Racconti nella Rete 2009 “Storia di Nina” di Marisa Fasanella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009La sua faccia non me la scordo. Ce l’ho sempre davanti agli occhi. Persino quando dormo. Quando scendo le scale e batto i piedi e stringo tra le dita la borsetta di mia madre; quando mi lavo la faccia e ho paura di specchiarmi. Lui è lì: col cappello in mano, con gli occhi lucidi del troppo vino e una smorfia sulla bocca. Non posso fare a meno di urlare. Grido col cuore a mille e mi copro la faccia, perché i morti, se non li guardi, non possono farti nulla. Era sempre rimasto in fondo alle scale, ad azzannare con lo sguardo sottane che ballavano sulla loggia e si aprivano sulle gambe. Mia madre, scendendo, rideva. “Prima o poi, gli cadranno gli occhi” diceva. Noi due parlavamo sempre qui, sul ballatoio, sedute una di fronte all’altra. Anche quando faceva freddo, uscivamo sulla loggia. Per sentirci meno sole. Il vicolo è un braccio, ti gira attorno e ti scalda, e se lo dice tua madre, ti fidi. Si fidava così tanto da non chiudere mai la porta di casa. Guarderà il mondo attraverso le sbarre di una prigione, per questo. Per non aver segnato una linea più scura sull’uscio, il confine tra il dentro e il fuori, la casa e la loggia, il letto e le scale. Lei ride ancora, mia madre ride sempre, anche adesso che non ha più la loggia, e come me deve battere i piedi per simulare il passo sulle scale; per non perdere i suoni della piazza dove si smarriva per ore. Il carcere si mangia il presente e tutto quello che resta è il ricordo. Il carcere è un vicolo più corto, e i respiri volano da una cella all’altra, ma si è estranei, non c’è vita nel carcere, solo attesa. Da quando lui ha attraversato la loggia e si è fermato sulla porta della mia stanza, neanche il vicolo è più lo stesso. Mi ha minacciata col bastone e si è infilato nel mio letto. Ero così spaventata che non ho detto una parola. La lingua congelata e le mani e i piedi freddi come il marmo. Ho cercato con gli occhi mia madre, ma la casa era vuota. Mi ha sorpresa nel sonno, ho aperto gli occhi e l’ho visto nel vano della porta. Aveva il sole alle spalle e gli occhi iniettati di sangue, quando mi è saltato addosso. Dopo, nulla è stato più come prima. Quando sedevamo su queste scale, io e mia madre, ridevamo sempre, ci sentivamo libere, l’aria del vicolo prendeva su di sé parte del nostro dolore e lo disperdeva. Donne sole dalla nascita, gli uomini ci hanno lasciate prima ancora di conoscerci. Nessuno di noi ha mai potuto dimenticarlo. Zia Nerina la scrivana, dall’alto del suo balcone, poteva contare persino i cucchiai sulla tavola apparecchiata della casa di fronte, non ci sono segreti nel vicolo. Ha guardato nella mia stanza e ha visto l’uomo su di me, e il mio sangue sui lenzuoli, e ha urlato così tanto che l’hanno sentita dalla piazza. Il suo grido mi ha sciolto le mani. Ho raccolto tutta la forza nelle braccia e l’ho colpito col bastone. A tradimento, l’ho ucciso, senza una parola. Quando a bocca aperta sul mio petto, riprendeva fiato. Non gli ho dato il tempo di difendersi, e il suo respiro è diventato un rantolo. Era più pesante da morto che da vivo, e per cacciarmelo da sopra il cuore mi sono slogata l’osso della spalla. Mia madre è arrivata in un lampo, richiamata dalle urla di zia Nerina, ma era già troppo tardi. Ci siamo guardate, e quando abbiamo sentito il lamento della sirena, lei mi ha spinta di nuovo sul letto, poi si è sporcata le mani di sangue e ha detto: “Sono stata io, marescià, portatemi via.” E nessuno ha fiatato. Quel giorno, con il sole che sbatteva sulle pietre e si infrangeva sui vetri delle finestre, con i rintocchi dell’orologio negli orecchi, si ammutarono gli animi. Nei vicoli non c’è mai silenzio, neanche la notte. Nel vicolo persino i sogni sono rumorosi, e al mattino se li raccontano da una finestra all’altra, dal basso verso l’alto, ma non si trovò una parola neanche nei sottoscala, e i bambini fermarono i loro giochi. Il peso di quell’uomo continuo a portarmelo addosso, e l’osso della spalla, anche dopo che l’hanno rimesso a posto, è rimasto più sporgente. Se allungo la mano, lo sento. Il nodo di una radice non più grande di un’arancia sotto le dita. Il mio corpo si è piegato, cede al peso dell’uomo che non se n’è mai andato completamente. Cammino sbilenca, piegata dal lato sinistro. E’ la spalla che pesa, è la sua mano, è il dolore dell’osso, è quel che rimane di me, di noi. Quando non posso farne a meno, scendo le scale e attraverso la strada rossa di vergogna, a testa bassa, conto le pietre, mi guardo la punta delle scarpe, e non rispondo a nessuno. Passa la sgorbia, dicono. Allora batto i piedi, li batto così forte che finisco col farmi male. Se devono vedermi, che mi vedano tutti. Risalgo le scale, faccio rumore, arrivo fino all’ultimo gradino e torno indietro. Svegliatevi, non c’è sonno nella casa della rossa, non si dorme, stanotte nel vicolo.
