Racconti nella Rete®

23° Premio letterario Racconti nella Rete 2023/2024

Premio Racconti nella Rete 2022 “Delitto alla palestra” di Gianpietro Galli

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Ancora una volta fui svegliato nel cuore della notte. Al telefono c’era il mio amico e commissario di Polizia, Bartolomeo Stucchi. Con la voce impastata dal sonno e dalle piume fuoriuscite dal cuscino riuscii a dire solo: “Chi è?” “Ciao Samuele sono io, Bartolomeo. Scusa se ti disturbo a quest’ora, ma c’è stato un delitto alla palestra di arti marziali di via Borgo Scuro. Avrei bisogno del tuo aiuto per le indagini perchè conosci il giapponese e le loro maniere. Saresti disponibile?” disse il poliziotto. “Subito?” “Ma no, figurati, che vai a pensare, ora è tardi. Ci vediamo domattina verso le dieci” replicò Stucchi. Domandai: “Ma allora perchè mi hai chiamato a quest’ora?” “ Così, per romperti le palle. Ciao, a domani”.

Riappese, prima di essere raggiunto dal mio amichevole vaffanculo. Prima di addormentarmi ripensai alla dolce Miyusho Ocakadi, una giapponesina conosciuta qualche anno prima e con la quale avevo avuto una storia d’amore. L’avevo incontrata per caso ad una mostra d’arte moderna a Milano. Nel tentativo di conoscerla feci finta di essere un critico e commentai una delle opere esposte  paragonandola ad un bidone della spazzatura finito sotto alle ruote di un trattore non sapendo che l’artista che l’aveva creata era proprio lei. Rideva ancora della mia gaffe anche dopo avermi fratturato in più punti le falangi di due dita. La mia ironia la colpì ed accettò, mentre mi steccavano la mano al pronto soccorso, il mio invito a cena. Iniziammo a frequentarci e la storia durò un paio d’anni nei quali Miyusho mi introdusse nella meravigliosa cultura del Giappone, comprese le arti marziali. Poi lei dovette tornare nel suo paese natale perchè temeva di aver lasciato aperto il gas ed io la persi di vista, anche in considerazione del fatto che avevo scordato gli occhiali da miope. Soffrii come un cane per oltre tre quarti d’ora. Non ci siamo più rivisti, ma ogni tanto ci scriviamo delle lettere. La settimana scorsa lei mi ha spedito una “C”. Mi addormentai stringendo forte il cuscino, che durante la notte soffocò. Il mattino seguente dopo un’abbondante colazione al bar sotto casa mi avviai alla palestra. Grazie al fatto di essere un abile investigatore privato la trovai rapidamente. Lessi l’insegna: “Kyoto Inmoto”, che nome poetico pensai. Tradotto significa “Terra della meditazione spirituale e della purificazione del corpo attraverso il sudore, la fatica e la pratica di arti marziali che vi apriranno le porte e le finestre di una nuova visione della vita e sarete in pace con il mondo intero, ed anche con la suocera”. Il morto era il proprietario della palestra: il sensei Sun Chi Che Ciuli, nativo di Osaka con lontani parenti cinesi. Era stato trovato la notte dalla donna delle pulizie inginocchiato sul tappeto con indosso il kimono da riposo e sette Katana nella schiena. Scesi le scale a pelle di leopardo avendo inciampato nel nastro della Polizia che delimitava la scena del crimine. Atterrai sul tatami fragorosamente ed uno degli  allievi, convocati per l’interrogatorio, pensando ad un attacco si mosse fulmineo come un gatto che attraversa la strada di corsa prima si essere investito da un camion. Mi fu addosso e mi colpì con un Futoki sulla nuca che mi intontì.

