davanti a protezione del suo corpo. Arturo le si mette affianco, schiena al muro, e con la mano le palpa le natiche, la mano sale alla schiena, al fianco, sul seno di Viola, che trema ma resta in silenzio; Arturo le si mette davanti e col il suo fiato fastidioso si avvicina alla bocca di Viola. L’ascensore si apre di colpo.

L’ingegnere Scapece, un bell’uomo sulla quarantina, capello brizzolato, fisico asciutto, vicino di casa della vedova Scaturchio, è sul pianerottolo che aspetta l’ascensore in salita. Ha fretta, poggia le due mani ai lati dell’ascensore e batte il piede freneticamente. L’ascensore arriva al piano, le porte si aprono e sgrana gli occhi davanti a quello che i suoi occhi vedono: le mani del vecchio porco Arturo sul corpo della bella, fresca e giovane Viola! Senza urlare ma con tono ringhioso intima ad Arturo di sparire. L’uomo, senza dire una parola, esce dall’ascensore e si butta giù per le scale. L’ingegnere Scapece toglie le pesanti buste dalle mani di Viola e con delicatezza la accompagna alla porta di casa. Viola prova a parlare ma l’uomo la tranquillizza: non è lei quella che deve scusarsi!

Viola è sul terrazzo con la vedova a godere del sole, nota che sul terrazzino di fianco a destra ci sono i signori Esposito, una coppia di sessantenni ben curati e piacenti loro vicini di casa; con un cenno della mano richiama la loro attenzione e sorride loro, ma la signora la guarda contrariata e tira a se il marito e lo costringe a rientrare. Stranita, si volta dall’altro lato e nota che fuori, sull’altro terrazzo c’è l’ing. Scapece che la sta osservando: Viola sorride timida, arrossisce e abbassa la testa. Ritorna a dare attenzioni alla vedova.

Arturo mette ordine nello stanzino degli attrezzi; ci sono vecchie corde e barattoli di vernice messi alla rinfusa sullo scaffale. Con lui ha portato il figlio per farsi dare una mano, il giovane guarda con curiosità dei pannelli di lana, Arturo gli dice che sono pannelli isolanti avanzati dai lavori di ristrutturazione, con un lungo sbuffo gli lancia dei sacchi di iuta e gli ordina di arrotolarli e chiuderli dentro. Una voce di donna chiama il portiere: è Nunzia Russo, del secondo piano che gli lascia una busta da consegnare agli Scaturchio. Arturo sbircia annoiato nella busta e chiede cosa deve fare degli stracci che ci sono lì dentro; scandalizzata la signora Russo gli dice che sono per Vera, per ringraziarla dell’aiuto che le ha dato con la lingua inglese per quel buono a nulla del suo figliolo. Arturo scoppia a ridere e asserisce che Vera di quegli stracci non se ne fa niente che i vestiti se li fa comprare da tutti quelli da cui si fa accompagnare la sera: ogni sera uno diverso! Poi le lancia un monito: meglio stare attenta al figlio pure! A bocca aperta, incredula, incapace di spiaccicare parola, la donna strappa la busta dalle mani del portiere e se ne va di corsa.

Viola piange disperata nel bagno. La vedova, alla porta, le chiede di aprire, le dice di aver sentito i suoi singhiozzi ed è preoccupata per lei. Vera le apre, la guarda con gli occhi rossi, si morde le labbra per non piangere. L’anziana donna allarga le braccia in un muto invito verso la ragazza, Vera lo raccoglie e, in lacrime, si getta fra le braccia della donna. La vedova Scaturchio le accarezza dolcemente la testa e le chiede di raccontarle tutto.

Nel salotto di casa Scaturchio sono seduti la vedova e l’ing. Scapece, Viola è in piedi e si regge con forza allo schienale di una sedia Luigi XVI, il suo sguardo timido varia dalla vergogna nei confronti di Scapece, alla speranza verso la vedova. L’anziana chiede all’ingegnere la conferma di quello che ha visto fare ad Arturo, annuisce. Guarda Viola e, senza distogliere lo sguardo da lei, afferma di non aver mai dubitato della buonafede della ragazza e promette di impegnarsi a far dimenticare a tutti questa brutta storia. Viola sorride grata, la signora Scaturchio chiede con veemenza di fare in modo di far sparire per sempre Arturo da quel palazzo.

