Racconti nella Rete®

24° Premio letterario Racconti nella Rete 2024/2025

Premio Racconti nella Rete 2022 “Leggerezza” di Nicoletta Mauceri

Categoria: Premio Racconti nella Rete 2022

“Doveva essere un’estate speciale. E invece l’inferno in terra, una punizione senza appello”. Questo rimugina Zahra mentre in bicicletta, un macigno sul cuore, pedala con forza, le gambe appesantite dallo sforzo, i muscoli dei polpacci contratti allo spasimo, le ruote che alle curve slittano sul terreno polveroso e sui sassi. Pedala veloce in salita dal centro della città verso casa.

Pedala con la determinazione, la forza e la leggerezza della sua gioventù. I pensieri si accavallano, vuole arrivare il prima possibile. È spaventata. Deve parlare con i suoi genitori. Si piega in avanti sul manubrio quasi a spronare la bicicletta. Un anziano contadino che accompagna un asino carico di fieno si ferma sul ciglio della strada, la guarda passare e poi scuote la testa in segno di disapprovazione. Zahra corre come avesse il diavolo alle calcagna. Da mesi erano tutti consapevoli, a Kabul, che qualcosa sarebbe successo. Ma confidavano che alla fine non sarebbe cambiato nulla, o almeno che l’epilogo sarebbe stato diverso. Che il governo non si liquefacesse. Che la loro città non cadesse di nuovo in mano ai talebani, come molti dei villaggi rurali.

Già da tempo lottavano contro la pandemia e ora anche questo. La strada, se così si può definire quel viottolo sterrato, s’inerpica per la collina. È agosto, fa caldo. La mattina Zahra era uscita per sbrigare delle commissioni al mercato. Prima di pranzo aveva appuntamento alla scuola di musica per la solita lezione ma ha trovato le strade bloccate, ovunque uomini barbuti armati fino ai denti. Continua a pedalare verso casa, fa caldo e l’hijab non aiuta. A tratti deve anche trattenere il lungo vestito che copre i pantaloni, altrimenti si infila nella catena. Zahra è figlia unica. Vive in una famiglia istruita e progressista. Può studiare, ascoltare la musica, andare a spasso con le amiche, non indossare il burqa celeste e giocare con gli aquiloni, farli volare. In giugno si è laureata in agronomia all’università. Un corso a numero chiuso durato tre anni. Solo pochi gli studenti ammessi e quasi solo uomini. Lei si è rivelata una delle allieve migliori. È l’orgoglio di suo padre che lavora come interprete per una ambasciata europea. È fortunata. Può contare su due genitori adorabili che le consentono di studiare il violino e di andare persino in bicicletta, una bicicletta tutta sua che lei chiama affettuosamente Farah, nella sua lingua vuol dire gioia, allegria. A Kabul l’andare in bici per le donne è un vero tabù, disonora la famiglia, dà scandalo.

Ma lei non si è mai data per vinta. Anche quando l’hanno insultata e minacciata. Una volta tornando dall’università le hanno anche tirato dei sassi. La nonna che vive con loro a volte borbotta qualcosa circa le sue abitudini moderne ma è stata proprio la nonna a comprarle il suo primo aquilone. Zahra significa “brillante”, “risplendente”. E così le è sempre sembrata la sua vita sino ad ora. Ora ha paura. Una paura disperata di qualcosa che non conosce ma di cui ha sentito raccontare a casa. Mentre pedala ripensa al programma che aveva in mente per quella estate, una vacanza e poi il trasferimento all’estero per il master, a New Delhi. Una conquista. Aveva tanti progetti. La vacanza era prevista a casa degli zii. Abitano con Nahal, la sua unica cugina, a Maidanshahr, un villaggio di poche anime a due ore da Kabul. Zahra adora quella campagna, i torrenti, i boschi. Le variopinte distese di papaveri, i papaveri da oppio, la prova vivente di come in questo mondo ogni cosa può essere allo stesso tempo meravigliosa e dannata. Le piace trascorrere del tempo a casa degli zii che adora.