Riuscii lo stesso a  girarmi su di un piede agilmente e con il gomito gli stampai sulla mascella un Uromaki che lo fece volare via. Un altro allievo si alzò e mi venne incontro con aria tutt’altro che amichevole. Mi preparai al suo attacco mettendomi nella posizione del “fenicottero con la zampa alzata perchè ha pestato una merda” e lo attesi. Fu un gioco da ragazzi atterrarlo con un colpo di  Tufomara sul naso. Cadde senza un lamento. Un terzo allievo mi si avventò contro e al grido di: “Wasabi!!” mi prese in pieno stomaco con una ginocchiata. Gli alitai in faccia un Tufumo Orachi (tradotto significa “Vento leggero che uccide”) a base di tonno, cipolle e aglio e cadde tramortito. “Ok, ora basta! Sono un investigatore privato e sono qui per aiutare la Polizia a trovare chi ha ucciso il vostro sensei!” dissi spazientito. Tutti gli allievi presenti si inchinarono in segno di scusa e di saluto, sorpresi anche dalla mia abilità nelle arti marziali. In quel mentre entrò ruzzolando, inciampando nello stesso nastro che aveva fatto cadere me, il mio amico commissario. Si rialzò minimizzando la caduta passandosi la mano nei capelli, anche se era pelato come una palla da biliardo. “Ciao Samuele, come stai? Grazie per essere venuto. Sono sicuro che con il tuo aiuto risolveremo il caso in breve tempo.” nel dire questo mi porse la mano e con un colpo di Fotoki lo feci volare sul tatami. “Scusa, non ho saputo resistere alla tentazione ma almeno la prossima volta eviterai di telefonarmi per nulla alle due del mattino.” gli dissi mentre lo aiutavo ad alzarsi. “Bene, Samuele, hai già dato un’occhiata alla scena del crimine?” fece il commissario. “No, sono appena arrivato.” e lo seguii verso il corpo senza vita del sensei Sun Chi Che Ciuli. Aveva gli occhi chiusi. Sembrava stesse ancora meditando. Gli passammo dietro e vedemmo le sette Katana infilzate nella sua schiena: volevano essere sicuri di ucciderlo, pensai. “Buffo. Sette Katana, una per ognuno dei sette nani” fu il secondo pensiero che mi venne in mente. Evitai di esternarlo. “Curioso, Bartolomeo, hai notato?” dissi invece. “Cosa?” replicò il poliziotto. “Sul kimono da riposo del sensei c’è ricamato un bersaglio come quello del gioco delle freccette. Davvero strano.” Il commissario pensò un attimo, poi disse: “Già, davvero strano e curioso. E poi guarda?” “Cosa?” gli domandai. “Sette Katana. Una per ognuno dei sette nani.” Non si accorse nemmeno del Futoki che lo colpì in  nuca. Un mormorio di ammirazione e di approvazione si alzò discreto tra tutti gli allievi. Si riprese dopo qualche minuto che io avevo sfruttato per cercare indizi. Ma non era facile trovarli. “Allora, Samuele hai già qualche idea su chi possa essere stato?” non risposi, mi limitai a guardarmi in giro e nel mentre che lo facevo notai uno degli allievi che  contravveniva alla regola dell’assoluta immobilità quando si è seduti inginocchiati sul tatami.

