Racconti nella Rete 2009 “Pomeriggi d’autunno” di Marisa Fasanella
Categoria: Premio Racconti nella Rete 2009La donna cammina sul ciglio della strada, indossa un golf di lana su una gonna lunga che le lascia scoperte le caviglie. Cammina con gli occhi bassi in punta di piedi, ha una figura sottile, quasi trasparente nel riverbero del tramonto battuto dal vento. E’ bella.
E’ un pomeriggio d’autunno, le foglie si arricciolano e rotolano lungo il viale, si raccolgono nei piccoli canali dove sgocciola la pioggia dei giorni precedenti. Attraversa senza guardare, una macchina lascia il segno di una frenata sull’asfalto, ma lei non si accorge di nulla. Sale su una cinquecento di colore rosso fiammante e si allunga sul sedile. Chiude gli occhi, poi li riapre. C’è troppa luce, e cerca un paio di occhiali scuri nel cruscotto. Nell’abitacolo ci sono tante cose inutili: articoli di giornali, bicchieri e bottiglie vuote sui sedili; involucri di carta che si muovono e che lei guarda a disagio. Mette in moto e accelera. Si volta indietro per vedere se qualcuno la segue ma non c’è nessuno: le case sono vuote, parcheggi dove tornare la sera. Fuori del centro abitato, si ferma, raccoglie tutto il disordine della vettura in una busta di plastica che chiude nel bagagliaio. Ritorna nell’abitacolo, versa sul sedile il contenuto di una borsa più piccola: matite, polveri, pennelli, e si trucca senza guardarsi, a memoria, con una sola mano, guidando. Segue il contorno degli occhi e della bocca, si spalma una polvere rosa sulle guance, un velo di rossetto; si spruzza due gocce di profumo dietro le orecchie e guarda l’orologio. Procede lentamente, il vento soffia più forte, non ci sono più case e strade ad arginarlo e gli alberi si piegano, la polvere che si solleva dalla terra e si disperde nell’aria ha il colore delle barbabietole. Il suo viso si adombra, come per un pensiero improvviso, un timore che le fa rafforzare la presa delle mani sullo sterzo. Il suono del cellulare la distoglie. Con una mano lo cerca nella borsa e con l’altra tiene fermo il volante. Toglie gli occhiali e guarda sul display, poi spegne il telefono senza rispondere. Il bambino piange. L’uomo che l’aspetta non conosce il pianto dei bambini, non vuole sapere. La donna pigia il piede sull’acceleratore, si concentra sul viaggio, diventa sempre più difficile guidare, non ci sono segnali, solo alberi, campi, terra che sconfina, terra rossa che sbatte contro il parabrezza e che le lega lo sguardo. La città se la trova di fronte, dietro una curva. C’è ancora il vento, ma adesso tutto è più chiaro, conosce la strada a memoria, può percorrerla con gli occhi chiusi. Parcheggia sempre di fronte all’edicola, compra ogni martedì un giornale già vecchio di un giorno e annota qualcosa a margine dell’inchiostro, usa una penna a fera con la punta sottile, e lascia il quotidiano sul sedile. Non saprei dirvi cosa ha segnato, forse il numero civico della libreria di fronte, forse il nome di lui. L’uomo la vede arrivare da dietro i vetri della finestra, non le va incontro, aspetta che bussi per aprirle. Sulla porta, spogliati, le dice. La guarda, guarda le sue mani nude, la curva delle spalle, la lunghezza delle gambe, la pelle che affiora da sotto i vestiti. La segue sulla scala che porta al piano di sopra, percorrono chilometri di corridoi e di stanze; sono nudi entrambi, camminano l’una davanti all’altro senza toccarsi. Entrano in una stanza dove il camino è acceso e le finestre si affacciano su un giardino che degrada dolcemente nella vallata. Si sente scorrere il fiume. Non ci sono mobili, solo un letto, un divano bianco, e le pareti sono rivestite con grandi librerie di noce chiaro. L’uomo spinge l’ago del grammofono su un disco, poi si lascia cadere a peso morto sul letto e la musica copre gli stridori del vento e il frastuono del fiume, i loro silenzi. I posacenere traboccano di cicche e di cenere, lui è nervoso e fuma una sigaretta dietro l’altra, si passa le dita nei capelli. La donna si chiude la porta alle spalle. Posso restare, dice, tutto il tempo che vorrai. Si allunga su di lui. Restano così, a lungo, a guardare fuori della finestra i cespugli degli alberi, le colline che dolcemente si sformano, si svolgono nella pianura, e più in là, dove l’occhio si ferma, la forma dell’acqua. Una materia brumosa e inconsistente che potrebbe essere il mare.