Mentre pedala ricorda le giornate trascorse con loro in passato. Estive calde giornate dal ritmo lento e serate fresche con in cielo una luna grande grande, ipnotizzante. È quasi arrivata. La sua casa nella caotica e trafficata Kabul è una di quelle costruzioni variopinte costruite sulle pendici dei monti che fanno da cornice alla città. Una di quelle case di fango che per dare nuovo impulso e dignità alla zona sono state ridipinte con colori vivaci. Tutto quel marrone trasformato magicamente in un arcobaleno di colori. Case blu, rosa, gialle. La sua è celeste.  Non ci sono case rosse. Di rosso c’è già stato troppo a Kabul. Parcheggia la bicicletta nello stretto vicolo davanti all’ingresso di casa, una porta celeste con due gradini sgretolati, stando attenta a non mettere i piedi nel rivolo di scolo che corre nella via, parallelo alle case. Due bimbe piccole figlie della vicina con una gallina al seguito le vengono incontro. Le bimbe, come già successo altre volte, la osservano scendere e riporre la bicicletta con il solito stupore misto a timore e curiosità. Quasi fosse un alieno che scende dalla navicella in pieno giorno.

Entra in casa e trova tutti davanti al televisore. Anche la nonna. Ovviamente già sanno. Si toglie le scarpe e silenziosamente si avvicina camminando sul tappeto che ricopre il pavimento. Nessuno commenta quello che vede. Assistono in silenzio. La televisione, un canale estero, mostra le strade invase da auto con uomini armati e gente che fugge, le stesse scene che ha appena visto Zahra in centro. È il peggior epilogo che avrebbero mai immaginato. E scioccante la velocità della disfatta dell’esercito che si arrende senza combattere. Tra poco sarà il caos. Le forze straniere lasceranno il paese perché prioritari altri interessi. Il probabile epilogo è una guerra civile. Anni di lento progresso distrutti in pochi giorni. Il futuro perduto. Il papà si alza lentamente e spegne la televisione. A Zahra non sembra la stessa persona con il quale ha riso e fatto colazione solo poche ore prima. È invecchiato di colpo. Non è un modo di dire, un luogo comune, ma è proprio così. Con fare cupo l’uomo dice che non possono rimanere più a Kabul. Che partiranno per nascondersi in campagna, dagli zii, e intanto cercheranno degli aiuti per uscire dal paese. Che non c’è altra via per salvarsi. Ha lavorato con gli occidentali e la loro famiglia è in grave pericolo. Dice che quando esce, dorme e lavora vede sempre e solo la guerra.

Seguono giorni di preparativi febbrili. Escono di rado e solo per urgenze, è troppo pericoloso. Il padre si raccomanda di portare solo i vestiti e lo stretto necessario. Ma qual è lo stretto necessario di una vita? Arriva la notte della partenza. Caricano un furgone di fortuna che li contiene tutti. Zahra sale dietro, per ultima, con la sua bicicletta. Il padre cerca invano di dissuaderla a portarla, obietta che non le servirà, che gli zii non vorranno. Lei insiste caparbia, non la lascerebbe per nulla al mondo.  

Il percorso per arrivare non è lungo ma è complicato riuscire ad eludere i posti di blocco. Viaggiano su sentieri tortuosi in mezzo ai campi per vie non battute e in un buio completo. Quando pensano di scorgere qualcuno in lontananza spengono i fari e attendono. Sta albeggiando e arrivano a Maidanshahr. La casa degli zii è un casermone marrone lontano dal centro abitato. Sul davanti c’è un cortile e lì trovano la zia già intenta a prendere l’acqua dal pozzo insieme a Nahal. Il furgone viene sistemato e nascosto nella rimessa e le due famiglie si raccolgono in casa. In campagna la percezione della catastrofe si avverte meno. Gli zii conducono una esistenza ritirata, semplice, attenti a rispettare tutte le imposizioni dei talebani la cui presenza lì è già una realtà da tempo. Nahal, sebbene coetanea di Zahra, ha frequentato solo le scuole elementari e trascorre le sue giornate a casa aiutando nella conduzione della attività agricola del padre. Anche loro sanno della folla disperata assembrata all’aeroporto di Kabul, degli uomini aggrappati alle fiancate degli aerei, dei bambini passati ai militari sopra il filo spinato. Conoscono i talebani ma ci convivono. Solo a distanza di due ore da Kabul la vita scorre tanto diversamente. Qui gli aquiloni non volano già da tempo e le donne quando escono indossano un burqa celeste. Trascorrono i giorni e per Zahra e la sua famiglia si fa sempre più impellente la necessità di fuggire all’estero anche per non mettere in pericolo la vita degli zii. Una mattina Zahra mentre esce in cortile in cerca di Nahal per condividere i profumati Jalebi la trova seduta nella rimessa in contemplazione della sua bicicletta, Farah.