Non mi specchio più, indosso solo vestiti larghi e arricciati sulle spalle. Ho lasciato anche la scuola, e le ragazze fingono di non conoscermi. Il vicolo è così, cambia pelle come i serpenti. Quelli che il giorno prima erano venuti ad asciugarmi le lacrime, il giorno dopo piangevano dietro il feretro. Le azioni degli uomini finiscono col diventare le colpe delle donne. Una gonna più lunga rende mansueto persino un lupo, aveva detto il prete nel sermone, e le perpetue si erano sciacquate la bocca. Faccio ancora dei sogni, tra la loggia e la casa, nella poltrona di mia madre, sogno di come ero prima, e non vorrei svegliarmi. Ma non c’è silenzio nel vicolo, il vicolo non aspetta. E’un budello, è un braccio, è un occhio solo. Trascino anche la gamba, e sento che anche il cuore pende e batte in quella sola arteria, e che tutto il resto del corpo non conta più nulla. Piango, rannicchiata tra le lenzuola, con la bocca schiacciata sul cuscino per non farmi sentire. E poi esco sulla loggia e lo vedo nel vano della porta come quel giorno, e sento il dolore della carne e quello dell’osso, e l’odore del sangue. Scorre ancora tra le gambe.
“Fuggi, Ninè, che se sei diversa, il vicolo può ucciderti.” Zia Nerina la scrivana ha continuato a mandarmi miele e fichi per addolcirmi la bocca. Anche dopo che gli altri mi hanno lasciata sola, ha continuato a vegliare sul mio sonno spezzettato, rotto dai singhiozzi, e ha aspettato l’alba con me sul ballatoio, quando i sogni sono diventati più crudeli della stessa vita, e le scale il mio solo passaporto per il mondo. Le donne della mia famiglia hanno finito col somigliarsi tutte, stesso colore di capelli e stesso taglio, hanno figliato dove si trovavano senza il conforto di un uomo accanto, e io non voglio finire come le altre. Voglio salire più su, affacciarmi dalla balconata di zia Nerina, da dove è possibile guardare il Pollino e persino il mare, oltre la piana lanosa. Questo ballatoio è troppo basso. Da questa loggia non vedo che case, e porte aperte, e finestre spalancate. Fili tesi e mutande e lenzuola dove il vento si rifugia. E quando quelle porte si chiudono, e i respiri del vicolo si acquietano, la mia solitudine cresce. E ho paura, la casa della rossa è ancora aperta e qualcun altro potrebbe venire su. Sulla loggia non c’è più aria, non riesco a respirare neanche a mezzanotte, mi si spezza il fiato. Le compagne di scuola hanno finito col dimenticarmi, la diversità è peggio di una malattia. Non abbiamo più nulla da spartire, eravamo diverse anche prima, loro avevano le macchine e io solo le gambe, loro i colori e io una sola una matita, loro i vestiti alla moda e io la gonna rossa di mia madre. Me l’aveva regalata il giorno del mio sedicesimo compleanno. “Sei una donna, ormai.” E aveva riso come al solito, ma con una luce diversa nello sguardo. Il mattino dopo, a scuola, mi avevano guardata tutti. Ma era durato solo un giorno. Zia Nerina, quando me l’aveva vista addosso, me l’aveva strappata. “Ninè, il destino lo puoi cambiare.” Nessuno mi aveva guardata più. Mia madre se l’era ripresa la sua gonna, a brandelli, e l’aveva seppellita nel cassettone, dove conservava i cimeli dei suoi amori perduti. Non lo voglio il destino di mia madre. “Ridi, mamma, la nostra casa non esiste più, ho chiuso la porta e ho buttato le chiavi. E voi, giù, nel vicolo, svegliatevi, la rossa non abita più qua.