Arturo spazza l’androne del palazzo; suo figlio Gaetano esce di casa col casco in mano; fischietta, con noncuranza getta una pallina di carta proprio ai piedi del padre. Senza nemmeno degnarlo di uno sguardo si infila il casco e lo supera. Arturo lo richiama, gli dice di portare rispetto al suo lavoro, che sono trent’anni che spazza via anche la cacca dei cani per dargli una vita dignitosa, che un giorno quel lavoro glielo lascerà in eredità. Gaetano si leva il casco, lo guarda con raccapriccio e afferma che se lo può tenere il suo lavoro di merda, che tanto lui non lo vuole fare! Arturo osserva il figlio mentre se ne va, sente rumore di passi dietro di sé, si gira e vede l’ingegnere Scapece arrivare con la faccia seria: lui gli deve parlare!

Dalla finestra Vera osserva tutto quello che succede di sotto. L’ingegnere Scapece, immobile, con le mani in tasca, lo sguardo fisso su Arturo che dimena le braccia in maniera disarticolata mentre parla; la bocca si spalanca in mille smorfie che variano dalla paura alla disperazione. Di colpo Artuto smette di parlare, abbassa lo sguardo di fronte al compostissimo ingegnere, le braccia abbandonate scomposte, disarticolate, ai lati del busto. Sul portone del palazzo, la moglie di Arturo, Teresa, una donna col viso rigato dagli anni e dalla fatica, vestita a lutto, piange disperata sorretta dalla spalla del figlio, urla del pianto tutta una serie di insulti accompagnati dal gesto ritmico del braccio accusatorio verso il portiere. D’improvviso il vecchio ha uno scatto, un braccio si solleva verso l’alto in moto di stizza rabbiosa, Arturo si gira e se ne va verso la strada, si ferma, solleva la testa nei confronti della finestra di Vera, con uno sguardo rabbioso, torvo, un ghigno, distoglie lo sguardo, se ne va verso una panda parcheggiata in modo anomalo sul marciapiede. Vera, spaventata si ritrae

È sera, Arturo rientra a casa, al posto della guardiola suo figlio Gaetano che guarda, e ride, un programma in televisione, i piedi poggiati sulla scrivania, un cartone della pizza con residui di mozzichi all’interno, bottiglie di birra vuote. Arturo guarda il figlio con rimprovero gli dice che lui, in trent’anni, non a mai osato quell’atteggiamento, che quello è sempre stato un palazzo pulito e rispettabile. Gaetano lo deride apertamente: in trent’anni di vita suoi invece lui non ha mai tentato di fottersi le ragazze che non lo volevano, che per colpa delle sue palle deboli si trova a fare quel lavoro di merda e che è meglio se rientra subito a casa sennò gli scatta l’allarme che gli hanno messo nelle mutande. Arturo solleva la mano per schiaffeggiarlo, Gaetano gliela blocca a mezz’aria, gli dice fra i denti che è un miserabile capace di fare i forte solo coi più deboli.

Il parabrezza dell’auto è sporco di pioggia di fango, a malapena si intravede Vera che esce dal portone, cammina tranquilla, attraverso la strada, non si accorge della figura all’interno dell’auto. Vera scompare dal raggio visivo dei finestrini . una mano rugosa e macchiata mette in moto e se ne va.