  • Ti piace?
  • È bellissima, deve essere anche veloce.
  • Vuoi provarla? Sai non è difficile andare in bicicletta. Basta imparare a tenersi in equilibrio. Il problema è solo all’inizio.
  • No, non posso. Non si può…mi piacerebbe…ma poi mamma…non ho i vestiti adatti, poi se cado…
  • Dai, andiamo nel viottolo vicino al fiume, lì non passa mai nessuno. Lì non ci possono vedere. Ti insegno io, ti aiuto, non ti faccio cadere…

La conversazione va avanti in questo senso per parecchio, poi Nahal, sebbene sempre titubante, si fa convincere. Le due ragazze si avviano con la bicicletta condotta a mano verso il fiume. La mattina passa veloce e loro si divertono come non accadeva da tempo. Da quel giorno quasi ogni mattina, quando gli adulti non vedono, le due cugine si allontanano per la loro lezione in bicicletta per i sentieri meno battuti. Zahra regge con una mano il sellino e con l’altra sostiene Nahal sulla spalla. Le dice di guardare avanti e di trovare il punto di equilibrio. Via via la ragazza si  lancia, trova la sua via e con quel mezzo proibito assapora la velocità, il vento, l’indipendenza, qualcosa di molto vicino alla libertà. Esultano felici. Non c’è più nulla, il caos, la disperazione, i talebani, esistono solo due ragazze, e una bicicletta che riesce a regalare a entrambe un po’ di leggerezza.

Una settimana dopo arriva il giorno della partenza. Zahra e la famiglia hanno la possibilità di fuggire in aereo in Europa. Hanno cercato di convincere anche gli zii e Nahal a partire con loro. È difficile andare via e ancora di più sapere che loro resteranno. Gli zii però preferiscono restare e Nahal con loro. La loro vita è lì. Non se la sentono di vivere come profughi, lontano dalle loro radici. Sono decisi a resistere alla tempesta che sconvolgerà di nuovo il loro paese.

Anche questa volta Zahra e la sua famiglia partiranno di notte con il furgone per raggiungere Kabul e l’aeroporto. Hanno dei lasciapassare dell’ambasciata. L’aereo parte di mattina presto. È l’ultima occasione che hanno per fuggire.

Dopo pranzo le ragazze come al solito prendono la bicicletta e si avviano verso il fiume mentre gli adulti sono presi dalle incombenze giornaliere o dai preparativi per la partenza imminente. Il sole filtra attraverso il fogliame e si riflette sulle medagliette dorate di cui è ornato l’hijab di Nahal. Ne risulta una cascata di luci dorate. La malinconia del prossimo distacco è mitigato dall’allegria propria della loro età. Sono certe di rivedersi presto, certe che i talebani spariranno di nuovo e che tutto tornerà come prima. Zahra come al solito cammina accanto a Nahal che incede a zig zag sul sentiero cercando di governare la bicicletta. Stamattina hanno leggermente alzato il sellino perché le lunghe gambe di Nahal possano pedalare meglio.

Ogni tanto si guardano ridendo. Poi Nahal stabilizza l’equilibrio e prende velocità. È felice e, prima di lanciarsi, si volta ancora una volta verso Zahra che la incita spingendola delicatamente ancora una volta con la mano posata sulla sua spalla. E mentre avanza sicura, proprio allora si ode uno sparo, poi un altro. Zahra cade a terra in avanti e il sorriso le si spegne in un attimo. Le parole le muoiono sulle labbra. Nahal fa in tempo a capire e a gridare qualcosa poi cade anche lei sotto i colpi di uomini invisibili. Anche il suo sorriso e i suoi sogni si spengono per sempre. Farah, la loro bicicletta, finisce la sua corsa solitaria e rimane lì sul sentiero polveroso.

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5 commenti »

  1. Il potere entra nelle vite e toglie spazio, aria, vita. Per la leggerezza, i grandi sogni, le piccole gioie non c’è posto, e basta. Ben scritto, rende gli sprazzi di luce e allegria che tagliano la cappa di costrizione.

  2. Grazie per il bel commento. Con una frase è riuscito a definire compiutamente quel che volevo trasmettere nello scrivere questo racconto. Anche il non detto. Grazie e buona giornata.

  3. Bellissimo e tristissimo. Ogni altro commento mi sembrerebbe forzato, vista la drammatica e attuale realtà. Complimenti e in bocca al lupo.

  4. Bellissimo e terribile, ma è la realtà…

  5. Grazie a tutti per i commenti e l’attenzione prestata al racconto, grazie molte

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