Ho indossato il bustino con le stecche rigide come compassi che mi hanno dato in ospedale per raddrizzarmi le ossa, e zia Nerina me lo ha stretto addosso fino a quando non sono diventata dritta come un palo. L’ha stretto con tutta la rabbia nei polsi, e non si è lasciata commuovere dalle mie lacrime. “Il dolore delle ossa passa, Ninè, la muffa resta, si annida negli angoli e neanche il sole di agosto l’asciuga.” Strano, non sento più il peso dell’uomo sul cuore. Vado di nuovo giù, scendo le scale di corsa senza piegarmi e poi risalgo. Mi affaccio e guardo il cielo: ci sono milioni di stelle sulla mia testa, e il vicolo dorme. I sogni del vicolo sono rumorosi ma non hanno occhi. I miei piedi non fanno più rumore, loro non li sentono più, non sentono neanche i rintocchi dell’orologio della torre: cento colpi a mezzogiorno e cento colpi a mezzanotte. L’hanno costruita i briganti in una sola notte. Mi porto via la borsetta di mia madre, e un’ampolla di miele purissimo che servirà ad addolcirmi il cuore. L’ha mandata giù dal balcone zia Nerina col paniere stamattina. Trascino la valigia, mi fermo, mi volto indietro e guardo la loggia. “Ridi, mamma, ridi.” La guardo per l’ultima volta, non tornerò indietro. Scendo di nuovo le scale. Ho un paio di scarpe nuove, e un altro paio dentro la valigia. Le salite sono ripide, e un solo paio non basta. “Canta, Ninè, canta, che le civette, se non possono farti paura, scappano”.
Due donne e un incontro protagonisti di Storia di Nina e Pomeriggi d’autunno di Marisa Fasanella. L’incontro è non solo tema molto vitale dell’intreccio della letteratura di ogni tempo, ma anche artificio della trama, contenuto e forma, come ha ben dimostrato di recente R. Luperini, in L’incontro e il caso, Laterza 2007. Nella racconto, più che nel romanzo, coincide spesso con la trama stessa e ha soprattutto la funzione di rivelare in un istante la verità di un’esistenza o la piega che questa prende. A legare i racconti è non solo il fatto che protagoniste sono due donne (universo che la Fasanella ha indagato in molta sua narrativa, ma soprattutto nella fortunata raccolta di racconti Gineceo), ma anche un colore, il rosso. Ogni colore ha, nell’immaginario collettivo, un significato: il rosso, simbolo del sangue, della fiamma, rinvia al desiderio in tutte le sue forme: se la gonna rossa di Nina è suo potenziale abitacolo di perdizione, la cinquecento «di color rosso fiammante» della protagonista di Pomeriggi d’autunno è il vestito di una donna che va incontro al suo amante. Se quella di Nina è la storia di un riscatto, quella della protagonista di Pomeriggi d’autunno di un riscatto mancato, cosa segnalata dalla presenza del vento: Nina evade dalla realtà claustrofobia di un vicolo il cui orizzonte sono «case», «porte aperte», «finestre spalancate», «fili tesi e mutande e lenzuola dove il vento si rifugia», dove dunque anche il vento trova un freno, per riprendere il suo cammino su una strada forse fatta solo di salite, ma sgombra di ostacoli meschini; la donna di Pomeriggi d’autunno, che invece percorre una strada dove il vento non trova intralci al suo impeto («il vento soffia più forte, non ci sono più case e strade ad arginarlo e gli alberi si piegano, la polvere si solleva dalla terra e si disperde nell’aria ha il colore delle barbabietole»), la abbandona per ritornare al vicolo di Nina.
