Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Volavola Nabilah” di Antonio Elia

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

Se sorridi e non accigli lo sguardo sei più bella mi diceva papà quando ero triste e mi arruffava i capelli. Mi arruffava sempre i capelli quando ero accigliata e voleva farmi dimenticare la tristezza, se non ridevo mi prendeva in braccio e mi faceva volare. Quando ero più piccola, però. Volavola Nabilah, volavola, diceva. Mentre ero sospesa in aria non avevo paura di cadere, immaginavo di essere un uccello, guardavo la stanza dall’alto e mi sembrava di vedere un panorama sconfinato dove ogni oggetto: il lampadario, le sedie, il tavolo, il divano, il lavello e la cucina, la credenza e il frigorifero, le piccole stampe appese alle pareti si trasformavano in un panorama variopinto, come quello che avevo visto dall’aereo quando io e mamma siamo venute a trovare papà che non ci ha più lasciate andar via. Ero molto contenta di stare con papà e con mamma in questo paese nuovo che mi sembrava così bello e accogliente. Mi mancavano i miei cugini e i nonni, i colori della nostra piccola città, gli spazi aperti dove potevamo correre e giocare senza stancarci mai, però qui stavo bene e poi c’era papà che mi faceva volare e mi arruffava i capelli. Ancora volavola, papà, dicevo quando mi posava per terra dopo avermi recuperata prima dell’atterraggio. Ancora volavola, papà. E lui paziente mi tirava su: volavola Nabilah, volavola, e prima di posarmi per terra mi abbracciava tenendomi stretta stretta, mi faceva il solletico per farmi ridere e poi mi arruffava i capelli.

Quando ero in Africa nessuno mi arruffava i capelli o mi faceva volare. Non voglio dire che lì non stessi bene; ci stavo bene ed ero anche allegra e poi c’erano i miei cugini a cui voglio molto bene e i nonni che ci raccontavano tante storie. Qui ho meno occasioni per essere allegra perché sto molto tempo da sola, chiusa in casa, perché se esci da casa non ci sono gli spazi aperti dove correvo con i miei cugini e non ci sono neanche i cugini, ci sono le auto che vanno veloci e se non stai attenta rischi di farti investire. Non si può correre dietro il cerchione di una vecchia bicicletta per la strada intasata di automobili. Gioco da sola con le bambole o con qualche amichetta quando la mamma va a lavorare e mi porta a casa di una nostra conoscente. A casa delle compagne di scuola non ci vado quasi mai, loro non vengono mai a casa nostra neanche quando mia mamma le invita, trovano sempre qualche scusa. Io quando mi invitano sono contenta di andarci perché le mie compagne hanno tanti giochi, una stanza tutta per loro. Anch’io ho tanti giochi, ma i miei non sono belli come quelli delle mie compagne che a scuola ne portano sempre di nuovi e un po’ mi fanno invidia perché io non ce li ho e se chiedo a mia mamma o a mio papà di comprarmeli mi rispondono che me li compreranno quando diventeremo ricchi. Se lo chiedo a mio papà lui per non farmi pensare al giocattolo nuovo mi prende per la vita e cerca di farmi volare come quando ero più piccola e leggera. Volavola Nabilah, dice mentre mi solleva, però non riesce a farmi volare in alto come quando ero più piccola e leggera. Adesso però mi tiene stretta più a lungo. Adesso il suo abbraccio mi sembra più tenero, meno giocoso, più profondo, forse perché è dispiaciuto di non potermi comprare il giocattolo nuovo e vuole farsi perdonare. Io lo perdono volentieri perché il suo abbraccio mi rende felice e anche se non ho il giocattolo nuovo ho un papà che mi vuole bene e che mi abbraccia in quel modo tenero che solo lui conosce. E poi mi arruffa i capelli che è un gesto che mi piace sempre tanto e non m’importa se me li scompiglia. Anche perché i miei capelli sono crespi e non si scompigliano quando me li arruffa. Anche mia mamma mi abbraccia e mi fa le coccole quando è seduta sul divano o sulla sedia, il suo però è un abbraccio diverso da quello di papà, è un abbraccio protettivo che in fondo mi dà un po’ di tristezza. Io non le dico che il suo abbraccio mi mette tristezza, ma è proprio così perché mi fa pensare alle cose brutte che i miei compagni di scuola ripetono come una cantilena. Non tutti, ce ne sono anche di bravi che mi vogliono bene e giocano con me e mi aiutano quando facciamo le attività in classe. Io cerco di stare sempre con loro per evitare che gli altri, quelli cattivi, mi prendano in giro perché sono nera. Non le dico neanche che i miei compagni cattivi mi prendono in giro e mi fanno la cantilena perché sono nera. Se glielo dicessi il suo abbraccio diventerebbe ancora più triste e non so se riuscirei a sopportarlo e magari le direi di non abbracciarmi così stretta e lei, ne sono sicura, ci resterebbe male e si metterebbe a piangere come fa qualche volta che mi fa arrabbiare e mi abbraccia per farsi perdonare.