Lo ha incontrato in una di quelle librerie del centro dove è ancora possibile trovare vecchie edizioni di libri e cimeli di ogni genere. Vi si era rifugiata in un pomeriggio di pioggia. Lui intratteneva i clienti con dei vecchi dischi che faceva palpitare su un grammofono ormai desueto, quando lei si era affacciata nella stanza. L’aveva guardata. Entrambi avevano cercato il conforto di uno sguardo. La donna aveva gocciolato nell’angolo, fino a quando lui non era venuto a offrirle un asciugamano. Si era massaggiata la testa, poi si era seduta su un divano e aveva sorseggiato un cognac, posseduta dalla musica. Si erano ritrovati soli. Una spettatrice così attenta, merita qualcosa, le aveva detto. E lei aveva scelto la voce della Callas, un brano tratto dall’Andrea Chènier, il suo preferito. Era nata così la loro storia. Lei non aveva più potuto fare a meno di tornare, e lui di aspettarla. Tutti i martedì pomeriggio, la libreria era chiusa al pubblico.
Lui è un uomo solo, che fa parlare i silenzi, che non vuole sapere. Lei invece è fragile nella sua normalità di casalinga di madre e di moglie. Imparano ad amarsi in questo mondo di oggetti che si risvegliano, che si animano e raccontano. I dischi hanno una loro memoria che non è affidata alle parole, le dice, è una memoria di segni, d’impronte, senti …e le accompagna la mano. Li acquista dai rigattieri, altri glieli regalano, fa il giro delle radio e li chiede a chiunque dice di possederne e che li ritiene oggetti ormai inutili. Li lucida fino a renderli nuovi, poi li ordina con pazienza e conosce il posto di ognuno di loro. Toccandoli, lui sa. Toccandola, lui sa. Sente le sue cicatrici sotto i polpastrelli delle dita, la gioia e il dolore dei loro incontri. Toccandola, può liberare la sua anima. Lei lo chiede.
La libreria del centro è anche la sua casa, vi si accede attraverso scale strette di legno. Lui ha bisogno dei suoi dischi, di alzarsi la notte e trovarli, di poterli toccare ogni volta che ne sente la necessità. Gli basta. Fino a quando lei non è venuta a offrirgli la sua pelle di latte, il suo abbraccio caldo, lui non ha chiesto altro.
Ha i capelli bianchi, che cominciano a sfoltirsi sulla fronte, due solchi intorno alla bocca, due spiagge sotto gli occhi. Le sue mani sono grandi, forti, ma tremano, quando lei non c’è, quando una sola ora di ritardo diventa lunga come un giorno; un cuore che preme nelle costole e che gli taglia il fiato, quando lei si affaccia dietro i vetri della libreria e chiede l’unguento: che glielo spalmi lunga la schiena, sulle natiche, nelle cosce. Ha i segni della sua vita precedente sul viso, sul corpo, ma non ama parlarne. Lei possiede una casa parcheggiata sulla collina dove tornare, qualcuno che l’aspetta, e crede che possa bastarle. Aspettano il martedì pomeriggio. Nessuno dei due dice che si rivedranno ancora, ogni volta si salutano come se non dovessero più rivedersi, ma…lei torna sempre, e lui si fa trovare. Non si sono scambiati neanche il numero del telefono. Lui non avrebbe potuto cercarla se avesse avuto bisogno di lei, e lei neanche, non ha mai sentito squillare il telefono nella libreria, molto probabilmente non c’è. Un martedì dopo l’altro. Lei arriva sempre trafelata, con il tempo che le scorre nelle vene, e non aspetta. Lui la copre con il suo corpo, l’avvoltola nelle braccia, e oggi la sente piangere. Piange per il bambino che si sveglia tutti i pomeriggi alle sei e vuole che lo ninni ancora un po’ e poi finisce col dimenticarla; per la cena che dovrà preparare all’ultimo minuto, per la casa costruita sulla sabbia, che vede sgretolarsi ogni giorno e che non può fermare. Piange per le parole che lui non vuol sentire, per quel peso sull’anima di cui non sa liberarsi. Lui asciuga le sue lacrime con la punta della lingua, la penetra lentamente, con gli occhi aperti. Dice che forse andrà via per un po’, che non potranno vedersi. Sarà un lungo