Era  indiscutibilmente nervoso. Le mani sulle ginocchia avevano già macchiato di sudore il kimono. “Vorrei interrogare l’assistente del sensei, se non ti dispiace.” chiesi al commissario. “Perletti! Mandami qui il muso giallo assistente del cadavere prima che questo inizi a decomporsi!” urlò con estemo tatto verso uno degli agenti presenti in palestra. Si presentò un kimono di taglia media con dentro un giapponese originale: sguardo fiero e aristocratico, dal fisico non gli avresti dato cinque yen, ma intuivo che avevo dinanzi a me un campione di arti marziali che avrebbe potuto stendere tutti i presenti in un batter d’ali di fenice rossa. Dopo essermi complimentato con me stesso per il poetico paragone, mi inchinai dinanzi al maestro che fece altrettanto e nel suo sguardo  notai una nota di ammirazione e rispetto nei miei confronti. Mi presentai: “Samuele Tosacani”. “Tofuso Lamoto” rispose. “Ah! Ah! Ah! Tofuso Lamoto! Come i giapponesi delle barzellet…” Perletti non finì la frase. Udimmo solo un leggero fruscio di kimono e l’agente si ritrovò svenuto sul pavimento. In segno di disprezzo il maestro colpendolo con un Idoshi sulla nuca non volle nemmeno che cadesse sul tatami. “Roscio! Balestra! Portate via quest’idiota!” urlò di nuovo Bartolomeo a due altri suoi agenti. “Veniamo al dunque, Samuele. Il maestro Tofuso parla poco l’italiano e preferisce esprimersi nella sua lingua d’origine. Per favore, chiedigli se sa qualcosa dell’omicidio o ha qualche idea su chi possa aver ucciso il sensei. Ah, e chiedigli  se può consigliarmi un buon ristorante giapponese.” Ero felice di poter rispolverare la lingua del Sol Levante, e così ricordare la dolce Miyusho. “Sato sake!” salutai, poi proseguii: “Saburo sakai oriaki tofu, tofiro mishune mururoa. Arigatò honda fujiama tokiosan miroki. Ho hi tufù, hi botu mamoto saki?” “Ai!” rispose il maestro. “Mmmm, interessante” dissi passandomi con studiato gesto teatrale la mano sulla barba incolta. “Il maestro Tofuso dice che il sensei nei giorni scorsi aveva ricevuto delle minacce telefoniche alle quali non aveva dato troppo peso, fino  all’altra sera, quando nel suo armadietto ha trovato il suo kimono da cerimonia ridotto a brandelli. Inoltre la sua rarissima katana Sanata San è scomparsa. Per il ristorante mi ha consigliato l’ Uromaki Tempura in piazza Velasca. Mi ha detto di non andarci dicendo che sei amico del maestro sperando in uno sconto perchè i giapponesi odiano  questa cose.” tradussi al commissario. “Ma ha detto tutto questo con quella semplice risposta?” chiese con espressione stupita. “Si è espresso con un tipico ideogramma vocale giapponese” risposi dandomi un sacco di arie. “Minchia” fece il mio amico poliziotto. “Nella cultura giapponese” proseguii, “rovinare un kimono da cerimonia è un offesa gravissima, sopratutto se lasci anche un biglietto con scritto: maledetto muso giallo questo è solo l’inizio, mi vendicherò fino a che non ti vedrò morto e sappi che sono stato io a ricoprire di wasabi le tue supposte. Non dovevi bocciarmi all’esame di cintura viola, ma sopratutto non dovevi far onore al tuo nome insegnando alla mia fidanzata la Treccani del Kamasutra. Un tuo allievo.” Attimo di silenzio nei quali tutti udimmo vergognosi brontolii provenire dallo stomaco del commissario. “Scusate, sono i fagioli di ieri sera che si ripresentano”. “Udo! Kata!” disse con voce rabbiosa il maestro Tofumo. “Che cosa ha detto, Oliviero?” mi chiese il mio amico. “Meglio che tu non lo sappia” gli risposi. “Quindi, riprendendo il discorso, è stato uno degli allievi del sensei a compiere il delitto, questo è lampante. Fammi dare un’occhiata ad una cosa.” Mi avvicinai alle spalle del cadavere  e guardai ancora una volta le katana nella sua schiena. “Come avevo immaginato. Ecco dov’è finita la Sanata San scomparsa: al centro del bersaglio. Ucciso dalla sua stessa spada. Un grandissimo disonore.” Il commissario si avvicinò per guardare ma inciampò nel bordo del tatami e rovinò addosso al cadavere.

