Premio Racconti nella Rete 2022 “Il 3%” di Silvia Rivolta
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022Il 3% di una torta è la ciliegina. E non mi sto riferendo all’ espressione idiomatica, una ciliegina sulla torta. No, non è questo il caso. Intendo proprio dire che se di una torta ti offrono il 3%, mangi solo la ciliegina. Del resto, sentirai soltanto il profumo. Non saprai niente del suo sapore, non potrai assaggiarla, provarne la consistenza, sentirla sciogliersi tra i denti. Niente di tutto questo. Solo la ciliegina.
Il 3% della vita di un uomo che ha vissuto un secolo, sono tre anni. Come se ti dicessero che la tua vita durerà cento anni, ma che tu ne ricorderai soltanto tre. O peggio, che solo per tre anni sarai stato veramente felice. Non posso nemmeno pensarci, sarebbe insostenibile. Ma forse non per te, che dici?
Ho anche scoperto che il 3% è il titolo di una serie televisiva brasiliana del 2016 ambientata in un futuro in cui le persone, superando una serie di prove, hanno la possibilità di andare a vivere nel “lato migliore” di un mondo diviso tra progresso e devastazione. Ma solo al 3% verrà concesso questo privilegio perché considerato all’altezza. Lo sai qual è l’ultima prova da superare per meritarsi il lato migliore? Accettare di farsi iniettare un liquido che rende sterili. Forse hai visto questa serie, prima di incontrarmi. Per questo continuavi a dirmi di non farne un dramma? Pensavi che vivere nel lato migliore mi bastasse?
Ho il dubbio che non ti sia ancora chiaro. Emotivamente, intendo. Provo così. Immaginati se tu fossi malato e ti dicessero: «Hai il 3% delle possibilità di farcela». E viceversa, pensa al sollievo: «Hai il 3% delle possibilità di non farcela». Nel primo caso, ti stanno dicendo che sei morto. Nel secondo, di correre a ringraziare il Signore. Sempre che tu ci creda, a Dio intendo. Ma forse le persone come te, non ne hanno bisogno. Si bastano.
Penso al 3% da quel momento, da quando ci siamo conosciuti. Lo ricordi quel giorno? Io come fosse ieri, oggi, questo momento.
Ero al terzo tentativo di fecondazione assistita, piena di ormoni, di buchi nella pancia. Gonfia, intrattabile, labile emotivamente. Nonostante questo, dentro di me, cercavo di tenere viva la speranza che ce l’avrei fatta. Che quella sarebbe stata la volta buona.
Un mio caro amico continuava ad insistere perché ti conoscessi, che ti parlassi della mia situazione, ti descriveva come una persona gradevole e disponibile. Era il tuo giardiniere, Stefano, immagino tu sappia a chi mi riferisco. Per lui invece non avevi un nome, eri il Primario. Ero fiduciosa e desiderosa di aprirmi, sicura che avrei ottenuto un appoggio.
All’orario dell’appuntamento, mi è arrivato un tuo messaggio in cui comunicavi che saresti arrivato in ritardo. Era per un funerale. Ma come è possibile, ricordo di aver pensato, non si muore a sorpresa, e dopo un attimo si organizza la cerimonia funebre! Perché non mi hai avvisata prima? Ma del resto, come mi ha ripetuto il tuo giardiniere, Stefano, tu eri il Primario.
Ti ho atteso in un luogo che in passato doveva essere stata una corte, quelle su cui si affacciavano le case di ringhiera. Oggi, al loro posto, moderne porte contornano uno spazio utilizzato per parcheggiare le auto. Lucide e costose. Faceva molto caldo, eravamo alla fine di giugno, da lì a poco avrei festeggiato il mio compleanno. Non c’erano panchine su cui sedersi, non c’era una segretaria che potesse farmi accomodare in una sala d’attesa. Non mi era rimasta che una fioriera, su cui appoggiare la schiena. Mi sentivo fuori posto. E la ricordo ancora quella sensazione, come fosse ieri, oggi, questo momento.