Mi abbracciò forte forte in quel modo triste che ho detto prima il giorno in cui mi disse di papà, che papà era in ospedale. Di quella giornata non ci avevo capito niente. Quando al mattino mi sono svegliata non c’era la mamma vicino al letto e neanche papà. C’era l’amica di mamma che veniva a tenermi compagnia quando lei era impegnata.

Oggi non c’è scuola, resti a casa con me fino a quando non torna tua madre, disse come se fosse una bella notizia.

Io avrei preferito andare a scuola ma non feci domande, non ero abituata a fare domande agli estranei, anche se erano amici di mamma e papà, perché mio nonno mi aveva insegnato a non fare domande.

Se i grandi vogliono dirti qualcosa te lo dicono anche se non glielo chiedi. Se non ti dicono niente è solo perché credono che sia meglio evitarlo, per non farti soffrire o per non metterti paura.

Ai miei genitori facevo tutte le domande che mi passavano per la testa, ma se loro mi dicevano di non potermi rispondere pensavo alla raccomandazione di mio nonno e me ne stavo tranquilla.

Restai in casa tutto il giorno. Mamma tornò all’ora di cena. Mi disse che papà era in ospedale perché era caduto e si era ferito a una gamba e fu proprio dopo quelle parole, pronunciate quando siamo rimaste sole, che mi abbracciò stretta stretta per nascondere la sua tristezza e il suo pianto. Da quell’abbraccio compresi che non mi aveva detto la verità. L’abbracciai forte forte anch’io, non le dissi come le altre volte: Mamma lasciami andare che mi stai soffocando. Piansi anch’io e le dissi con rabbia: Mamma dimmi la verità.

La mia intuizione era corretta. Avevo immediatamente pensato a quell’uomo che aveva minacciato papà perché voleva che ci trasferissimo in un altro quartiere. Papà non voleva trasferirsi in un altro quartiere, aveva il suo lavoro a due passi da casa e qui stava bene, conosceva tante persone, c’erano tanti neri come noi. Mamma sarebbe stata disposta a cambiare casa. Lei voleva andare in una casa più grande e più comoda, ma papà diceva che dalle altre parti gli affitti delle case erano più alti e noi non potevamo permettercelo. Qualche volta hanno anche litigato per questo e quando litigavano papà si alzava e usciva di casa. Mamma non diceva niente, però si metteva a piangere e se io la guardavo faceva finta di mettere a posto qualcosa. Io mi accorgevo che piangeva perché tirava su col naso e si asciugava le lacrime sulla manica o sul grembiule e allora me ne stavo zitta zitta facendo anch’io finta di fare qualcosa. Forse mamma piangeva perché pensava che papà non sarebbe tornato a casa ed era preoccupata per questo. Senza papà e senza i nonni che erano tanto lontani come avremmo fatto a tirare avanti. Forse pensava a questo. Poi papà ritornava e mamma era contenta, non ricordava più di aver pianto. A me quando mamma piangeva perché papà era uscito di casa dopo un litigio veniva voglia di consolarla ricordandole che lui faceva sempre così, che dopo un po’ sarebbe ritornato, che non era il caso di piangere. Però non le dicevo niente perché ricordavo un altro insegnamento di mio nonno che ci ha insegnato tante cose a me e ai miei cuginetti. Mio nonno diceva che quando una donna piange bisogna lasciarla sfogare senza interromperla, se non si sfogasse il pianto trattenuto si sarebbe trasformato in veleno e l’avrebbe uccisa.

Io non piangerò mai quando sarà grande, farò come te che non ti ho mai visto piangere, gli dissi una volta.

Mio nonno rispose che piangono anche gli uomini, solo che piangono senza lacrime e per non essere avvelenati dalle lacrime trattenute fumano il tabacco o qualche altra sostanza o bevono fino a ubriacarsi perché l’alcol e il fumo neutralizzano il veleno.

Io credevo alle parole del nonno perché lui era un vecchio saggio che sapeva tante cose, e poi avevo constatato che papà si accendeva sempre una sigaretta quando usciva di casa dopo aver litigato con mamma.

Quando mamma confermò quello che avevo intuito non piansi. Avrei voluto fumare una sigaretta e andare per strada come faceva papà per sfogare la sua tristezza. Ero triste. Tanto più triste di prima perché a quella causata dall’aggressione a papà si aggiungeva una consapevolezza nuova che mi angosciava. Prima di allora avevo creduto che il mio papà fosse invincibile, che avrebbe protetto me e la mamma dalle cattiverie dei compagni di scuola e dell’altra gente che ci guardava di storto quando andavamo in giro e che qualche volta ci insultava dicendoci di tornarcene in Africa. Dopo quella notizia non riuscii più a pensare che papà fosse invincibile e ci avrebbe protette, desiderai di essere in Africa con papà e mamma, con i nonni e con i miei cuginetti per correre insieme a loro nelle grandi distese dove mi sarei divertita correndo a perdifiato dietro il cerchione di una vecchia bicicletta, affrancata dalla paura di essere investita dalle automobili, per ascoltare i saggi consigli di mio nonno e le lunghe storie che ci raccontava seduti all’ombra di un albero frondoso.

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2 commenti »

  1. Molto, molto bello. Complimenti.

  2. Grazie. Leggerò il tuo racconto e ti darò volentieri un rimando.

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