In un orrendo groviglio di spade, kimono insanguinato e vestiti occidentali di pessimo taglio aiutammo il poliziotto a rialzarsi. Fu in quel mentre che notai un particolare rimasto nascosto fino a quel momento sotto al corpo del sensei: una ciabatta destra infradito di bambù numero 48, di quelle che usano gli allievi delle palestre di arti marziali quando non camminano sul tappeto dell’allenamento, e che solitamente lasciano ai suoi bordi quando si inginocchiano su di esso. Un indizio perso dall’assassino. “Hai notato cosa c’era sotto al cadavere?” dissi al mio amico. “Ho visto. Ma cosa ci fa una ciaspola in una palestra giapponese?” chiese. Ancora un lievissimo fruscio di kimono e il commissario si trovò lungo e disteso sul tatami, colpito alla nuca da un Sotomaki del maestro Tofumo. “Non è una ciaspola, è una ciabatta. L’ha persa l’assassino di Sun Chi Che Ciuli. Probabilmente ha cercato di spostare il cadavere ed è rimasta incastrata sotto al suo corpo. E poi attaccato al kimono c’è il biglietto con il prezzo e il nome del negozio dov’è stato acquistato. Altro indizio dimenticato.” dissi a Bartolomeo, che si era rialzato e si stava massaggiando la testa guardando il maestro Tofumo, che aveva le braccia incrociate sul petto e lo sguardo privo della benchè minima espressione ed emozione. “Potremmo andare al negozio e cercare di scoprire chi lo ha comprato. Magari con un identikit..” lo bloccai prima che continuasse rischiando un altro colpo di Saroki: “E’ più semplice ispezionare la sala e vedere chi tra gli allievi porta sandali del 48 e chi ne ha perso uno.” Il maestro sorrise della mia arguzia e fece un impercettibile inchino con la testa che sfuggì a tutti tranne che alla mia vista acuta da investigatore privato. Nel silenzio più assoluto, rotto solo dal vociare che proveniva dall’esterno provocato dalla furibondsa lite scoppiata tra un autista di pulmann di linea e da un idiota che aveva parcheggiato, per entrare dal tabaccaio, il Suv in doppia fila impedendone il passaggio,  iniziammo a passeggiare alle spalle degli allievi. La concentrazione stentava. La lite aveva assunto toni sempre più drammatici. Con un gesto della mano il maestro Tofumo fece segno a tutti di stare fermi. Senza un rumore salì le scale e scomparve nella luce del sole quando aprì la porta in cima. Questa si richiuse senza rumore alle sue spalle, poi udimmo il proprietario del Suv dire: “Hei, tu muso giallo con il pigiama, che cazzo vuoi da m…”. Un leggerissimo fruscio di kimono, un colpo sordo, il silenzio e infine un applauso fragoroso. La porta si riaprì e fummo inondati dalla luce del sole mentre colorati fiori di loto cadevano lenti sul maestro che scendeva le scale avvicinandosi a noi e pronunciando solo: “Ai!”. Tradussi: “Tutto risolto, possiamo continuare.”  La tensione nella palestra era così alta che si poteva tagliare con un colpo di katana (umorismo giapponese). Arrivammo alle spalle dell’allievo che avevo notato tremare e sudare come un lottatore di Sumo. Vidi subito che di fianco a lui era appoggiata al bordo del tatami una sola ciabatta di bambù. Aveva commesso un altro errore: per la fretta quella mattina non aveva potuto procurarsene un altro paio. “Bartolomeo, ecco l’assassino del sensei. Come vedi porta il 48 si scarpe e gli manca una ciabatta, quella rimasta sotto al cadavere.” non feci in tempo a continuare che l’allievo con un gesto fulmineo si alzò in piedi sguainando una lucentissima katana con il manico in madre perla e sulla lama delle incisioni con la pubblicità del ristorante Kyoto Santoro. “Maledetto Tosacani, sei stato incredibilmente abile a scoprirmi! Ma non godrai a lungo del tuo successo! Ti aprirò in due come un pesce spada!” ed iniziò a roteare la spada nell’aria. Scansai un colpo che mi avrebbe di sicuro ucciso e fui alle spalle del cadavere del sensei. Sfilai una delle katana dalla schiena, per caso presi la Satana San, la feci roteare anch’io, passando ad un niente dall’orecchio del commissario che non si accorse di aver rischiato di diventare come il pittore Van Gogh, e infine assunsi la posizione del “Guerriero che avrebbe preferito essere al bar per l’happy hour”. L’antagonista intimorito dalla mia abilità prese l’antica posizione di difesa del “Guerriero che si domanda perchè non ha scelto il calcetto del giovedì sera con gli amici”. Ci guardammo negli occhi per alcuni minuti, studiandoci. Poi il maestro Tofumo disse: “Morimoto!” che tradotto significa: “Muovetevi guerrieri! Il sole sta tramontando, gli uccelli tornano al nido, i pesci vengono a galla, ma sopratutto mi sto rompendo le palle!”. Ci muovemmo all’unisono e le nostre spade cozzarono una contro l’altra più volte spargendo nell’aria scintille luminosissime. Continuammo così saltando sul tatami e tra gli altri allievi che secondo il rigido rituale giapponese in questi casi contempla per loro l’assoluta immobilità e attenzione, qualsiasi cosa accada. Nell’ordine tranciammo ai presenti: due mignoli del piede destro, un orecchio, una narice, sei lobi, due anulari, varie fette di kimono, quello che in una prima superficiale analisi era sembrato essere un fallo e che ad una più attenta invece si rivelò tale, e due toupè.