Ti ho visto arrivare, ma non guidavi, c’era una donna al volante, che poi avrei scoperto essere tua moglie, che ti faceva anche da segretaria. Pur non conoscendoti, ero sicura fossi tu. Lo vuoi sapere il motivo? Nel tuo modo di stare in quell’auto, nello scendere, nei gesti eri estremamente calmo, non come una persona in ritardo. Io sarei stata trafelata, avrei cercato di recuperare minuti correndo fuori dall’auto, probabilmente per la fretta avrei chiuso nella portiera la tracolla della borsa. Sarei arrivata sudata e rossa dall’imbarazzo. Niente di tutto questo. Solo un Primario arriva come sei arrivato tu, con quaranta minuti di ritardo, ma come fosse in anticipo. Mi avete guardato e fatto un cenno, in quel momento, nel vostro sguardo, ho letto della commiserazione. Stava cambiando qualcosa, non ero più così fiduciosa.
Dentro era tutto di marmo. Fermo. Freddo.
«Ma dove è stata finora? A trentasette anni si è vecchie per desiderare un figlio».
Il primo colpo è arrivato così, senza che io me lo aspettassi. Ma come, Stefano, non mi avevi detto che era una persona gradevole?
Non mi hai lasciato il tempo per dirti che mi piaceva studiare, che dopo il liceo ho proseguito e mi sono iscritta all’università. E che poi ho fatto un master perché nel mondo del lavoro ti chiedono anche quello. E poi uno stage, non pagata, ma a tempo pieno. Sai, mi dicevano che non mi avrebbero mai assunta senza conoscermi e che più mi fossi data da fare, e più avrei avuto possibilità di essere presa in considerazione. Ma non è mai arrivata l’assunzione. Perché a quel punto ero una donna in età da marito e da figli, presumo. Mi proponevano soltanto consulenze come libera professionista. Non ho mai capito cosa intendano per libera. Li guardavo i bambini, già allora. Chiedendomi, con paura, ma come si può tenere insieme tutto questo? Nemmeno nella testa mi stava. Per quello, distoglievo lo sguardo.
Non sono riuscita a dirti niente di tutto questo. Perché ancora ero lì, stordita da un colpo che non mi aspettavo di prendere. Come quei figli di genitori violenti, che si aspettano una carezza e invece ricevono un pugno sul viso. Dovevo avere quello sguardo. Di smarrimento. Mi sono sentita tradita, da una persona che non sapevo nemmeno chi fosse, ma che mi era stata presentata come gradevole.
«I suoi problemi nel ciclo mestruale non c’entrano con il fatto che lei non abbia figli. Lei ha semplicemente trentasette anni e i figli si dovrebbero fare a venticinque. E poi scusi, cosa le importa di non avere le mestruazioni. Ci sono donne che pagherebbero!».
«La ringrazio per essere stato chiaro, dottore. Ma non sono d’accordo con lei. Per una donna, il flusso mestruale ha un valore simbolico, e averlo significa funzionare. Essere sane».
Avevo cercato di uscire dall’angolo.
Ricordo la tua risata, a quel punto, mi rimbomba ancora nella testa. Mi ero ripromessa di non farlo: non piangere, non piangere, non piangere! E invece, puntuali, le lacrime hanno iniziato a bagnarmi il viso.
Tu non lo puoi sapere, ma per anni, la scomparsa delle mestruazioni è stata per me come una medaglia appuntata sul petto. Il risultato di quelle che oggi riconosco essere state privazioni, mortificazioni, sacrifici. Controllo. Mi faceva sentire onnipotente, speciale. Ora, invece, caro il mio Primario, il flusso mestruale è il simbolo della mia libertà. Per questo mi importa. Mi importa e come.
«Senta signora, per quello che vedo dai risultati dei suoi esami, lei non potrà mai avere un figlio naturalmente. E anche i trattamenti a cui si sta sottoponendo non la aiutano, le stanno stimolando qualcosa che non c’è. Lei ha una riserva ovarica di una donna di trentasette anni, l’età è il suo problema».
«Ma allora, perché mi avete fatto iniziare il terzo ciclo di stimolazione ormonale?».