Piazza San Michele: Vera e Olga siedono al bar, mangiano una coppa di gelato, Olga dice all’amica di stare tranquilla, la storia col vecchio si è risolta e lei deve solo pensare a fare il suo lavoro; Vera fa spallucce, dice che, comunque, i segni delle mani di quel porco sul suo corpo lei quasi se li vede. Olga poggia una mano sulla sua, in segno di sconforto, vede qualcosa sulle spalle di Vera e il suo sguardo si fa malizioso, bisbigliando le dice che a passeggio c’è il bell’ingegnere. Vera si irrigidisce; l’ingegner Scapece si accorge delle due ragazze e si ferma, al suo fianco una stupenda ragazza, mora, altissima, vestita in modo elegante. L’uomo chiede alla ragazza se sta bene, Vera, timida, lo guarda e risponde di si, uno sguardo rapido alla donna al suo fianco e abbassa subito lo sguardo. L’ing. Scapece si raccomanda con le due ragazze di stare attente e si congeda.

Viola entra nel portone, prova ad accendere la luce nell’androne ma non avviene nulla, Viola sbuffa. va verso le scale, non arriva nemmeno al primo gradino: una mano grassa le copre bocca e naso con uno strofinaccio, stringe forte, con il braccio le blocca le sue di braccia dietro la schiena. Vera è poco forte per riuscire a svincolarsi, oppone resistenza, ma quello stringe sempre più forte, Vila perde i sensi. La porta dello stanzino si apre, Viola è trascinata dentro. È buio, il volto dell’uomo si intravede appena.

La luce dello stanzino illumina leggera il viso stravolto e scomposto di Arturo; Viola è esanime per terra. Prende delle corde, la spoglia completamente, guarda dall’alto quelle carni bianchissime, i capelli biondi in contrasto col pube scuro, si tocca il pene da fuori i pantaloni, il respiro è affannoso, lega le mani di Viola, lega i piedi, ci ripensa li scioglie, le piega e le allarga le gambe, avvicina la faccia, Viola si lamenta, spaventato, si alza di colpo, prende la corda, la stringe al collo della ragazza forte, più forte. La testa di Viola ricade indietro. Arturo la tocca, le stringe i seni, tormenta i capezzoli, scende con le mani sul ventre fino al pube, eccitato, la penetra con forza con le dita. Si mette in ginocchio, si abbassa i pantaloni, si mastrurba accanito sul ventre di Vera.

In piedi all’ingresso di un capannone, Arturo fuma nervoso, sente un cellulare che squilla, impreca, butta la sigaretta, corre dentro. Riesce dal capannone ancora col cellulare che squilla: lo spegne, toglie la batteria, lo scalcia via con violenza. Soddisfatto, si riaccende la sigaretta, fischietta il motivetto della suoneria, si mette in macchina e sparisce nel buio.

Arturo guida, tira fuori dal portaoggetti un mazzo di chiavi, lo stringe con forza: ora può tornare a casa sua! Dal parabrezza sporco vede tante luci blu che lampeggiano sotto al portone. Si ferma, scende lentamente, rimane in piedi vicino alla sua panda. La vedova Scaturchio, in piedi, sorretta da un bastone e da due uomini in divisa, fissa in silenzio il vuoto. Altri agenti si avvicinano ad Arturo, lo ammanettano, lui prova a protestare la vecchia inizia un monologo, lo sguardo sempre fisso nel vuoto, tutti si immobilizzano con lo sguardo su di lei: Viola la avvisa sempre quando sta per tornare a casa e lei si mette alla finestra ad aspettarla; ha visto Viola rientrare nel portone, ha aspettato di vederla entrare in casa, ha riguardato alla finestra, ha visto Arturo trascinare quel grosso sacco in macchina. Ha capito tutto. I residenti del palazzo sono tutti per strada, fissano muti Arturo: l’ingegnere Scapece ha lo sguardo addolorato, la signora Russo le due mani a stringersi la faccia a non credere all’orrore, la moglie di Arturo singhiozza frenando il pianto con entrambe le mani, come una che non si sente in diritto di disperarsi. Il figlio di Arturo guarda il padre con rabbia. La voce del vecchio portiere si spezza, piange e urla che queste donne devono restare nei loro paesi.

Il capannone ha il tetto rotto, i goccioloni penetrano dal tetto e bagnano il sacco di iuta: i contorni di un viso si intravedono sotto la stoffa che si attacca alla pelle.

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