In Storia di Nina la protagonista racconta, in un monologo interiore, la storia di una violenza e di una sopravvivenza. «La sua faccia non me la scordo», in posizione incipitaria, rende subito il dramma, non raccontato nei dettagli, ma reso nella lacerazione che ha prodotto. Nina prende posizione non tanto contro l’uomo che l’ha violentata, quanto contro chi (gli abitanti del vicolo e la madre) avrebbe voluto condannarla a vivere in un universo popolato di donne sole e da usare, come sono state quelle della sua famiglia, che «hanno finito col somigliarsi tutte, stesso colore di capelli e stesso taglio, hanno figliato dove si trovavano senza il conforto di un uomo accanto»; donne «sole dalla nascita» sono lei e la madre, perché «gli uomini ci hanno lasciate prima ancora di conoscerci». Il solo a entrare in questa casa vuota e silenziosa è il vicolo, che è deuteragonista del racconto: il vicolo «è un braccio, ti gira intorno e ti scalda», si possono persino sentire «i cucchiai sulla tavola apparecchiata della casa di fronte» perché «non ci sono segreti nel vicolo»; «non c’è mai silenzio, neanche la notte. Nel vicolo persino i sogni sono numerosi, e al mattino se li raccontano da una finestra all’altra, dal basso verso l’alto». E il vicolo è anche capace, racconta Nina, di prendere «su di sé parte del nostro dolore» e disperderlo. Le scale si interpongono tra lo spazio privato (il ballatoio) e quello pubblico (il vicolo): attraverso esse si sale a casa e si scende nel vicolo e sotto esse si è appostato l’uomo che un giorno ha salito quelle scale.
La Fasanella ci fa seguire il trauma della protagonista che si è difesa uccidendo l’uomo che l’ha violentata, slogandosi l’osso della spalla. Rappresenta simbolicamente questo dramma con la perdita della posizione eretta: Nina diventa sbilenca dato che la spalla trascina con sé la gamba e il cuore. Perdendo il punto di appoggio del cammino, non è più la stessa (non riesce più a guardarsi allo specchio). Anche il vicolo non vuole più riconoscerla: diventa la «sgorbia» per la gente e finisce col lasciare la scuola perché le sue compagne fingono di non conoscerla: «Quelli che il giorno prima erano venuti ad asciugarmi le lacrime, il giorno dopo piangevano dietro il feretro. Le azioni degli uomini finiscono col diventare le colpe delle donne». Il vicolo ha ripreso la sua vita, e Nina, diversa dalla donne della sua famiglia, scopre che il ballatoio è troppo basso per lei e in questa presa di posizione contro il destino che la madre avrebbe voluto farle accettare, regalandole a sedici anni una gonna rossa, un ruolo centrale è giocato da un nume tutelare, la zia Nerina, che vive simbolicamente più sopra dell’orizzonte del vicolo e riesce a vedere il Pollino e il mare: è la zia che veglia su di lei, assistendola nel dolore e incitandola a fuggire perché il destino si può cambiare. Nina, come Lisa, la protagonista di Maschere e lenzuola del Vicolo Santacroce, breve romanzo con cui l’autrice ha esordito nel 1994, afferma la sua estraneità al vicolo che si svela drammaticamente nella sua pochezza e cinismo.
In Pomeriggi d’autunno a raccontare è lo sguardo di una telecamera che sembra essersi improvvisamente incuriosita di una donna che vede per strada: non sa niente di lei né riesce a cogliere tutto ciò che fa, e ce la restituisce con le ombre, le lacune e le smagliature del suo ristretto campo d’osservazione. La donna avanza come sonnambula di una vicenda che si sottrae al resoconto preciso di una trama e la telecamera ci fa seguire i suoi passi mentre, distratta, in macchina, si avvia verso la casa del suo amante. I due si amano in una stanza spoglia di arredi, dove si accampa un letto, le pareti piene di libri e un grammofono. Quel grammofono e quei libri riportano all’essenza dell’uomo: «Lo ha incontrato in una di quelle librerie del centro dove è ancora possibile trovare vecchie edizioni di libri e cimeli di ogni genere. Vi si era rifugiata in un pomeriggio di pioggia. Lui intratteneva i clienti con dei vecchi dischi che faceva palpitare su un grammofono ormai desueto, quando lei si era affacciata nella stanza». I loro sguardi si erano incontrati e da allora si erano visti tutti i martedì pomeriggio. Il nodo del racconto è tutto qui, in questo essersi incontrati in un «mondo di oggetti che si risvegliano, che si animano e si raccontano», che «hanno una loro memoria che non è affidata alla parole».