«Ma sa, voi donne quando vi intestardite…Di fatto, stimolazione ovarica o meno, lei ha il 3% di probabilità di rimanere incinta».
Pausa. Silenzio.
Ricordi? Il 3% delle possibilità di non farcela. Sei morto! Sono morta.
E poi subito, di nuovo, un altro colpo in pieno viso.
«Comunque, io potrei portare al 97% le probabilità di una gravidanza, anche oggi, se lo desidera, grazie alla fecondazione eterologa».
All’udire quel 97%, mi sono sentita rinascere e poi di nuovo giù, giù nel buio. Eterologa. Un ovulo da una donatrice e lo spermatozoo da mio marito. No, io non lo desidero. Non lo voglio un figlio a tutti i costi. Mi dovrei sentire in colpa? Dovrei pensare che allora il mio desiderio di maternità è debole? Niente di tutto questo. Come facevo a dirti che volevo che mio figlio mi somigliasse, che avevo il timore di non essere capace di gestire i commenti degli altri, già mi risuonavano nelle orecchie: «Somiglia tutto a tuo marito!». Come facevo a dirti che avevo il timore che non sarei riuscita a sentirlo mio, che guardandolo, avrei sempre pensato all’altra, con invidia e odio?
Ti ho soltanto guardato, e ancora in lacrime, ringraziato. Proprio in quel momento, mi hai presentato tua moglie. Nemmeno lei, nonostante fosse una donna, è riuscita a esprimermi con il suo sguardo qualcosa di più della compassione.
Sulla scrivania, in bella vista, i ritratti di una famiglia felice. Con due figli. Che vi somigliano.
Sa dottore, avrei voluto dirle che il problema di una donna come me, che a trentasette anni desidera un figlio, sono le persone come lei. Che fanno credere che tutto è possibile. Che non ci sono limiti. Che hanno sempre la soluzione, ma non ti raccontano che tutto nasce da una profonda frustrazione. E da un inconsolabile sentimento di inadeguatezza.
Sono uscita da quella stanza che mi girava la testa, non so nemmeno come abbia ritrovato l’auto. Alla guida, ricordo di aver avuto il pensiero che se fossi andata a sbattere contro il muro avrei smesso di provare tutto quel dolore. Bum! Tutto finito.
Quando ti sei laureato, ti hanno chiesto di giurare che avresti prestato, in scienza e coscienza, la tua opera, con diligenza, perizia e prudenza e secondo equità, osservando le norme deontologiche che regolano l’esercizio della medicina e quelle giuridiche. Non si parla dell’importanza di mantenere viva la speranza nel paziente. Ma lo faccio io, oggi.
Sono passati quasi due anni, caro Primario di cui non ho mai voluto sapere il nome, e voglio dirti che quel 3% ora, è qui con me. Ne sento il profumo, ne accarezzo la pelle. Lo stringo a me.
È un maschio e spero che cresca diverso da te.
Un racconto intenso, doloroso, domande difficili, scelte coraggiose, con questo racconto percepisco la sua attuale felicità, una carezza al suo 3%.
Mi è piaciuta molto l’introduzione al racconto vero e proprio, l’ho trovata molto originale; profondamente umano il profumo di rivincita che si respira alla fine.
Molto bello. E molto reale. Troppo spesso noi medici perdiamo il senso dell’umanità per diventare fredde macchine da prestazioni.
Bellissimo racconto. Grande capacità di trasmettere una miriade di sentimenti,: amarezza, dolore, frustrazione, rabbia…sentimenti che rimangono dentro, nonostante il lieto fine e il senso di rivincita, forse perche di questi illustri primari è pieno il mondo.
Molto bello, se è una storia vera, sono certo che il suo 3 percento sarà un bimbo molto amato. Introduzione molto convincente ed utile allo svolgimento della narrazione. Sì, concordo con Paola Zaldera, alcune volte noi medici perdiamo quel velo di umanità…ma non tutti, e non così spesso.
Vi ringrazio molto per aver dedicato del tempo alla lettura del mio racconto e grazie per le vostre belle parole.