inverno, le risponde, rivoltandosi sull’altra metà del letto e guardando fuori della finestra, senti…sono già gelato. La donna lo abbraccia con le gambe e guarda anche lei fuori della finestra il vento e quella massa d’acqua imperscrutabile, che forse è il mare. Dal lato opposto, dopo chilometri di stanze e corridoi, c’è la strada, la sua macchina parcheggiata vicino al chiosco dei giornali, i negozi; ci sono le voci, l’andare e venire dei passanti, il tempo implacabile che non concede soste. Guarda l’orologio e la sua mano è già sui vestiti. Si riveste nel letto, sotto le coperte. Lui la guarda, mentre si riveste, la scopre, segue con lo sguardo i movimenti delle mani, la pelle che scompare sotto la stoffa e che non parla già di lui. Quella stessa pelle che ha spogliato, ora si riveste. Pensa che se un giorno deciderà di non tornare, non saprà dove trovarla. E’ un pensiero ricorrente che lo fa stare male, che neanche la musica può guarire. La voce della Callas si è fermata, il disco continua a girare muto sul piatto del grammofono. La vede andare verso la porta e la ferma. Smetterà di aspettarla. Le chiede di non tornare. Va verso di lui, gli conficca le unghie nel petto. Non lo dire, non lo dire più. Lui ha uno scatto d’ira improvviso, le afferra le mani e la scuote, la testa di lei va avanti e indietro, poi ciondola sul petto. La riporta tra le lenzuola, nella fossa ancora calda dell’amplesso appena consumato. Il bambino piange, gli dice, devo andare. Neanche lei avrebbe dovuto dirlo, ora lui non può fare a meno di sapere. Vede il suo bambino, il perimetro della sua casa, la vede mentre si occupa dell’altro, sente le loro voci. Sente il corpo di lei che si muove, le sue gambe allungarsi nell’altra metà del letto. Ascolta il rantolo del suo respiro. Assapora il calore di quel corpo che si raffredda e guarda fuori della finestra il confine brumoso dove lei ha detto che forse c’è il mare. Il mare sconosciuto, il mare…
Prende dall’armadio una valigia di cuoio e la riempie di dischi, ci chiude dentro una giacca a vento, un paio di jeans, un maglione pesante. Il resto non conta.
Davvero molto bello. Leggevo e vedevo I luoghi che immaginavi, i colori cosi ben dipinti.
Mi ha commosso.
Spero che quella 500 rossa fiammante rappresenti comunque la speranza, la voglia di vivere, la passione….
brava
grazie
Il racconto è affascinante, si nutre di una sensualità fatta di sinestesie di sentimenti e di ellissi della razionalità pensante. La narrazione si avvale di una focalizzazione interna che accompagna l’iter di consapevolezza crescente che caratterizza i personaggi. E’ soprattutto il protagonista maschile che assume su di sè il peso doloroso di un percorso di formazione che lo condurrà alla frantumazione del mondo che lo aveva accolto e in cui aveva finito per assopirsi: la donna diventa conoscenza epifanica del sè e dell’altro, all’uomo, rimasto di fronte al disco muto della Callas, non resta che aprirsi a nuovi orizzonti. Ci troviamo anche di fronte a una narrazione che trae il suo alimento dall’alternanza di pieni e di vuoti: la città piena di case vs. la campagna invasa dal vento e dagli alberi stormenti, la pienezza dei corpi dalle cicatrici parlanti vs. l’indistinta, incerta e silenziosa presenza del mare, a cui solo i pensieri possono dare forma. La forma dell’acqua è una citazione da Camilleri che l’autrice si concede in un contesto stilistico che rimanda più a Saramago (basti pensare alle Intermittenze della morte) e che risente sicuramente del background di personaggi femminili postmoderni (come quelli di Doninelli), sospesi tra una vita suburbana di normalità e l’evasione in un mondo altro di dischi, libri e uomini rapsodi.
racconto che si snoda con ritmo serrato e sapiente. lucido. che gira intorno alla spirale dei sentimenti senza cedere a sentimentalismi. mentre il racconto si arricchisce di particolari descrittivi. mi è piaciuto.