Il rapporto tra uomo e cose occupa in letteratura un posto molto imponente e F. Orlando, ne Gli oggetti desueti nelle immagini della letteratura, Einaudi 1993, ha mostrato la straordinaria fortuna letteraria delle cose inutili, invecchiate o insolite, prive di funzionalità. La letteratura è sede di un ritorno del represso, fa suo tutto quanto incontra diffidenza, ripugnanza, rifiuto o condanna, tutto ciò che è antifunzionale (la letteratura è, nella definizione di Orlando, ritorno del represso antifunzionale). L’uomo protagonista del racconto è dedito al recupero dell’antifunzionale: acquista i dischi «dai rigattieri, altri glieli regalano, fa il giro delle radio e li chiede a chiunque dice di possederne e che li ritiene oggetti ormai inutili»; possiede non solo un grammofono, ma anche «vecchie edizioni di libri e cimeli di ogni genere». Questi oggetti, con tutta la carica che hanno di venerando-regressivo, costituiscono non solo la merce della sua libreria, ma anche l’arredo della sua casa (dalla libreria si accede alla casa attraverso scale di legno), che non è un «vuoto parcheggio dove tornare la sera»: «Lui ha bisogno dei suoi dischi, di alzarsi la notte e trovarli, di poterli toccare ogni volta che ne sente la necessità». La protagonista, invece, vive, alienata da sé, nel mondo del funzionale col suo bagaglio pesante di madre-moglie: distratta cammina per strada, guida con gesti automatici, si trucca senza guardarsi, l’abitacolo della sua macchina è pieno di «tante cose inutili: articoli di giornale, bicchieri e bottiglie vuote sui sedili; involucri di carta che si muovono e che lei guarda a disagio».
Quando si incontrano, fra i due non c’è dialogo: il mondo delle parole e degli oggetti della vita funzionale sembra appartenere a un ordine diverso rispetto a quello dell’autenticità, delle emozioni. Il corpo, la fisicità elementare, gli oggetti desueti, non-funzionali, si oppongono al mondo funzionale della protagonista, quello della moglie-madre, quello in cui si dipende da un telefono, (che l’amante, infatti, non possiede). All’amante, che vive lontano dalla civiltà (la strada che porta alla sua casa è immersa in campi, alberi, è priva di segnaletica) la donna riserva una comunione intima e profonda, al marito la superficie del suo essere: quando si mette in macchina per raggiungere l’uomo avverte una distonia rispetto agli oggetti e alle persone che la vogliono madre e moglie; la vita che ha costruito secondo una logica e un progetto consapevole ha perduto il filo che la reggeva perché è come improvvisamente emersa la voce prepotente del corpo. La crisi d’identità si accompagna alla coscienza dell’autonomia del corpo, alla percezione della sua irriducibilità ai meccanismi funzionali della civiltà. Corpo e oggetti desueti diventano dunque complici e insidiano la sicurezza del funzionale, producendo lo smarrimento d’identità della protagonista che improvvisamente assiste, come Nina, alla frantumazione di un mondo in cui ha sempre vissuto. Nel racconto sono dunque messe in scena le antinomie oggetti desueti vs oggetti funzionali, dischi vs telefono, corpo vs parole, fedeltà vs tradimento. Quello che la scrittrice ci racconta è però un addio, un ultimo incontro: l’amante, che improvvisamente sente il peso della vita di madre-moglie di lei, non lo tollera: fa una valigia, che riempie di dischi, e va via, lasciando che la donna torni nel vicolo da cui ha tentato la fuga.
La mano della scrittrice è posseduta da personaggi che non conosce bene, da cui si lascia condurre per vicoli e vie, case e automobili. Un fascino ambiguo si fa protagonista di questo narrare senza trama precisa e epiloghi, perché nella scrittura della Fasanella rivelare troppo non è buona cosa. Più che scavare in profondità nei drammi umani e negli struggimenti delle sue creature artistiche, con una prosa sonnambula, molto elaborata e poetica, che coinvolge come in una spirale, la scrittrice ci restituisce immagini, oggetti e ambienti dello sfondo.
Monica Lanzillotta
Racconto splendido. Le faccio i miei complimenti. Quello che più mi è piaciuto e la capacità, fra le altre cose, di rappresentare il cambiamento della percezione dei luoghi che da familiari diventano estranei. Mi spiego meglio, la ragazza è violentata, il “vicolo” che prima era un braccio che ti avvolge si trasforma in un serpente.
Dunque questa capacità di sottolineare il cambiamento interiore e di percezione diversa dell’altro e del “fuori” l’ho trovata interesantissima.A presto e buone letture
Complimenti! bravissima!
In bocca al lupo per il concorso!
realistico. complimenti!