Ansimando, dopo l’ultima stoccata ci fermammo uno di fronte all’altro. Il sudore colava copioso, avevo la canottiera della salute fradicia. Sapevo che il mio avversario stava per compiere l’assalto finale, lo intuivo dal suo sguardo, ma io ero già pronto a respingerlo. “Kiijaijj!!!” urlò e saltò verso di me come un gatto addormentatosi su di un piano cottura ad induzione acceso. Il colpo della sua spada avrebbe aperto in due un armadillo gigante. Io con abile mossa lo evitai per un soffio domandandomi al contempo chi diavolo avesse portato un armadillo gigante in palestra. Con la mia katana, tenendo l’affilatissima lama di piatto, gli assestai un tremendo Hiroshi in nuca. Svenì che era ancora in volo e non fece nemmeno in tempo a finire di pronunciare la parola “australopiteco”. Cadde con un tonfo sul tatami e su due allievi. Tre agenti furono subito accanto all’assassino e lo ammanettarono. Rimisi nella schiena del sensei la sua katana e salutai il maestro Tofumo che rispose al mio inchino con: “Kiha! Min!” che tradotto significa: “Complimenti! Siete un combattente eccezionale. Sarei onorato di avervi come mio assistente”. Accettai subito: l’onore era tutto mio. Quando il colpevole riprese i sensi, ci avvicinammo a lui. Forse un po’ troppo: era chiaro che la sera prima aveva cenato con aglio puro. Le domande il commissario gliele fece allontanandosi: “A parte dichiarare che siete in arresto, sig. Santini, per l’omicidio del sensei Sun Chi Che Ciuli vorrei chiedervi per quale motivo l’avete fatto.” “Beh, se avete letto il messaggio lasciato nel suo armadietto dovreste aver già capito il perchè. Ero uno dei suoi migliori allievi eppure non mi ha mai concesso la cintura viola, che merito senza ombra di dubbio. La mia fidanzata dopo averlo frequentato assiduamente negli ultimi due mesi ed aver ripassato con lui tutto il Kamasutra dice che io sono un amante ridicolo e che non vuole più vedermi. Non ha mai apprezzato, per ripicca ne sono convinto, la mia cucina giapponese nonostante io sia arrivato secondo a ‘Masterchef Banzai! Nippon!’.                                                                                    

Tempo fa gli prestai tutte le videocassette di Ken il guerriero e me le ha restituite rovinate. Credo possa bastare, questo.”  Il commissario passandosi la mano sul mento disse: “In effetti rovinare le videocassette di Ken il guerriero… Bene… Roscio, Pistocchi portate via quest’uomo. Ah, un momento un’ultima domanda. Il kimono glielo avete regalato voi?” “Si, certo, e non mi ha nemmeno ringraziato.” rispose Santini. “E perchè quel bersaglio sulla schiena?” chiese ancora il commissario “Questa è un’altra domanda… comunque non è un bersaglio, è la pubblicità di un tirasegno”.  Mentre i due agenti e l’omicida salivano le scale gli porsi io una domanda che aveva iniziato a frullarmi in testa: “Santini, perchè ha usato proprio sette katana?” Lui si fermò, attese teatralmente qualche secondo, si voltò e disse: “Ma è ovvio. Possibile che non l’abbiate ancora capito? Una per ognuno dei sette nani.” Uscirono dalla palestra e sparirono oltre la porta. “Oh, bene! Samuele, complimenti come sempre” mi disse l’amico poliziotto “hai risolto un altro caso. Ed ho scoperto qualcosa di nuovo su di te: devo ricordarmi di non fare mai a botte.” Scoppiammo in una fragorosa risata ferendo leggermente due allievi. Il cadavere fu portato via ed in breve nella palestra rimanemmo solo noi due ed il maestro Tofuso. Dopo averlo salutato e ringraziato per avermi fatto l’onore di nominarmi suo assistente personale scomparve negli spogliatoi. Io e Bartolomeo salimmo le scale ed uscendo sul marciapiede inciampammo  nel nastro della Polizia che delimitava la scena del crimine. Quella sera cenammo insieme al ristorante giapponese indicatoci dal maestro, e quando fui a casa,  ebbro per i bicchierini di sakè che ci eravamo scolati, mi prese la dolce malinconia degli ubriachi ed iniziai a pensare alla dolce Miyusho. Così mi venne voglia di mandarle una lettera. Ero indeciso tra una L ed una T. Poi pensai che sarebbe stato carino spedirgliele entrambe. E così feci.

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1 commento »

  1. Molto simpatico. Le traduzioni fanno veramente ridere e nell’insieme è un racconto piacevole e ben scritto. Strappa più di una risata. Bravo.

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